L’inchiesta sulla cassa mutua di Torino. Illusioni, errori e realtà
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/02/1911
L’inchiesta sulla cassa mutua di Torino. Illusioni, errori e realtà
«Corriere della sera», 27 febbraio 1911
Chi, dopo aver letto il grosso volume in cui la Commissione d’inchiesta sulla Cassa Mutua Cooperativa italiana per le pensioni raccolse i risultati delle sue lunghe, laboriose e minuziose indagini, voglia riassumere in un quadro d’insieme l’impressione ricevuta dalla lettura, si trova non poco imbarazzato: tanto grande è la moltitudine dei particolari, la accuratezza dei rilievi, delle repliche e delle contro osservazioni, con tanta cura è esaminato ogni aspetto della vita di un Istituto, indubbiamente imponente per la grandezza del capitale accumulato. Il compito mio è facilitato però dal fatto che i giornali quotidiani hanno già schiumato quel che di piccante e di personale si legge nelle pagine della relazione; onde è ragionevole non indugiarsi più oltre. Tanto più che di scorrettezze gravi, intaccanti l’onore e la moralità personali dei dirigenti, la Commissione d’inchiesta non dichiara di aver sicure prove. Essa si è limitata a ricevere ed a vagliare alcune deposizioni relative a mediazioni che si affermano date e che si nega di aver ricevuto; ma non poté andare a fondo, difettando di poteri giudiziari, che il Governo non poteva conferire, essendo in facoltà soltanto del legislatore di mutar l’ordine delle magistrature giudicanti. Onde, finché sui fatti denunziati non si faccia luce dinanzi ai tribunali, ove ciò sia possibile, non ritengo di poter fare alcun commento intorno ad allegazioni delle quali non si conosce il grado di attendibilità.
Passando alle cose certe e veramente importanti possiamo, volendo dir prima dei difetti, distinguere quelli che dipendono dalle qualità degli amministratori dagli altri che sono inerenti all’istituzione. I primi possono infatti scomparire ove gli amministratori mutino o gli odierni si correggano: mentre i secondi non possono essere tolti se non trasformando l’istituzione.
Il difetto più insigne degli amministratori che reggono la Cassa di Torino da oltre un decennio non è quello di essere dei socialisti, bensì l’altro di avere troppo spesso subordinato la loro azione specifica di amministratori della Cassa e quella più ampia di uomini aventi un determinato ideale sociale. Badisi bene che non intendo menomamente lamentarmi che a capo della Cassa di Torino vi siano stati e vi abbiano ad essere in futuro dei socialisti. Ne sono anzi lietissimo; e mi auguro che molti socialisti abbiano a prendere parte ad ogni sorta di amministrazioni economiche. Sarà questo il miglior metodo di dimostrare loro, che si tratti di uomini intelligenti e capaci, che l’applicazione delle norme d’agire cosidette socialiste non può che condurre all’insuccesso una qualsivoglia azienda, mentre soltanto i metodi scherniti col nomignolo di borghesi sono fecondi di risultati buoni, astrazion fatta dall’ambiente capitalistico o collettivista in cui si operi. Ed invero quali sono le critiche più giuste e più vigorose che la Commissione d’inchiesta fa agli amministratori della Cassa di Torino? Quella di aver sovente anteposto la difesa degli interessi del proletariato alla difesa degli interessi specifici dell’Istituto da essi amministrati. Così fu che per la smania di crescere il numero dei soci proletari si commise l’illegalità chiarissima di sostituire i nomi di 307 caricatori e scaricatori di carbone del porto di Genova, decaduti per morosità, con i nomi di altri 307 lavoratori della stessa specie, che ne presero il posto con l’antica anzianità e coll’imputazione delle somme pagate dai soci decaduti. Se gli amministratori della Cassa avessero agito, come era loro strettissimo dovere, secondo le norme statutarie e nell’interesse dei loro amministrati, avrebbero dovuto dichiarare decaduti i primi 307 soci da tempo morosi ed incamerarne le quote pagate a pro degli altri soci, che vi avevano diritto. Invece, siccome essi si proponevano il compito di araldi delle classi proletarie, arbitrariamente ritennero di poter considerare iscritti per errore i vecchi soci decaduti e li sostituirono con nuovi soci, i quali profittarono dell’anzianità e dei versamenti dei vecchi. Per lo stesso motivo alla Federazione delle vetrerie cooperative italiane ripetutamente si concessero dei quitanzamenti a credito, il che vuol dire che si fece ai soci di quella Federazione quitanza per quote dovute e non ancora pagate, per salvarli dalla decadenza. In seguito le quote furono pagate; ma intanto, per favorire i soci proletari, si era operato un salvataggio, con danno degli altri soci a cui beneficio avrebbero dovuto andare quelle decadenze. Simiglianti illegalità avvennero, innanzi alla legge del 1907, nell’impiego dei capitali sociali. Il direttore del tempo (1905-906), che era il prof. Attilio Cabiati, benemerito dell’Istituto per altri rispetti, fra cui l’istituzione del gran libro soci e l’avviamento con la Cassa Rimborsi, a forme tecniche più perfezionate, pare provasse un gusto matto a violare leggi e statuto, pur di favorire cooperative, con depositi, mutui, compere di titoli, ecc. Precorse in ciò i tempi ed il legislatore, che autorizzò in seguito gli impieghi che egli illegalmente aveva voluto. Ma chiunque rifletta che l’ossequio alle leggi ed ai patti sociali è la maggiore e fondamentale garanzia degli interessi dei soci, non potrà non lamentare che il conseguimento di un più o meno interessante ideale sociale abbia fatto velo a coloro il cui unico compito era la cura del patrimonio sociale nelle forme statutarie.
Così pure nella erogazione del capitale disponibile per le spese d’amministrazione, non si può non avere l’impressione viva che si sia talvolta ecceduto allo scopo di favorire gli interessi generali del proletariato a scapito di quelli specifici della Cassa. Così ad esempio le forniture si vedono date con preferenza a Cooperative operaie ed a simpatizzanti, senza che ogni sforzo sia stato fatto per ottenere il prezzo minimo possibile. È una impressione e nulla più; perché io non so davvero associarmi a coloro i quali avrebbero voluto che la Cassa facesse le sue forniture per i pubblici sperimenti d’asta. Le aste pubbliche e i concorsi lasciamoli allo Stato ed agli altri Enti pubblici che disgraziatamente devono ricorrere a simili inferiori metodi di acquisto e di scelta. Le Società anonime private bene amministrate sanno scegliere i migliori impiegati e comprare al minimo prezzo senza ricorrere, anzi perché non ricorrono alle pubbliche aste ed ai concorsi. La concorrenza personale degli uomini e del mercato serve assai più dei metodi meccanici che solo la dura necessità di eliminare ogni sospetto ha imposto negli Stati democratici ai Governi. Non dunque la Cassa deve essere biasimata per non avere fatto qualche ridevole asta pubblica; ma per non avere sempre comperato, per favorire amici politici, al minimo prezzo di mercato. Deviazioni non infrequenti sono accadute, a questo proposito, pure nelle spese di propaganda. Se è ragionevole che alle Leghe che iscrivevano i proprii soci si desse la stessa provvigione che si deve agli altri agenti produttori, non appare spiegabile, se non a chi pensi che la Cassa Mutua aveva preso, nella mente di taluni amministratori, la figurazione di «Cassa del proletariato», come ad es. si concedesse nel settembre 1909 un sussidio di 500 lire alla Lega tramvieri di Roma non come compenso di prestazioni compiute, bensì perché la Cassa non poteva «non seguire col massimo interessamento – son parole della presidenza – le agitazioni delle classi lavoratrici, intese ad ottenere dei miglioramenti economici e morali, e con tanta maggior simpatia le segue quando tali agitazioni tendono a conquistare non solo dei vantaggi immediati, ma ad assicurare alle classi lavoratrici una vecchiaia meno tormentosa». Tutto ciò potrà essere magari espressione di nobilissimi sentimenti; ma è estraneo allo statuto e quindi illegale e pernicioso.
Se questi malanni dipendevano dalla confusione nella mente degli amministratori degli ideali sociali coi doveri specifici della carica, un altro malanno gravissimo era il frutto, purtroppo fatale, dell’indole stessa dell’istituzione. Questa, essendo una tontina basata sulla ripartizione degli interessi, deriva il suo successo da diversi fattori: principalissimo l’aumento del numero dei nuovi soci. Procurerò di spiegare non troppo oscuramente ciò che nella relazione è largamente documentato. Suppongasi che in una Società tontinaria il numero dei soci non cresca più dopo il primo anno, in cui 1.000 soci si sono iscritti. La conseguenza è che costoro hanno fatto un pessimo affare. Infatti ognuno di essi versa in 20 anni, a 12 lire l’anno, lire 240 e tutti 1.000 versano lire 240.000. Cogli interessi composti e colle decadenze, la somma sarà giunta, alla fine del ventennio, a 500.000 lire e darà un reddito annuo di 20.000 lire, fisso in questa cifra in tutti gli anni avvenire. Siccome il capitale non si può toccare e si ripartiscono solo gli interessi, i sopravviventi dei 1.000 soci hanno solo diritto, finché campano, a ripartirsi le 20.000 lire di interessi. Il capitale rimane intatto ed essi, che pur l’hanno costituito, non lo possono toccare. Andrà a favore non si sa di chi, ma non di essi né dei loro eredi. Se essi invece l’avessero messo alla Cassa di risparmio, avrebbero capitale ed interessi, il che è più dei soli interessi. Se noi supponiamo invece che il numero dei soci cresca continuamente di anno in anno da 1.000 a 2.000, a 3.000, a 4.000, ecc.; i sopravvissuti dei primi 1.000 soci nel ventunesimo anno potranno ripartirsi gli interessi non solo del capitale da essi, come sopra, formato nei 20 anni precedenti, ma anche gli interessi del capitale formato dagli altri 1.000 soci del secondo anno nei 19 precedenti e di quello dei 1.000 soci del terzo anno nei 18 anni precedenti, ecc. ecc. Ben può darsi che certe classi di soci guadagnino in interessi sui capitali altrui più di quello che perdono per l’abbandono del capitale proprio; il che accade più facilmente quanto più grande il numero dei soci nuovi che non sono ancora giunti al ventunesimo anno e gli interessi dei cui capitali sono goduti dai soci già pensionati.
Dato perciò che le pensioni sono tanto maggiori quanto è più veloce l’incremento dei soci, si comprende l’inevitabile conseguenza: l’eccesso della propaganda. La quale fu clamorosa e spettacolosa specialmente nei primi anni, durante il regime che i socialisti chiamano monarchico, quando il massimo era fissato in lire 2.000; ma rimase sempre esagerata ed illusoria. Le pagine da 250 a 266 della relazione riboccano di prove che la reclame fu fatta, consapevoli e partecipi gli amministratori, in maniera tale da illudere il pubblico e lasciar credere che il massimo di 200 lire sarebbe stata per un pezzo la pensione normale effettiva conseguibile col pagamento di 1 lire al mese per 20 anni. Un consigliere d’amministrazione parlando a Felizzano il 10 maggio 1908, quando conoscevansi già i risultati sfavorevoli degli studi tecnici, diceva che «la Cassa può fornire ai lavoratori della terra una somma che potrà servire quale pensione per la vecchiaia, quale fondo per la disoccupazione, carestia delle terre, malattie ed infortuni professionali, quale mezzo potente per combattere l’usura»; e l’ispettore generale della Cassa lascia, ancor nel 1909, credere che le 200 lire, accertate da calcoli, si potranno avere vita natural durante, che la Cassa avrebbe assicurato ai soci, per la loro vecchiaia, una pensione in misura superiore ad ogni previsione, che i soci avrebbero avuto pane e tetto, ecc.ecc.
Se dovessi concludere, con la Commissione d’inchiesta, che durante i 17 anni di vita sociale «la propaganda si svolse prevalentemente in senso equivoco ed allettatorio», sarebbe ingiusto però trarne la conseguenza che tutti i soci siano stati conquistati con le arti di una propaganda allettatrice. La impressione mia è invece che, sui 350 mila attuali soci della Cassa, una ragguardevole parte (di più non si può precisare per non fare ipotesi campate in aria) si iscrisse perché la propaganda della Cassa arrivò dove non avevano saputo giungere le propagande della Cassa Nazionale dello Stato o delle comuni Società di assicurazioni. Basti riflettere (cito fatti constatati dalla Commissione d’inchiesta) che i soci operai sono pochissimi, che, ad onta delle simpatie vivissime e dei favori degli amministratori, le associazioni collettive di operai furono un colossale fallimento, che è scarso in complesso il numero dei contadini e di ogni altra specie di proletari; che la grandissima maggioranza dei soci si recluta nella minuta e media borghesia ; che i bambini iscritti al disotto dei 10 anni crebbero dal 22,6 % nel 1893 al 46,2 % nel 1909, con una correlativa diminuzione degli adulti; che il numero medio delle quote da 12 lire ognuna da 1,22 per ogni socio nel 1893 – 94 crebbe ininterrottamente sino a toccare 1,78 nel 1910, per persuadersi di parecchie verità di fatto; 1) che la grande massa dei soci non è reclutata tra gli analfabeti e gli ignoranti, ma in una classe sufficientemente abituata a far di conti; 2) che questa classe si accorse ben presto che ad essa non conveniva iscriversi in età adulta, onde provvide ad iscrivere in proporzioni sempre maggiori fanciulli in grado di percepire la pensione per lungo tempo; 3) che questa classe si accorse altresì che la pensione sarebbe stata troppo esigua ove si fosse pagata una quota sola da 12 lire l’anno, onde provvide ad aumentarla gradatamente.
Insomma, il buon senso degli iscritti fu maggiore della irragionevolezza del principio informatore delle tontine; e gli iscritti già hanno cominciato a rimediare consapevolmente, di per sé, ai maggiori difetti della Cassa.
La quale presenta dei pregi di organizzazione e di amministrazione che sarebbe altresì ingiustizia misconoscere. Quei socialisti, di cui lamentai sopra la perniciosa sottomissione ad ideali non contemplati nello statuto e la propaganda ingannatrice, che – si può aggiungere – devono la loro elezione ad assemblee di soci ed a votazioni sapientemente confezionate, con almeno altrettanta abilità quanta ne impiegano alcuni amministratori di Società anonime a popolare le loro assemblee di ossequenti teste di legno; quei socialisti si rivelarono alla prova uomini capaci di compiere un’impresa che altri in Italia finora non aveva saputo affrontare. Avrebbero potuto spendere di meno; ma è giuocoforza riconoscere intanto che il coefficiente di spesa nella Cassa di Torino è basso, poiché non sembra che le spese siano state superiori al 15% degli incassi. Quale altra Società di assicurazione può dire altrettanto? Non credo che la Cassa Nazionale, tenendosi conto, naturalmente, delle spese fatte per suo conto da Enti pubblici patroni e delle esenzioni di imposta, non godute dalle istituzioni libere, abbia speso di meno. Le grandi Società inglesi, che esercitano, come la Prudential, le assicurazioni popolari, arrivano al 40 %.
Il reclutamento degli agenti fu una delle cause maggiore di successo della Cassa Mutua di Torino ed io non mi perito di segnalare i suoi metodi, perché li imiti, alla Cassa Nazionale di previdenza dello Stato. Gli agenti sono, specialmente nei minori luoghi, sarti, barbieri, farmacisti, piccoli negozianti. Parecchi sono segretari comunali e sacerdoti. Hanno lucri modesti, talvolta solo di 10-15 lire al mese; ma possono, se attivi, riuscire a mettere insieme redditi superiori, sebbene in media modesti assai. È quanto basta per animarli a diffondere l’idea della previdenza.
Le quote, arrivando alla sede sociale, danno luogo ad un lavoro colossale e mirabile. La necessità di tener conto di circa 300 mila incassi mensili ha imposto ai dirigenti lo studio e l’applicazione di sistemi rapidi ed economici di registrazione, la cui pittura si legge con diletto nelle pagine della Commissione d’inchiesta e le cui colossali difficoltà possono essere trascurate solo da chi non abbia mai tentato di far nulla. Il gran libro dei soci, in cui, su schede distinte, viene tenuta a giorno la posizione individuale di ogni socio, deve essere un piccolo capolavoro di organizzazione tecnica e contabile. L’ufficio di statistica, che segue le vicende demografiche ed economiche dei soci, ha apprestato i materiali su cui potrà essere basata la trasformazione razionale della Società secondo le norme insegnate dalla moderna scienza attuariale. Difetti particolari ancora sussistono e la Commissione li segnala; ma sono piccole mende in confronto ai grandi progressi compiuti.
Il frutto ultimo dell’ordinamento amministrativo e contabile presente della Cassa è questo: che del capitale inamovibile delle lire pagate dai soci per la formazione della pensione, andarono perdute, per infedeltà di agenti e di impiegati e per ogni altra causa, appena lire 34.197,28 nei 17 anni di vita sociale. È una somma minima in confronto alla piccolezza dei contributi singoli ed all’enormità delle somme maneggiate. La Cassa ha chiamato il vuoto, prelevando la corrispondente somma dal capitale disponibile per spese di amministrazione; cosicché la Commissione d’inchiesta può dichiarare, ripetutamente nel corso dei suoi studi e più solennemente in fine, di essere “lieta di poter dare piena assicurazione che il capitale è integro e che è impiegato regolarmente, a norma di legge».
Al 31 maggio 1910 questo capitale, appartenente a 371.287 soci con quote 662.577, ammontava a lire 49.978.749,99; ed era la somma delle quote versate dai soci insieme col cumulo dei frutti al tasso di rendimento composto del 7% all’anno.
Poiché questo è lo sforzo più colossale che in Italia sia mai stato fatto dalla libera previdenza, poiché il risultato di questo sforzo, malgrado errori gravi di uomini e gravissimi errori di principio, è oggi intatto, nuovamente si impone la domanda che in un precedente articolo avevo fatto: dobbiamo noi lasciar disperdere i risultati di un’opera durata 17 anni?