Lineamenti di una politica economica liberale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1943
Lineamenti di una politica economica liberale
Roma, Movimento Liberale Italiano, 1943
Milano, Delegazione Alta Italia Pli, 1945
Roma, Pli, 1945
I liberali non possono promettere, a guerra finita, il millennio a nessuno, non ai ricchi ed ai poveri, non agli industriali ed ai proprietari e non perciò neppure agli operai ed ai contadini. Essi non possono mettersi avanti in formule vaghe come “nazionalizzazione”, “socializzazione”, “terra ai contadini”, minimo reddito assicurato a tutti, i cui risultati sarebbero disillusioni acerbe per le masse e sopravvento, col favore inconscio di ingenui utopisti, di nuovi arrivisti e di nuovi plutocrati, probabilmente peggiori di quelli che furono il frutto di simili predicazioni vent’anni or sono.
I liberali non possono illudere il popolo promettendogli ricchezze e prosperità e larghi guadagni in seguito ad una guerra e ad un regime che di tanto disastro morale e materiale fu causa per il nostro paese. Essi promettono soltanto quel che sanno di poter mantenere: e cioè di porre le condizioni dalle quali, con lo sforzo intenso di qualche anno e con la tolleranza reciproca di tutti i volenterosi, uscirà una nuova Italia più prospera, più saggia della attuale, nella quale si produrrà più grande quantità di ricchezza e questa sarà più equamente distribuita, con l’elevamento delle masse e con il taglio delle teste dei papaveri, i quali si siano, senza merito proprio e legittimi titoli, elevati sopra gli altri.
Essi sono contrari alle violenze espropriatrici, alle grandi riforme ad effetto immediato imposte con metodi giacobini, in tutto uguali ai metodi di forza usati dai partiti totalitari. Ma sono aperti a qualunque ideale, purché esso sia il frutto di aperta, libera discussione, alla quale partecipino tutte le tendenze, tutti i partiti economici e sociali. Dai cattolici sociali ai comunisti, tutti debbono far sentire la loro voce; e quando una maggioranza sicura e ragionata si sia costituita attorno ad una soluzione, le minoranze avranno, in un regime liberale, non solo il dovere negativo di sottomettersi, ma quello positivo di collaborare. Quali siano i metodi costituzionali con i quali dovrà essere garantito l’esercizio del diritto di discussione e di libera ragionata deliberazione, non è qui il luogo di esporre.
Alla ribalta della discussione, i liberali porteranno i seguenti problemi: in primissimo luogo la lotta contro la plutocrazia. Non la lotta contro l’industriale che tenta nuove vie, che organizza meglio l’impresa, che accresce la produzione in modo remunerativo in libera competizione con tutti i concorrenti. Non la lotta contro il proprietario il quale migliora le sue terre, contro il fittabile che applica allo sfruttamento delle terre altrui una esperienza acquisita, forse in parecchie generazioni di strenui lavoratori, capitali accumulati col risparmio ed operosità quotidiana. Quella che si impone invece è la lotta a fondo contro tutti coloro che nelle industrie, nei commerci, nelle banche, nel possesso terriero hanno chiesto i mezzi del successo ai privilegi, ai monopoli naturali ed artificiali, alla protezione doganale, ai divieti di impianti di nuovi stabilimenti concorrenti, ai brevetti a catena micidiali per gli inventori veri, ai prezzi alti garantiti dallo Stato.
La lotta a fondo, senza quartiere dovrà essere combattuta su due fronti. In primo luogo sbarazzando il terreno da tutti i privilegi, vincoli, protezioni, contingentamenti, leggi, senza di cui la plutocrazia non avrebbe conquistato quei successi economici e quella corruttrice influenza politica che oggi l’ha fatta padrona del nostro paese.
Il momento per combattere la lotta contro i privilegi è proprio il presente. Sotto l’egida di uomini persuasi in buona fede che il paese andrebbe alla deriva se essi non fossero pronti a salvarlo, agricoltori incapaci a produrre economicamente il grano ed industriali impotenti a rinnovare i loro impianti chiedono allo stato prezzi di favore, sussidi e concorsi niente affatto necessari alla ricostruzione. In un momento in cui tutti sono sicuri di vendere a buoni prezzi qualunque cosa prodotta, si osa chiedere il ristabilimento dei dazi doganali protettivi. Taluni partitanti incoraggiano di nuovo all’assalto contro il denaro pubblico, nella vana illusione di procacciar lavoro agli operai.
In secondo luogo nei casi nei quali la lotta sul primo fronte non sia sufficiente, sottoponendo al controllo pubblico le imprese le quali abbiano su di sé stampato il marchio naturale del monopolio. Noi non useremo la parola nazionalizzazione, perché essa è equivoca e spesso priva di contenuto. Ma daremo opera ai fatti. Ad esempio per ricordare un esempio solo, l’industria idroelettrica è, in Italia, nazionalizzata sin dall’epoca liberale, perché tutte le acque appartengono nel nostro paese al demanio pubblico e, scaduti i sessanta anni dalla concessione, anche gli impianti ricadono, senza alcun indennizzo, in piena e libera proprietà dello Stato. Noi vogliamo andare più innanzi; e poiché lo scopo della nazionalizzazione, od almeno il principalissimo scopo, è quello di rendere servigio al pubblico ad un prezzo non superiore al costo, noi chiederemo che anche durante il sessantennio di concessione, lo Stato intervenga permanentemente e non in modo saltuario e disordinato a determinare, attraverso discussione e con giudizio di arbitri imparziali, il massimo di tariffa che potrà dalle società concessionarie essere applicato alle diverse categorie di utenti della energia prodotta e venduta dalle società concessionarie. E così si dovrà fare in ogni caso, variamente a seconda della natura dell’industria; e ché in un caso lo Stato potrà esercitare direttamente certe industrie (ad es.: fra le altre, quella degli armamenti, per cui probabilmente interverranno altresì regolazioni internazionali); in altro caso l’eserciterà per mezzo di società, in cui esso sarà il principale azionista, in altri mediante varie forme di concessione ad Enti pubblici o a società private, sempre con regolazione dei prezzi. I liberali escludono soltanto gli interventi inutili, disturbatori di attività private anche rilevanti, le quali si svolgano alla luce del sole, senza chiedere alcun privilegio, senza imporre prezzi di monopolio ai consumatori, senza ottenere alcun sussidio dallo Stato.
Dopo la lotta contro la plutocrazia, la lotta contro il latifondo. Ma non la lotta a base di spreco di miliardi, di costruzione di false case rurali per falsi contadini stipendiati dall’erario. La lotta contro il latifondo è lotta per la redenzione della terra, che è lotta di secoli. Quasi compiuta nell’alta e nella media Italia, salvo in talune zone montagnose ed in altre ancora ribelli alla bonifica, essa ha ancora un vasto campo di azione nell’Italia meridionale e nelle isole. E sarà opera di giustizia verso queste regioni, le quali tanto hanno sofferto per il regime di privilegio instaurato a favore delle industrie prevalentemente localizzate nell’alta Italia. Ma noi non daremo, a titolo di compenso, nessun privilegio alle regioni latifondistiche. Intensificheremo l’opera di bonifica integrale, colà appena iniziata: bonifica dalla malaria, dalle paludi, dalle inondazioni torrentizie; rimboschimenti, imbrigliamenti; strade pubbliche e poderali. Correlativamente a queste opere di ricostruzione di un suolo eroso dalla incuria secolare, dovrà procedere l’opera di appoderamento. La quale non potrà e non dovrà essere foggiata su unico tipo. Questo è errore gravissimo, che spiega l’insuccesso della lotta che con lo stesso nome, a scopi politici e propagandistici, si conduce da tanto tempo, da quando ancora l’Italia non era unita. Le condizioni dei luoghi, la struttura sociale, i costumi degli abitanti detteranno le regole del successo. Non è irragionevole che il contadino desideri vivere insieme con i contadini; e perciò la piccola e media proprietà coltivatrice, parcellare ed autonoma dovrà fare come la macchia d’olio; ed i poderi affittirsi attorno ai centri abitati e via via allontanandosi dai centri conquistare gradualmente terreno a spese della grande proprietà industriale. A questa spetterà dapprima sopportare i costi e godere i frutti eventuali della trasformazione delle ampie estensioni di terreno a cultura cerealicola estensiva e a pascolo in fattorie dotate di fabbricati rurali, di stalle modello, di strade, di case d’abitazione, di chiese e scuole. Su queste fattorie industriali dovrà formarsi una classe contadina istruita, partecipe in parte ai rischi ed ai vantaggi delle culture, educata gradualmente a diventare essa stessa proprietaria. Consideriamo utopia dannosa quella che si ammanta del titolo di “riforma agraria” e che vorrebbe d’un tratto costituire, dove non esiste, un forte ceto di proprietari coltivatori; baluardo e sostegno della società. Là dove il ceto esiste, esso fu il risultato di una lenta opera educativa, che tuttora prosegue. Noi vogliamo estenderla a tutta Italia; e siamo persuasi che solo così si riuscirà a generalizzare un sistema sociale, che del resto vanta già in tante regioni d’Italia settentrionale e media amplissime applicazioni.
Ma la lotta contro la plutocrazia e il latifondo dovrà anche essere combattuta, a parer nostro, sovratutto con un’azione diretta ad innalzare le masse ed a renderle degne e capaci di prendere parte al governo economico della società. Non vogliamo, si avverte subito, paternalismo e largizioni. La politica del panem et circenses repugna profondamente allo spirito liberale. Deve essere dato mezzo alle classi operaie e contadine di conquistare, elevando se stesse, sorti migliori. Le assicurazioni sociali, che danno sicurezza di vita, come quelle per la invalidità e la vecchiaia, per gli infortuni, per la maternità, iniziate dai regimi liberali, dovranno dal rinnovellato liberalismo, essere portate a compimento. Alla disoccupazione si dovrà provvedere in guisa che i sussidi non siano di eccitamento all’ozio e, per il controllo mutuo degli operai, rafforzino la loro libera organizzazione sindacale. Così pure alla assicurazione malattie dovrà essere tolto tutto ciò che oggi la rende invisa a malati ed a medici, ponendo la scelta dei medici e il controllo della malattia entro il quadro di casse locali e professionali elettive da parte di ambo le parti interessate.
Sovratutto, alla elevazione delle classi operaie e contadine contribuirà la restituzione piena della libertà sindacale. Al luogo del sindacato unico, strumento, sotto qualunque governo, di oppressione poliziesca, dovranno ritornare i sindacati liberi, che gli industriali e gli operai organizzeranno, ogni qualvolta ne sentiranno il bisogno, secondo le proprie tendenze spirituali e i proprii interessi professionali. Non si deve aver paura della eventuale concorrenza di sindacati diversi. In Italia ed altrove la libertà sindacale ha favorito l’aumento dei salari, la diminuzione della giornata di lavoro e sovratutto la dignità del lavoratore, che da paro a paro tratta, attraverso i suoi uomini migliori, con i datori di lavoro. Operai e industriali, contadini e proprietari non si elevano trattando, attraverso ad impiegati non scelti da essi e formanti una burocrazia occupata solo a giustificare stipendi; ma attraverso il sacrificio di quote volontariamente da essi pagate e uomini da essi scelti. Sarà da studiare quale sia la miglior maniera di rappresentanza dei lavoratori e degli imprenditori, in un “Consiglio nazionale del lavoro” e in “Consigli di risoluzione delle controversie del lavoro” e quali siano le attribuzioni da attribuirsi a questi organi rappresentativi professionali in un rinnovato regime di libera rappresentanza politica.
I liberali non possono promettere aumenti notevoli di guadagni a tutti gli operai come effetto di una generalizzata obbligatoria partecipazione ai profitti. Essi ricordano che in Inghilterra, patria della più antica e solida organizzazione sindacale, le leghe operaie sono sempre state diffidentissime verso la partecipazione, che esse definiscono il cavallo di Troia introdotto dagli industriali nella fortezza sindacale. I profitti sono infatti, per chi non li confonda grossolanamente con la normale remunerazione del risparmio, per loro natura un di più ottenuto dalle migliori imprese ed inesistente nella generalità dei casi. La partecipazione ai profitti è, perciò, un fatto di minoranza. Ove si riconosca – come dopo breve esperienza i rappresentanti degli operai sarebbero costretti a fare – questa sua natura, la partecipazione potrà, se congegnata variabilmente, per accordi volontari, in maniera adatta alla singolarità delle imprese diversissime le une dalle altre, riuscire a promuovere la formazione di gruppi scelti di tecnici e di operai qualificati atti a promuovere il miglioramento dell’industria.
L’azione dello Stato liberale non si esaurirà nei compiti fin qui enunciati. In un rapido quadro, non si può tutto esporre. Basti dire che Stato liberale non vuol dire Stato assente, ma Stato che vigile agisce ogni giorno per adempiere ai fini suoi proprii. La politica dei lavori pubblici, antico vanto dei regimi liberali, i quali avevano costruito tra il 1860 ed il 1914 ferrovie, strade, porti ed avevano dato al paese gli strumenti materiali della vittoria, dovrà essere perfezionata e servire a due compiti. Il primo che è quello di rendere sempre più esteso e ricco quello che si può chiamare il demanio nazionale. Non vi è limite alla quantità di opere pubbliche destinate a rendere più feconda l’opera dei produttori e più bella la vita dei cittadini. Ricostruzione delle città distrutte dalla guerra, rimboschimenti, bonifiche, ponti, canali navigabili, strade e poi strade ed ancora strade, nazionali, comunali, vicinali, poderali, scuole, giardini pubblici, città giardino, case rurali e così via, quanto è ancora da fare ed a quante esigenze si dovrà provvedere!
Mentre non si vede un limite alle esigenze imposte da una vita pubblica sempre più intensa e ad una vita civile nella quale l’uomo avrà gratuito accesso collettivo a molte soddisfazioni che sono ancora l’appannaggio di pochi, lo Stato liberale, dovrà nel condurre la sua politica di lavori pubblici, aver l’occhio intento a conseguire un altro scopo: che è di farla agire come volante regolatore della attività economica generale; rallentando l’opera sua nei tempi di prosperità e accelerandola nei tempi di crisi, così da mantenere, entro i limiti del possibile, continua e piena l’occupazione dei lavoratori.
Politica anche non nuova, che gli uomini della generazione fra il 1880 ed il 1900, inconsapevoli di teorie economiche troppo eleganti venute ora di moda, avevano adombrato creando nel bilancio dello stato la categoria del “movimento dei capitali”, anticipazione memoranda di quelli che furono poi chiamati bilanci o piani quinquennali e settennali. Ma politica che dovrà essere raffinata col mantenere quadri elastici di dirigenti tecnici economici i quali preparino, nei tempi prosperi, i piani dei lavoratori avvenire e sappiano metterli in atto gradatamente a mano a mano che rallenti l’attività privata. Il che non vuol dire politica finanziaria allegra da parte dello Stato; ma anzi richiederà severità grande nel maneggio del pubblico denaro. Il conte di Cavour, il grande politico liberale, il maggior uomo politico liberale del secolo XIX, ritenne sempre compatibile l’ideale del pareggio del bilancio statale e quello di una forte politica economica progressiva; ed ai fautori del pareggio borbonico a corte vedute e ad ogni costo, che era il pareggio della miseria, contrapponeva il suo pareggio, che consentiva gli investimenti nelle grandi ferrovie transappenniniche e transalpine, lo ampliamento dei porti commerciali e militari, l’entrata del Piemonte e, col Piemonte, dell’Italia, nelle gare economiche internazionali.
Così dovrà essere ancora una volta per la nuova Italia. Nei consessi internazionali, l’Italia non chiederà diritto ad avere materie prime a prezzi di favore, che sarebbe elemosina avvilente e servile, ma diritto a comprare liberamente dappertutto le materie prime a prezzo di mercato. E perché mai l’italiano nuovo, che vogliamo libero, elevato spiritualmente e tecnicamente istruito, dovrebbe essere incapace, come ci calunniarono sempre i nostri tiranni, a procacciarsi, in gara con altri, le materie prime che egli giudicherà conveniente di comprare? Ma l’Italia chiederà altresì, con offerta di reciprocità, di poter vendere dovunque i prodotti della sua industria e della sua terra. Niente ripartizioni forzate e pseudo sapienti dei campi di attività delle diverse nazioni. Gli italiani sentono di potersi conquistare un posto al sole colla propria attività e non temono di misurarsi in gara con altri. L’Italia liberale aderirà agli schemi, discussi in comune, per allentare gradatamente i vincoli doganali ed altri che oggi soffocano, come immane piovra, qualunque sforzo di lavoro; e sin d’ora augura prossimo il giorno in cui le barriere doganali siano allontanate dai suoi confini politici e portate a confini lontani di salde Unioni doganali internazionali.
Ma entro i confini delle libere nazioni del mondo i suoi figli dovranno potersi muovere liberamente. Siamo pronti a discutere le modalità della graduale liberazione dei cittadini dei paesi liberi dai vincoli che oggi impacciano la emigrazione permanente temporanea, dai paesi a popolazione sovrabbondante a quelli dove esiste ancora un margine disponibile di aumento. La libertà di movimento degli uomini nel mondo è la nostra meta. Non abbiamo paura che gli stranieri invadano il nostro paese, perché ci sentiamo capaci di assimilare i nuovi venuti. Né abbiamo paura che gli italiani abbandonino la madre patria se sapremo renderla di nuovo aperta a tutte le idee, a tutte le libere iniziative e perciò prospera e degna di ospitare uomini liberi.
Lo Stato liberale, il quale è antiplutocratico ed antiugualitario non avrà bisogno di prendere a prestito da altri i principii della sua politica tributaria. Non avrà da far altro che risalire alle sue tradizioni, quando gli eredi di Cavour avevano costruito un sistema tributario duro e semplice, che per lunghi anni portò al vanto di essere uno dei migliori del mondo. Bisognerà menar l’ascia demolitrice nella confusa boscaglia degli istituti tributari vessatori, improvvisati, improduttivi, creati o peggiorati nel ventennio. Le imposte dovranno tornare ad essere:
certe. Per correre dietro a dottrinarismi forestieri abbiamo dimenticato questa che è la qualità essenziale di ogni imposta. Non importa pagar molto, purché si sappia quanto si deve pagare e lo si sappia per tempo, in modo che ognuno possa fare i conti di quel che può fare, di quel che può intraprendere, senza odiose inquisizioni, senza pericolo di multe improvvise e imprevedute;
poche e semplici. È impossibile ridurre tutte le imposte ad una sola; ma occorre evitare che il contribuente non riesca più ad orientarsi in mezzo alle imposte e contributi o tasse di ogni sorta che da ogni parte lo minacciano e lo turbano;
stabilite sui godimenti e non sulla fatica. Bisogna abolire le imposte le quali gravano sulla produzione e sulle transazioni, che puniscono colui che lavora, mentre lavora e produce e commercia e cerca di spingere al massimo il suo reddito. Lo Stato deve aspettare il momento nel quale il cittadino ha ottenuto il reddito e lo consuma. Perciò le imposte sugli scambi, sui trapassi dei beni e delle cose sono pessime e se possibile converrà abolirle o almeno ridurle. Il peso delle imposte che non potrà, se si vorrà liquidare onorevolmente la eredità del passato e far fronte ai compiti vecchi e nuovi dello Stato, essere lieve, dovrà gravare sui redditi e sui consumi. Sui redditi superiori al minimo assolutamente necessario alla vita, se si tratta di imposte personali, sui redditi oggettivi dei beni fondiari e della ricchezza mobiliare, sui consumi che siano indice di una possibilità di spendere al di là delle cose di prima necessità;
graduate in modo da attenuare le disuguaglianze nella distribuzione delle fortune, senza intaccare l’interesse al risparmio ed agli investimenti. Le imposte siano uno strumento nella lotta contro la plutocrazia e il latifondismo e diano i mezzi per moltiplicare i beni di uso gratuito a vantaggio di tutti. L’arte del finanziere in uno Stato liberale dovrà consistere nello scoprire il punto critico al di là del quale l’imposta, crescendo ancora, deprimerebbe l’interesse a risparmiare e l’interesse alle nuove iniziative, che sono le condizioni di ogni progresso nella produzione della ricchezza e quindi della sua migliore distribuzione.
Strumento principale tributario della lotta con la plutocrazia ed il latifondismo e per l’ampliamento del demanio pubblico di beni di uso gratuito deve essere l’imposta successoria. Non quella tradizionale, la quale dovrà essere abolita in tutte le sue forme e sostituita da un’unica imposta che si potrebbe chiamare di avocazione. Supponendo, premessa necessaria a tutti i ragionamenti di riforma sensata, una moneta stabile, se il risparmiatore abbandona alla sua morte un patrimonio di un milione di lire, questo dovrebbe trapassare intatto al figlio, ma soggetto ad un’ipoteca per altrettanta somma a favore dello stato, ipoteca che le successive generazioni dovrebbero assolvere, un terzo per volta, ad ogni successivo trapasso per causa di morte. Così il risparmiatore sarebbe sicuro di tramandare al figlio l’intero suo risparmio; ma il patrimonio non potrebbe essere conservato se non da coloro che ad ogni, generazione lo ricostruissero per un terzo e dimostrassero col fatto di meritare di conservarlo. Gli inetti, i poltroni, sarebbero in tre generazioni del tutto espropriati a vantaggio dello stato. Senza stabilire un legame rigoroso aritmetico tra le due quantità, il provento dell’imposta successoria, ossia di un’imposta la quale in principio riduce il patrimonio privato, dovrebbe essere fatto servire all’incremento del patrimonio pubblico e principalmente all’attuazione di piani regolatori, i quali leghino la città alla campagna, creino strade, parchi nazionali, città giardini case a buon mercato ed in determinati casi gratuite (in sostituzione dei falansteri o ricoveri per vecchi) poste tra il verde e in rapida comunicazione con le città.
I nostri propositi saranno vani, se noi non ridaremo sicurezza alle transazioni, sovratutto sicurezza a quella che è già oggi e diventerà ognora più la maggior parte del reddito nazionale, ossia alla remunerazione dei capi e dei soldati del grande esercito del lavoro. Gran vanto dello Stato liberale del secolo XIX fu l’aver dato, per la prima e l’unica volta nella storia di un lungo periodo di tempo, e per la maggior parte dei paesi civili, stabilità alla moneta. Vanto e miracolo che il nuovo Stato liberale dovrà rinnovellare. Problema formidabile sarà quello di ridare ad una moneta che la guerra del 1914-18 aveva già ridotto ad un quarto della sua potenza d’acquisto – ma era ancora un quarto, inferiore ai due terzi della sterlina inglese ma superiore all’ottavo del franco francese! – e vent’anni di malgoverno hanno ridotto ad una evanescente parte di se stessa, tanto più evanescente quanto più rettoricamente clamorose le dichiarazioni di volerla difendere ad ogni costo. Compito formidabile, se si pensa che si dovrà escludere ogni forzata innaturale rivalutazione, che ripetute esperienze, antiche e recenti, hanno dimostrato causa di crisi profonde e di vasta disoccupazione. Ci dovremo necessariamente limitare al compito meno ambizioso e solo possibile e benefico di porre un fermo allo scivolio della lira verso il nulla e di ricominciare da quel punto fermo, che l’esperienza della graduale liberazione dei cambi e dei prezzi ci insegnerà quale possa essere, una nuova vita. E poiché, non per colpa nostra, quel punto fermo vorrà dire gravissimo danno per la classe media detentrice di impieghi (titoli di Stato, obbligazioni, cartelle fondiarie, crediti ipotecari e privati) a reddito fisso e dei numerosissimi percettori di stipendi, pensioni, assicurazioni sulla vita stilati in lire, si imporrà il problema della restituzione. La quale dovrà essere in integro per gli enti morali, a cui la svalutazione monetaria ha praticamente tolti i mezzi di vita e parziale e variabile per le altre categorie di danneggiati a seconda della data certa degli investimenti compiuti e della determinazione della cifra nominale degli stipendi, delle pensioni, dei salari, dei diritti a indennità assicurative ecc. ecc. Alle ingiustizie compiute contro i risparmiatori ed i lavoratori intellettuali a reddito fisso a causa del ventennio di malgoverno, lo stato liberale opporrà quell’opera di umana giustizia riparatrice quale maggiore l’attento studio delle possibilità finanziarie dello stato e dell’economia nazionale faranno ritenere possibile. Uno Stato il quale vuole elevare le classi lavoratrici al livello dei ceti medi non può abbandonare alla sua sorte il ceto medio esistente, che è stato e sarà di nuovo domani, grandemente aumentato di numero e quasi universalizzato, il fondamento più sicuro di una salda struttura sociale.