Opera Omnia Luigi Einaudi

Lira e scudo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/09/1961

Lira e scudo

«Corriere della Sera», 22 settembre 1961

 

 

 

Il mutamento di denominazione della unità monetaria italiana, la lira, non è dunque richiesto da alcuna esigenza o vantaggio sostanziale. L’unità «lira» anche se è divenuta piccola o minima, uguale all’incirca ad un terzo di quei centesimi che già al principio del secolo erano andati per lo più fuori uso per la loro piccolezza, adempie egregiamente al suo ufficio di misura stabile dei valori.

 

 

Le sole ragioni del mutare sono secondarie, di prestigio nazionale, di fastidio delle comiche cifre di milioni e milionari, di noia nello scrivere cifre lunghe. Anche queste ragioni hanno il loro peso; ma non dobbiamo per ciò farci correre il rischio, mutando, di procacciare a noi stessi qualche malanno sostanziale. Non val la pena di imitare l’esempio francese, del trasferimento, della virgola di due cifre verso sinistra, con l’inconveniente certo di imbrogliarci nel discorrere e con il rischio, anche piccolo, di provocare il noto fenomeno, iniziale ma esistente, di una certa vischiosità nei prezzi.

 

 

Fa d’uopo essere sempre moltissimo esitanti nel proporre rimedi ad inconvenienti in fondo tollerabili; ma, poiché il discorso ritorna ad ogni tratto, direi che il rimedio migliore sia quello di innovare in modo non obbligatorio; cosicché, nell’uso comune continuino indefinitamente ad essere usate due unità monetarie con due differenti nomi.

 

 

Nel tempo dei frequenti sperimenti monetari, che valse da Carlomagno alla rivoluzione francese, fu non di rado usato il sistema della lira piccola e della lira grossa, dello scudo piccolo e dello scudo grosso, del ducato piccolo e del ducato grosso. Finì col tempo e nell’uso comune che il nome principale – lira o scudo o ducato – fu trascurato e si parlava di «piccoli» e di «grossi», che era un parlare monetariamente poco dignitoso.

 

 

Poiché non bisogna inventare nomi storicamente nuovi; e poiché le vecchie denominazioni italiane, come fiorino o zecchino, assai belle in se stesse, non sono nel ricordo comune, direi che il vecchio «scudo», di cui gira ancora qualche campione e che tutti ricordano, non sia una denominazione da buttar via.

 

 

Se, ad esempio, si emettessero biglietti della Banca d’Italia a doppia dicitura: 1.000 lire ed 1 scudo, non si obbligherebbe nessuno a mutar stile di parlare e conteggiare. Dapprincipio, tutti seguiterebbero a parlare ed a scrivere in lire. A poco a poco, taluno riterrebbe più comodo dire, invece di 1.000 lire, 1 scudo; invece di 10.000 lire, 10 scudi; e le autorità monetarie sarebbero quasi spontaneamente indotte ad andar avanti ed a stampare biglietti da 100.000 lire che sarebbero poi soltanto 100 scudi; e non parrebbe più cosa tanto strana stampare un biglietto da 1 milione di lire, che sarebbero poi soltanto 1.000 scudi, qualcosa di più di 1.000 dollari e meno di 1.000 sterline che sono, credo, biglietti ogni tanto visibili.

 

 

Si potrebbe cogliere l’occasione di sostituire ai fogli sesquipedali odierni da 5.000 e 10.000 lire, biglietti simili ai dollari, che per il loro formato non richiedono di essere malamente spiegazzati ed entrano distesi nei comuni portafogli da tasca.

 

 

La parità 1.000 lire = 1 scudo avrebbe il vantaggio di ricordare che lo scudo sarebbe uguale al gran circa a tre lire del principio del secolo, quando la lira aveva una potenza di acquisto uguale a 300 – 350 volte quella della lira odierna.

 

 

In verità, nei nostri ricordi, lo scudo era di 5 lire; ma nella storia non sono ignoti i luoghi ed i tempi nei quali lo scudo valeva le 6, le 4 e le 3 lire.

 

 

Non è questo un problema sostanziale; e la parità 5 avrebbe il vizio di non collegarsi bene in Italia alla potenza d’acquisto tradizionale, che va dall’anno ottavo (1800) al 1914, della lira. Nel far di conti, le banche e le ditte importanti, le amministrazioni pubbliche preferirebbero, un po` per volta, le une dopo le altre, di fare i conti in scudi. Facilissimo del resto, passare mentalmente, nel leggere, dallo scudo alla lira e viceversa; bastando aggiungere o togliere tre zeri.

 

 

Il che, fra l’altro, corrisponde al nostro comune metodo di fare i calcoli, il quale procede per tre cifre e non per due né per cinque. I prezzi non avrebbero ragione di variare al di là dei soliti prezzi in lire. Se il venditore chiede 2 scudi per una merce sin qui valutata 1.000 lire, il compratore subito obbietta: perché i prezzi sono aumentati? Non ho pagato ieri 1.000, che sono 1 scudo, come è stampato sul biglietto medesimo? Perché uno scudo di più, ossia 1.000 lire di più?

 

 

Tutto sommato, parmi che l’uso facoltativo dello scudo sia atto a risolvere, col minimo di attrito, il problema di prestigio e di comodità della unità monetaria italiana. Ripeto che non si tratta di risolvere nessun problema di sostanza.

 

 

La sostanza si osserva mantenendo costante il potere d’acquisto della moneta; che è faccenda la quale dipende dalla sapienza, dalla prudenza, dalle doti di equilibrio, di manovra del governatore della Banca d’Italia e dei suoi collaboratori; e dipende in secondo luogo e massimamente dall’attitudine e fermezza di carattere dei governanti del tempo, i quali sappiano nel tempo stesso mantenere l’equilibrio nelle entrate e nelle spese pubbliche e queste proporzionarle al reddito nazionale.

 

 

Che se queste qualità non sono mantenute salde, non giovano i nomi di lire e di scudi, di dollari, di marchi e di sterline. Qualunque sia il nome, le cose possono prosperare od andare alla gran diavola.

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