L’imposta sugli incrementi di patrimonio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 24/02/1946
L’imposta sugli incrementi di patrimonio
«L’Opinione», 24 febbraio 1946
Semplificare il groviglio, ridurre il numero, abbassare la scala delle aliquote delle imposte sul reddito è la condizione essenziale affinché gli accertamenti e le riscossioni cessino di essere un inganno, anzi una farsa. Affinché i contribuenti siano onesti, fa d’uopo anzitutto sia onesto anche lo Stato. Affinché si ricostruisca, è necessario che i cittadini abbiano una speranza. Affinché si senta la consapevolezza di essere parte dello Stato, della regione, della provincia, del comune, occorre che stato regione provincia e comune prelevino soltanto la parte del prodotto comune che gli enti pubblici, insieme con i cittadini, hanno contribuito a creare. Se i cittadini spereranno di nuovo che del prodotto comune la parte maggiore ricomincerà di nuovo a restare «legalmente» a loro disposizione, essi non si sforzeranno più a tenerla per sé per vie illegali, con la frode fiscale. Oggi, la frode è, provocata dalla legge. Non v’ha dubbio che se le leggi vigenti fossero osservate – quelle vigenti, all’infuori di quelle annunciate per l’avvenire – le sole imposte sul reddito assorbirebbero dal 4 al 75 per cento del reddito dei cittadini. Se alle imposte sul reddito aggiungiamo quelle di successione, del registro e bollo, sull’entrata e sui consumi, noi giungeremmo, se qualcuno tentasse di fare il conto, a percentuali grottesche, che andrebbero probabilmente dal 30 al 200 e forse più del reddito. In materia di imposte, la legalità ha ucciso non la giustizia ma anche il buon senso. La legge è violata perché è assurdo osservarla.
Se gli italiani si avvedessero finalmente che i legislatori sanno fare i conti e che non dicono più: quella imposta è tenue perché è solo del 10 per cento, dimenticandosi che, accanto a quella, ve ne sono cinque, dieci, venti altre tutte cosiddette tenui, le quali colpiscono e non possono non colpire il medesimo oggetto, ossia il reddito del cittadino, unica fonte dell’imposta; se gli italiani potessero osservare con occhi stupefatti l’avverarsi dell’incredibile e cioè della moderazione nel formulare l’insieme dei gravami fiscali, la speranza rinascerebbe nel loro animo e si deciderebbero a pagare l’imposta moderata ragionevole. Si deciderebbero anche a versare all’erario, senza troppa resistenza, un’imposta straordinaria patrimoniale. Dissi altra volta che questa è chiamata a compiere un miracolo: il miracolo del ritorno del buon senso, della moderazione nell’insieme delle imposte ordinarie, di quelle che graveranno redditi e consumi «futuri». Se si spererà che i redditi futuri siano liberi dalle taglie confiscatrici odierne, ci si deciderà a dare un taglio ai redditi «passati»: un taglio del venti per cento sul patrimonio accumulato ossia risparmiato in passato, parrà tollerabile se i redditi futuri appariranno sollevati dagli assurdi gravami odierni.
A questo punto entrano in campo i dottrinari della giustizia tributaria. In un perfetto sistema tributario, essi dicono, occorre che, se un’imposta straordinaria ha prelevato una quota del patrimonio esistente ad una certa data, ad es., il 31 dicembre 1945, un’altra imposta colpisca altresì gli incrementi di cui i patrimoni fruiranno da quella data ad una successiva. Se il patrimonio era al momento primo di un milione di lire e crebbe poi sino a due milioni nel momento secondo, l’incremento di un milione dev’essere tassato in modo particolare. Per due ragioni: in primo luogo perché egli si è arricchito, laddove altri si impoverì o rimase stazionario; in secondo luogo perché l’arricchimento è indizio di un reddito ottenuto e risparmiato nell’intervallo fra due momenti, che «forse» non pagò le imposte ordinarie sul reddito. Trascuro questo secondo argomento nuovissima forma di cui si riveste l’inettitudine a far pagar le imposte vigenti. Si creano imposte e non si applicano; e poiché non si riesce ad applicarle, se ne inventa una nuova, che anche essa resta lettera morta o semimorta e così all’infinito. Il buon senso vuole invece che le imposte siano ridotte di numero e non moltiplicate e che quelle rimaste siano assennate e perciò osservate; il buon senso rifiuta l’idea medesima delle imposte che non si possono fare osservare.
Rimane il primo argomento: l’imposta sugli incrementi di patrimonio si dice ragionevole perché il contribuente dal primo al secondo momento, dal 31 dicembre 1940 al 31 dicembre 1945, e poi dal 31 dicembre 1945 al 31 dicembre 1950 (se l’imposta dovesse ripetersi ogni quinquennio) si è arricchito. Taluno aggiunge: ed ha realizzato il suo arricchimento. L’aggiunta non è logicamente indispensabile; perché se Tizio che al 31 dicembre 1945 possedeva una casa, un podere, un gruppo di titoli che valevano un milione di lire ed al 31 dicembre 1950 quella casa, quel podere, quei titoli valgono – ferma rimanendo l’unità monetaria – un milione e mezzo, egli si è arricchito di mezzo milione, sia che egli abbia realizzato, venduto casa podere titoli, sia che li abbia conservati. Ma di solito l’aggiunta si fa, perché si pensa che sia difficile accertare un vero arricchimento, se il contribuente non ha venduto. Se la vendita è avvenuta, se ne conosce il prezzo e lo si può paragonare al prezzo di acquisto. La differenza è l’arricchimento e questo pare effettivo. Se il contribuente non ha venduto, l’arricchimento è teorico. Chissà quale sarà il prezzo nel momento futuro della vendita! Nelle stime, largo campo sarebbe lasciato all’arbitrio. Perciò nei più recenti progetti di imposta sugli incrementi di patrimonio si parla di incrementi da realizzo, risultanti da un acquisto e da una successiva vendita.
Come sempre, anche con questa limitazione, i problemi tecnici della nuova imposta sono molti e spinosi. I principali riflettono la difficoltà di paragonare valori relativi a tempi diversi. Se i tempi sono distanti tra loro, dicasi subito che ogni paragone è impossibile. Paragonare i valori del medesimo invariato podere, se per ipotesi miracolosa, ma non assurda, l’identità esistesse, nel 1345 e nel 1945 sarebbe assurdo. A distanza di sei secoli sono mutate le unità monetarie, i prodotti, i gusti degli uomini, la struttura politica e sociale. Se anche si potesse constatare che quel podere è aumentato di valore da uno a dieci chilogrammi d’oro, che cosa si saprebbe? Nulla. Ben potrebbe darsi che quell’unico chilogrammo del 1345 desse maggiori soddisfazioni dei dieci d’oggi. Ed, ancora, come si paragonano le soddisfazioni di uomini diversi in luoghi e tempi diversi? Ecc. ecc., all’infinito.
Le difficoltà scemano, ma non scompaiono se si riducono al minimo gli intervalli di tempo. Muta la potenza d’acquisto della moneta; sono diversi i criteri di accertamento da un’epoca all’altra. Le imposte ordinarie sfuggono a queste difficoltà, perché c’è una sola unità di tempo. Le imposte del 1946 si pagano nel 1946, i redditi ed i consumi correnti pagano di anno in anno, di mese in mese, di giorno in giorni le proprie imposte. Tizio muore l’1 febbraio 1946? L’imposta successoria colpisce il patrimonio esistente a quella data, per il valore che allora aveva. Ma si tenti di paragonare valori di un momento a valori di un altro momento precedente o successivo e si sarà cacciata la mano in un nido di vespe. Le difficoltà, spesso inestricabili, di valutazioni riferite a due tempi diversi sono tuttavia soltanto l’indice di un vizio sostanziale che guasta alla radice l’imposta sugli incrementi di patrimonio. È un vizio che annulla il vantaggio che si può sperare di ricavare dall’imposta straordinaria sul patrimonio.