Opera Omnia Luigi Einaudi

Liberismo e comunismo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1941

Liberismo e comunismo

«Argomenti», dicembre 1941, pp. 18-34[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 264-287

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 162-184

 

 

 

 

Forse è opportuno, piuttosto che insistere in una discussione resa ardua dalla diversità delle premesse dovute alla diversa preparazione intellettuale ed alle diverse tendenze sentimentali o politiche o sociali, chiarire talune di queste premesse; e sono ben lieto me ne offra occasione il suggestivo scritto che precede.[2]

 

 

Che cosa si intende per ordinamento liberistico o comunistico o capitalistico, della cui conformità o compatibilità col concetto di libertà o con l’ideale liberale si discute? A seconda della definizione data e, più che della definizione, del contenuto concreto posto teoricamente o constatato storicamente per quegli ordinamenti, la discussione può recare a conclusioni se non diverse almeno intonate o motivate diversamente.

 

 

Il liberismo certo non è un’astrazione, bensì un ordinamento concreto. Quale è il suo contenuto? P. S. non aderisce alla opinione volgare, propria della gente innocente di qualsiasi peccato di cultura economica, secondo la quale il liberismo si identificherebbe con un ordinamento nel quale all’uomo fosse lecito di fare qualunque cosa, salvo, s’intende, ammazzare, rubare, ecc., lo stato rimanendo ridotto ai compiti elementari di soldato, magistrato, poliziotto, tutore dei cordoni sanitari contro la peste, il colera, la febbre gialla e simili. Egli intende il liberismo «nel senso dei moderni economisti, come intervento dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza». Benissimo detto. Qualche parola in più non sarà tuttavia male spesa a chiarire il concetto. Innanzitutto, bisogna insistere sul punto che la «libera concorrenza», alla quale in quella definizione si accenna, appartiene a tutt’altro ordine di concetti da quello di liberismo. Questo è un ordinamento concreto; quella è un’astrazione. La configurarono gli economisti puri o teorici per avere in mano uno schema dal quale partire per esporre le loro leggi, che sono leggi astratte, in tutto simili a quelle della geometria o della meccanica razionale, vere sub specie aeternitatis, finché non mutino le premesse. L’economista dice: «Supponiamo che… i produttori venditori della merce x sieno molti, che ognuno di essi produca e venda solo una piccola quantità della detta merce, tale cioè che il produrla o non produrla, venderla o non venderla, non produca effetto sensibile sulla quantità totale recata sul mercato; supponiamo che anche i consumatori della merce x siano molti, che ognuno di essi intenda acquistare solo una piccola quantità di essa, supponiamo che… ecc. ecc. Avremo quella situazione che è definita di libera concorrenza; ed in questa situazione accade che il prezzo sia ecc. ecc.». Tutto ciò è pura astrazione, lecita lecitissima per costruire un corpo di leggi astratte, le quali avranno una parentela più o meno stretta con le leggi del prezzo delle merci quali si verificano sul mercato concreto, a seconda che le premesse del mercato concreto si avvicineranno più o meno alle leggi del mercato astratto, dello schema posto dall’economista come premessa del suo ragionamento.

 

 

C’è chi, a leggere tutti quei «supponiamo» si impazientisce. Quarantasette anni fa, il fondatore, che non sono io, della rivista «La Riforma Sociale» buon’anima, nel programma prendeva in giro per l’appunto le teorie che «si vogliono dare anche ora come assolute e imporre nella pratica della vita quotidiana» e sono esposte «in libri dove due terzi dei periodi cominciano con le parole: Let us suppose, If it be assumed, If we can imagine, Let us now introduce, Suppose an event to occur, But suppose a lot of persons, ecc.». In questo mezzo secolo gli economisti hanno continuato a foggiare premesse col «supponiamo»; anzi, per far arrabbiare i loro naturali nemici che sono i pratici, hanno finito per abolire le premesse in lingua volgare che qualcosa dicevano al lettore, contentandosi di abbreviature con lettere dell’alfabeto. Gli economisti hanno ragione nel seguire i comandamenti metodologici della scienza che è astratta; e soltanto il buon gusto e la sensibilità economica, che nessuno si può dare se non ce l’ha, possono ad essi consigliare i limiti dello schematizzare e dell’astrarre; ché, in fin dei conti, la scienza economica dovrebbe preoccuparsi – e tutti i grandi economisti se ne sono preoccupati – di fornire schemi astratti i quali giovino alla interpretazione della realtà concreta.

 

 

Di fronte allo schema astratto della libera concorrenza, i pratici ed i politici si sono trovati d’accordo su un punto: che lo schema della concorrenza piena, con i suoi molti venditori e produttori, col mercato aperto a tutti nell’entrata e nell’uscita, col prezzo il quale in ogni momento è uguale al costo di produzione di quel produttore, la cui offerta è necessaria a rendere la quantità offerta uguale a quella domandata e tende verso il costo del produttore a costo minimo, è un bellissimo schema, ma lontanissimo o lontano o ad ogni modo diverso dalla realtà concreta. In questo basso mondo imperano monopoli, consorzi, leghe, privilegi, brevetti, limitazioni fisiche o giuridiche, ignoranze, ecc. ecc., sicché tra lo schema astratto e la realtà concreta non c’è alcuna rassomiglianza.

 

 

A questo punto l’unanimità si guasta ed i politici si partono in due schiere che per brevità dirò degli interventisti e dei liberisti. I primi sono assai variopinti e vanno dai comunisti puri ai semplici programmisti, con programmi più o meno estesi. Essi sono accomunati dall’idea che direi della strada breve. Poiché in concreto la libera concorrenza non esiste, fa d’uopo che qualcuno regoli e disciplini il meccanismo economico. Poiché l’automatismo conduce – si afferma o si osserva o si pretende di osservare – al monopolio dei più forti, occorre che qualcuno, ossia lo stato, guidi gli uomini nella loro condotta economica e li costringa a operare nel senso del vantaggio collettivo. Talvolta si afferma di volere lasciare ai singoli libertà di iniziativa, limitando l’azione dello stato a qualche campo considerato più importante dal punto di vista collettivo, od alla fissazione delle condizioni di vendita (massimi di prezzi, calmieri) o di produzione (graduatorie nella fornitura delle materie prime, licenze di apertura di nuove fabbriche o di ampliamento delle antiche). All’ala estrema dei programmisti, si trovano i comunisti, i quali tacciano i colleghi più tiepidi di inconseguenza; osservando che non è possibile regolare solo alcuni rami o punti del meccanismo economico e sociale; ché, fissato un prezzo, tutti gli altri mutano e reagiscono. Non si può fissare il prezzo del pane, senza fissare quello della farina e della legna per accendere il forno e dell’uso del capitale forno e della mano d’opera e poi, via via, dei servizi dei mugnai e dei trasporti per ferrovia e per mare e del grano all’origine, e del lavoro dei contadini e dei prezzi delle terre; e poiché fissar tutto in concreto è pressoché impossibile, la sola soluzione logica, secondo i comunisti, è la assunzione generale della produzione e della distribuzione dei beni della terra da parte della collettività intera, ossia dello stato.

 

 

I liberisti sono gente che l’esperienza ha fatto profondamente scettica intorno alla attualità concreta dei “programmi” e nemica acerrima della assunzione compiuta di tutto il meccanismo economico da parte del leviatano statale. Essa non crede del resto che il mondo concreto sia davvero lontanissimo, oggi ed in molte epoche storiche passate, dallo schema astratto della piena concorrenza. Diverso sì e un po’ più complicato di quanto lo schema supporrebbe. Ma non lontanissimo né opposto. Là dove il mondo concreto sembra più lontano dallo schema astratto della piena concorrenza, fa d’uopo, se si vuole argomentare logicamente, chiedersi: Perché è lontano? Alla domanda gli economisti à la page coloro i quali hanno una paura verde di apparire “superati”, e che perciò tentano ad ogni quarto d’ora di superare se stessi, rispondono con un gran rimbombo di parole, tra le quali emergono: fatale andare del capitalismo, alto capitalismo, la concorrenza che sbocca nel monopolio, i grossi che schiacciano i piccoli, la legge dei costi decrescenti, il grande macchinario, la tecnica o tecnocrazia. Tutte chiacchiere prive di senso, se non siano analizzate. Chi ha fatto l’analisi? Chi ha distinto caso per caso per ogni consorzio o trust o cartello o monopolio, le ragioni del suo fiorire, se fiorì, o del suo decadere, quando decadde? Quale è la proporzione rispettiva dei monopoli o monopoloidi o consorzi intesi ad imporre prezzi superiori a quelli che sarebbero di concorrenza, i quali debbono la loro esistenza a positivi atti del legislatore e di quelli che sono dovuti a cause “tecniche”, intendendo per tali quelle cause che possono essere spiegate col tipo dell’industria esercitata, colle sue dimensioni, colle caratteristiche della merce prodotta e del mercato? Sinché questa indagine non sia stata fatta con serietà, tutte quelle parole intorno alla concorrenza morta e seppellita ed al trionfo fatale dei monopolisti – che spesso sono, nel linguaggio volgare ed in quello degli economisti ansiosi di non apparire superati, spesso confusi con gli imprenditori semplicemente “grossi” – rimangono parole, che il vento disperde.

 

 

Non ho la certezza, ma qualcosa di più del sospetto, che la proporzione maggiore dei più pericolosi consorzi di produttori, di quelli i quali veramente riescono ad estorcere prezzi arieggianti al monopolio, debbano la loro vita ad atti positivi del legislatore: dazi doganali, contingentamenti, inibizione di concorrenza da parte di nuovi venuti, brevetti e privative di ogni genere, favori negli appalti, imposte di fabbricazione, enti semi pubblici forzosi ecc. ecc. È assai dubbio se l’opera dei rimanenti monopoli o sindacati o consorzi si allontani veramente in modo apprezzabile dallo schema della concorrenza o non ne sia invece, in mutate circostanze, una nuova maniera di attuazione.

 

 

Quante strida si levarono nel secolo scorso, fra il 1820 ed il 1880, contro le leghe operaie, qualificate come tentativi di estorcere salari e condizioni di lavoro superiori a quelli naturalmente determinati dal libero gioco del mercato! E poi si vide che quelle strida erano per lo più a vuoto; ché il mercato libero suppone contraenti conoscitori delle quantità domandate ed offerte, capaci di entrare e di uscire, ossia di offrire o ritirare l’offerta della propria mano d’opera, ed invece l’operaio od anche l’industriale singolo spesso non conosce il mercato, e per lo più è costretto ad offrirsi e quindi ad accettare salari o prezzi inferiori al normale. Le leghe operaie non contraddicono dunque allo schema della concorrenza; ma sono uno strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello schema. S’intende entro certi limiti; dei quali uno è libertà dell’operaio e dell’industriale di entrare o non entrare nella lega, di contrattare per mezzo o all’infuori di essa. Anche qui il vero pericolo monopolistico nasce dal privilegio legale concesso dal legislatore a certe leghe a danno o ad esclusione di certe altre, o addirittura dall’esclusiva attribuita ad una di esse.

 

 

L’intervento «dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza» non è perciò tanto “limitato” come pare. Esso si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo e l’altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l’operare pieno della libera concorrenza.

 

 

La prima specie di intervento appare a primo tratto piana, poiché si tratta solo di abrogare leggi e norme vincolatrici, le quali creano il deprecato malanno. Il dazio protettore, il contingentamento, il divieto di iniziare, senza licenza, nuove intraprese creano il monopolio? Si aboliscano dazi contingentamenti e divieti! In un batter d’occhio lo scopo è conseguito. Si dimentica che quei dazi contingentamenti e divieti debbono la loro origine a forze economiche e politiche, le quali se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne la abrogazione. Sicché in sostanza, quella che i cosidetti liberisti invocano non è affatto una mera mutazione nella legislazione, ma una lunga faticosa difficile contrastata opera di educazione economica sociale e politica, rivolta a persuadere il cittadino, ossia i ceti, i gruppi sociali e politici i quali agiscono sul legislatore, che una certa politica è quella più confacente all’interesse dei più dei viventi e delle generazioni venture. Altro che “fato” generatore di monopoli e distruttore della concorrenza! Quel fato si chiama Tizio e Caio, gruppo tale o tal altro, il quale direttamente dispone del legislatore o indirettamente, attraverso giornali, riviste, economisti ansiosi di non apparire superati, avvocati, maneggioni influisce sulla opinione pubblica e crea l’ambiente favorevole alla desiderata legislazione favoreggiatrice. Contro questo fato, che è poi volontà di mal fare, non c’è nessun rimedio fatato e semplice. La via diritta non serve. Bisogna rassegnarsi ai viottoli scoscesi ed agli andirivieni della educazione economica e morale. Sovratutto morale: ricordati di non rubare.

 

 

L’altra specie di intervento intesa a porre limiti alle forze naturali, proprie “eventualmente” del tipo dell’industria o del mercato o del prodotto o del momento tecnico, le quali ostacolino l’azione della libera concorrenza, non è di ardua persuasione, ma è tanto più delicata nell’attuazione. Gli uomini sono presti a persuadersi, quando c’è qualcosa che va male, ad invocare il braccio forte dello stato. Qui è la gran forza degli interventisti di tutte le razze, dai semplici ingenui programmisti ai comunisti puri. Perché lo stato, perché il governo non ci pensa? È la soluzione dei deboli, i quali, incapaci o indolenti nel fare il bene, si affidano a qualcuno che pensi e provveda per conto loro. I liberisti – seguito a chiamarli così per ossequio all’abitudine, ma bisogna davvero inventare un altro nome, tanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal laissez faire, laissez passer – sanno che coll’incapacità e coll’indolenza non si ottiene niente; che i governi sono quelli che i popoli fanno e meritano e che è vano tentare di cavar da popoli incapaci e indolenti governi capaci di far bene, se prima il politico di genio non abbia provveduto a mutare i poltroni in gente alacre e gli incapaci in avidi di apprendere. Epperciò i liberisti non si propongono di “fare” il bene; ma solo di mettere gli uomini nella condizione di potere procurarselo da sé, quando vogliano o sappiano usare i mezzi all’uopo opportuni.

 

 

Si potrebbe citare assai esempi di siffatti tipi di intervento liberistico. Ne ricorderò due soli. Primo: il regime ereditario. Lo ricordo, perché lo vedo fatto argomento di esempio anche dallo scrittore della nota, alla quale sto appendendo queste mie considerazioni metodologiche. Senza dubbio il figlio del ricco è, sul mercato dove si incontrano produttori e consumatori di beni e di servigi, favorito in confronto del figlio del povero. Non c’è uguaglianza nei punti di partenza. Il comunista risolve alla spiccia il problema, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, ossia, praticamente, di tutto, salvo i mobili che possono stare nel numero di camere (metri quadrati) che il legislatore fisserà. Costui, in quanto sia un credente nel suo verbo, è un buon uomo, il quale immagina che di ostacoli al mondo esista solo quello della ricchezza e ignora che l’esistenza di un certo numero e di una certa dose di essi può essere necessaria per neutralizzare altri e ben più formidabili ostacoli che operano a danno dei buoni, degli operosi, degli intraprendenti, degli studiosi, dei valori seri e fecondi. In una società dove tutto è dello stato, dove non esiste proprietà privata salvo quella della roba di casa, che sta nella casa tipica assegnabile a tutti – suppongasi dieci metri quadrati in media a testa, ma non credo si giunga a tanto nell’Europa contemporanea -, dove la produzione è organizzata collettivamente, per mezzo di piani i quali debbono essere elaborati al centro, qual è l’ostacolo, veramente formidabile che gli uomini di ingegno, intraprendenti, onesti, volonterosi, ecc. ecc., fatalmente incontrano sulla loro via? Quello dell’intrigo. Mirabeau padre l’aveva già osservato nel 1760 in un brano da me altra volta ricordato (ed ora in Saggi sul risparmio e l’imposta, p. 352):

 

 

«On ne seroit occupé qu’à obtenir des places et des pensions, qu’à parteciper aux liberalités du Prince, qu’à eviter le travail, qu’à parvenir à la fortune par toutes les voyes de collusion que la cupidité peut suggérer, qu’à multiplier les abus dans l’ordre de la distribution et des dépenses».

 

 

Quando tutti dipendono da tutti, quale è lo strumento di ascesa? Cattivarsi il favore di chi sta un gradino più in su e così via via fino al grado supremo. Non è la capacità di intrigo, di piaggeria, di connivenza un formidabile ostacolo contro gli onesti, gli intraprendenti, i lavoratori, gli studiosi seri, i valori veri, i quali nulla odiano più che la necessità di procacciarsi il favore altrui?

 

 

Epperciò il liberista esiterà assai dinnanzi all’abolizione della eredità come mezzo per abolire uno dei tanti ostacoli che esistono a questo mondo contro la uguaglianza nei punti di partenza. Egli cercherà invece nella esperienza del passato quali siano i temperamenti, le vie di mezzo da adottare (imposte ereditarie, quote legittime, facoltà di testare, ecc. ecc.), allo scopo di eliminare i casi nei quali massimo è il danno del favore ereditario concesso ai fortunati, senza abolire i vantaggi di creazione di un ceto sociale indipendente dal principe, sicuro contro le sopraffazioni dei potenti – la mia casa è il mio castello -, di promuovimento dei vincoli familiari, di stimolo al risparmio che l’istituto della eredità può produrre. Si intende che il liberista non pensa che i vantaggi si possano ottenere, che l’ostacolo ereditario possa essere conservato senza un’opera continua di illuminazione, la quale ad ogni generazione dimostri col ricordo di esperienze passate, col confronto con altri tipi di organizzazione sociale quali sono le ragioni le quali consigliano la conservazione dell’istituto.

 

 

Secondo esempio: le privative industriali. Queste oggi, attraverso un secolo di legislazione favorevole all’istituto della privativa dell’inventore sulla sua invenzione, sono divenute un vero scandalo. La privativa è oggi una beffa per l’inventore povero e d’ingegno, al quale soltanto il legislatore in origine aveva pensato. A costui il diritto di privativa praticamente non giova; che la quasi totalità delle invenzioni è opera collettiva, di sperimentatori calcolatori tecnici i quali lavorano in laboratori o gabinetti installati da grandi ditte industriali. Il brevetto oggi è divenuto uno strumento di dominio e di monopolio delle grandi intraprese, le quali possono permettersi il lusso di stipendiare fisici chimici matematici avvocati, intentar liti al povero inventore isolato il quale si illude di aver scoperto qualcosa, impedirgli di far uso della propria invenzione, costringerlo a cederla al grosso già avviato, il quale con mille raggiri cercherà di perpetuare la validità del proprio brevetto bene al di là dei 15 o 25 anni di legge.[3] Di fronte a siffatta miseranda fine delle privative industriali, il liberista quale via sceglierà? L’abolizione pura e semplice del diritto di privativa industriale? Sì, se si potesse essere sicuri, ed invece è solo probabile, che il segreto di fatto è arma migliore della privativa legale per dare all’inventore, isolato o collettivo, un compenso adeguato. In ogni caso, contrariamente all’andazzo odierno, se la privativa dovesse essere conservata, la legislazione relativa dovrebbe informarsi a due criteri: riduzione della durata al minimo, inferiore notevolmente a quello attuale, necessario per consentire all’inventore la possibilità una iniziale applicazione; e diritto per tutti di usare, senza il consenso dell’inventore, privative e relativi perfezionamenti col pagamento di un canone temporaneo stabilito per legge o dal magistrato in misura atta a non consentire prezzi di monopolio all’inventore.

 

 

Fuor di esempi, il liberista non è colui il quale vuole un intervento “limitato” nelle faccende economiche. Il criterio di distinzione fra l’interventista ed il liberista non sta nella “quantità” dell’intervento, bensì nel “tipo” di esso. Astraendo dall’interventista comunista il quale risolve il problema abolendo l’intervento medesimo – che cosa è invero quello comunista se non uno stato il quale non “interviene” più, perché ha avocato a sé tutta la gestione economica? – il criterio del distinguere sarebbe il seguente: il legislatore interventista dice all’uomo: tu farai questo o quello; lavorerai od opererai così e così; questo è l’industria o il commercio o la piantagione agricola che nell’interesse collettivo devi esercitare e nella misura e secondo un programma che io ti indicherò. Ecco il piano siderurgico, tessile, cerealicolo che tu devi attuare. Poiché siete in parecchi, ecco la proporzione che avrai a te assegnata. Lo stato, nel sistema interventistico e programmistico, insegna agli uomini, industriali agricoltori commercianti artigiani professionisti intellettuali, ciò che essi debbono fare e come lo debbono fare; fissa o disciplina o regola i prezzi e quindi i costi ed i guadagni; li varia a seconda di quelle che egli crede esigenze collettive. Il metodo interventistico è preferito dagli uomini, la grandissima maggioranza dei quali aborre dalle iniziative, dalle responsabilità e dai rischi. Su questa via regia, diritta, breve gli uomini immaginano di giungere alla felicità, al benessere, al bene.

 

 

Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti. Se sei industriale, potrai liberamente scegliere i tuoi operai; ma non li potrai occupare più di tante e tante ore di giorno notte, variamente se adolescenti, donne o uomini; li dovrai assicurare contro gli infortuni del lavoro, la invalidità, la vecchiaia, le malattie. Dovrai apprestare stanze di ristoro per le donne lattanti, e locali provvisti di docce e di acqua per la pulizia degli operai; osservare nei locali di lavoro prescrizioni igieniche e di tutela dell’integrità degli operai. Potrai contrattare liberamente i salari con i tuoi operai; ma se costoro intendono contrattare per mezzo di loro associazioni o leghe, tu non potrai rifiutarti e dovrai osservare i patti con esse stipulati. Tu, nel vendere merci, non potrai chiedere allo stato alcun privilegio il quale ti consenta di vendere la tua merce a prezzo più alto di un qualunque tuo concorrente, nazionale o forestiero; e se, dopo accurate indagini, un tribunale indipendente accerterà che tu godi di qualche privilegio che non sia la tua intelligenza o intraprendenza o inventività, il quale ti consentirebbe di vendere la tua merce a prezzo superiore a quello che sarebbe il prezzo normale di concorrenza, il tribunale medesimo potrà fissare un massimo, da variarsi di tempo in tempo, per i tuoi prezzi.

 

 

E così di seguito: nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica. La legge, ossia non il governo o potere amministrativo, bensì la norma discussa apertamente, largamente, in seguito a pubbliche inchieste, con interrogatori pubblici di tutti gli interessati e di tutti coloro i quali reputino di avere qualcosa da dire in argomento; la legge fatta osservare da magistrati ordinari, indipendenti dal governo e posti al di fuori e al disopra dei favori del governo. E questa non è, evidentemente, una via regia o diritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi tutto il contrario. È via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa ed incerta. tale perché non può essere diversa; perché gli uomini debbono fare sperimenti a loro rischio, debbono peccare e far penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica di decidere per loro conto ed a loro nome quel che debbono fare e non fare, ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità.

 

 

Dopo essermi tanto indugiato su quel che è il contenuto di un ordinamento liberistico, posso essere più breve intorno all’ordinamento comunistico. Nella discussione sui rapporti fra libertà e liberismo, fra ideale liberale e comunismo, in coloro i quali sostengono la tesi che l’uomo politico liberale possa servirsi dello strumento comunistico per ottenere l’elevamento degli uomini, mi è parso di intravvedere una certa impazienza verso coloro i quali sostengono che la libertà è incompatibile coll’ordinamento comunistico. O che forse c’è una sola definizione del comunismo? O che questo si identifica colla Russia di Lenin e di Stalin? Quale incompatibilità c’è fra libertà ed una maggiore giustizia sociale, fra libertà e legislazione sociale, fra libertà ed assunzione di certe industrie da parte dello stato, fra libertà e un compiuto ordinamento comunistico nel quale sia conservata agli uomini la piena libertà di scelta delle occupazioni e dei costumi preferiti; fra libertà e ordinamento comunistico, nel quale sia negata ai consociati ogni libertà di scelta delle occupazioni e dei consumi, ma la rinuncia sia, come accadeva nei monasteri benedettini o francescani, liberamente voluta ed anzi accettata da tutti i componenti la collettività?

 

 

La più parte delle dispute ha luogo perché i contendenti non si intendono sul significato delle parole da essi usate; ed è perciò che volentieri, se fosse possibile ma non è per la necessità di usare parole corte per esprimere concetti lunghi, abolirei l’uso delle parole liberismo e comunismo (o socialismo) perché equivoche. Ho già detto sopra come un ordinamento detto liberistico sia vincolante forse più, sebbene in senso diverso, dell’ordinamento interventistico. Così è equivoca del pari la parola comunismo e socialismo. Che sugo c’è a classificare sotto la voce ordinamento comunistico o socialistico – la differenza tra le due parole è impalpabile e indefinibile, e perciò, le uso promiscuamente – una semplice aspirazione ad una più o meno ampia giustizia sociale o ad una statizzazione (o municipalizzazione o pubblicizzazione e mi si perdoni la parola ostrogota usata per indicare la attribuzione ad un ente pubblico, che sono maniere solo tecnicamente diverse di attuare il medesimo concetto) di qualche industria da parte dello stato? Davvero nessuno, posto ché liberisti e interventisti fanno amendue propri questi ed altri consimili strumenti che essi possono reputare atti al maggiore elevamento degli uomini e solo si disputa in quali casi e con quali modalità essi siano atti a raggiungere quello scopo di elevamento; e la disputa ha importanza esclusivamente in ragione dei casi e delle modalità di applicazione e non ne ha nessuna quanto al principio, che tutti sono disposti ad accettare in generale.

 

 

A me sembra che parecchi tra i contendenti siano nel discutere troppo indulgenti verso il “generico”. Parlare “in generico” equivale a non dir nulla od almeno ad esporre banalità; ed è una banalità ammettere prima che in qualche parte del mondo o in qualche epoca storica, passata presente o futura, un dato provvedimento può essere od essere stato o tornerà ad essere giovevole all’elevamento umano, e concludere che quindi il politico liberale lo avrebbe dovuto fare o farà bene a farlo suo. L’interesse non sta in ciò; ma nel vedere perché in quella parte del mondo od in quella epoca storica quel provvedimento, il quale poteva essere e fu altrove ed in altra epoca cagione di male, fu causa, invece, di bene. Finché si tratta di provvedimenti od ordinamenti parziali o singoli, forse è facile cadere d’accordo. Diremo nocivo ed illiberale quel provvedimento di maggior giustizia sociale, in virtù del quale, essendosi il principe di una società complicata e numerosa di milioni di persone persuaso essere ingiusto che Tizio possegga 100 e Caio soltanto 50, egli ordina a Tizio di dare a Caio 15, cosicché l’uno scemi ad 85 e l’altro cresca a 65, con minore disparità fra i due. Nocivo ed illiberale perché arbitrario, dipendente dal beneplacito o dal capriccio del principe, con offesa al senso di sicurezza dei cittadini e quindi con nocumento alla spinta a produrre ed a consumare.

 

 

Si potrà discutere invece sulla misura; ma non sarà detta né nociva né illiberale e molti affermeranno essere invece liberale quella norma di legge generale, annunciata prima e duratura e prevista, in virtù della quale ad ognuno che abbia 100 venga imposto un tributo di 15 destinato a promuovere opere di bene o contributi assicurativi vari a favore di tutti coloro i quali, appartenendo alla medesima società numerosa e complicata, abbiano meno di 50, progressivamente in ragione del loro aver meno. Un provvedimento cosiffatto non è arbitrario anzi è universale; non è incerto ma è preannunciato; non turba la sicurezza degli averi, anzi la garantisce per la solidarietà che crea nei consociati. Si può e si deve discutere intorno alla misura del contributo ed alla specie delle opere di bene e dei tipi di assicurazione; che vi sono misure tollerabili ed altre eccessive; e vi sono tipi altamente educativi (pensioni di vecchiaia) ed altri (indennità di disoccupazione) i quali, oltre un certo punto, che l’amico Emanuele Sella chiamerebbe critico, dal produrre effetti morali ed educativi trascorrono a produrne altri immoralissimi e corruttori. Anzi il punto critico vi è sempre; ché persino le pensioni di vecchiaia, lodevoli sovra ogni altra assicurazione sociale a cagione del rispetto verso i vecchi che esse inducono e diffondono tra le popolazioni rustiche, spesso crudelissime verso i vecchi impotenti al lavoro, possono divenire corruttrici quando per il loro eccesso distolgano dal risparmio uomini nell’età giovane e matura, e dal lavoro vecchi attissimi al lavoro, ottimi lavoratori sino a quel momento, divenuti oziosi e viziosi quando ad essi paia di poter vivere senza far nulla, malo esempio a sé ed agli altri. Dovendo definire, direi comunistico quel qualunque provvedimento di maggior giustizia sociale o di statizzazione il quale vada oltre il punto critico, e liberale quello il quale sapientemente riesca a stare alquanto al di qua di esso. Dal che è manifesto che tutto l’interesse della disputa non sta nel provvedimento, ma nelle modalità le quali lo rattengono entro i limiti del punto critico o glieli fanno oltrepassare.

 

 

In verità, però, quando si parla di incompatibilità fra ideale liberale e comunismo non si pensa dai più a codesti parziali provvedimenti sociali. Si pensa a qualcosa di compiuto, ad un tipo finito di ordinamento economico; e questo ordinamento lo si identifica, abbastanza ragionevolmente mi pare, poiché disputando conviene avere almeno una idea approssimativa di quel di cui si discorre, con un ordinamento nel quale agli uomini sia inibito di avere la proprietà privata di qualunque cosa non cada entro la categoria dei beni “diretti”, ossia destinati al consumo od uso personale o della famiglia, con la restrizione ulteriore che non si possa possedere oltre una certa quantità fisica di codesti beni diretti – ad esempio, una vettura automobile e non due, una casa di x camere od y metri quadrati per ogni membro della famiglia e non un castello, un giardino e non un parco e simili – e che i beni diretti posseduti non possano essere locati in affitto a terzi contro compenso di un canone. Tutto il resto, tutti cioè i beni che gli economisti chiamano “strumentali” sono nell’ordinamento comunistico proprietà dello stato, od in parte dello stato e in parte dei comuni o di altri enti pubblici specificati per luoghi o per industrie o per fini. Le modalità possono essere infinite; il carattere distintivo stando in quel “tutti”; che, se invece di tutti i beni strumentali siano accomunati solo alcuni di essi, la disputa tornerà ad essere quella del punto critico, restando al di qua del quale rimaniamo nel mondo liberale ed oltrepassandolo cadiamo nel comunismo.

 

 

Anche se sia osservata la regola del “tutti”, non è del resto necessariamente offeso l’ideale liberale. Se la società comunistica è composta di monaci, i quali “volontariamente” sacrificano ogni loro avere a pro della cosa comune e si riducono a lavorare ed a pregare agli ordini del padre guardiano ed a ricevere quei soli cibi e vestiti e giacigli che al padre guardiano piaccia di assegnare ad ognuno di essi, quella è una società che intende ad elevare se stessa; ed in certe epoche storiche diede opera ad elevare anche la società intera che viveva attorno ad essa. Non vi è alcuna offesa, anzi esaltazione della libertà umana, se certi gruppi di uomini rinunciano e si sacrificano e dissodano foreste e redimono paludi a maggior gloria di Dio. S. Benedetto e S. Francesco promossero l’elevazione degli uomini ad essi contemporanei ed esaltarono l’aspirazione degli uomini verso la libertà.

 

 

Del pari non vi è nulla di contrario alla libertà nelle generose aspirazioni e nei tenaci ripetuti tentativi degli Owen, dei Cabet, dei Fourier e degli altri utopisti di fondare in Europa e in America società comunistiche. La imperfetta riuscita dei tentativi dimostra la fragilità della natura umana, la quale non riesce ad attuare durevolmente i buoni propositi; non prova affatto che quei tentativi fossero, come è volgare costume asserire, antiscientifici. La pigrizia mentale di tutti coloro i quali hanno accettato la terminologia di “utopisti”, usata a titolo di scherno da Marx a carico dei suoi predecessori, è almeno altrettanto ammiranda come la sfacciataggine di costui. Se ben si rifletta, la distinzione fra gli Owen, i Cabet, i Fourier e gli altri classificati fra i socialisti utopisti ed i Marx ed Engels, i quali da sé si autodefiniscono socialisti scientifici, sta in ciò che i primi dissero: siano socialisti coloro i quali spontaneamente decidono di vivere insieme, in tutto od in parte, di lavorare e di produrre insieme, di spartire tra di loro, con una regola da essi accettata, i beni da essi prodotti; ed i quali, così decidendo, riconoscono agli altri il diritto di vivere così come ad essi meglio aggradi, con vincoli diversi da quelli di comunione e di cooperazione che ai socialisti piace di accettare. Laddove i socialisti scientifici inventarono un gergo da cui dedussero che la società “fatalmente” era incamminata verso il cannibalismo esercitato dai grossi a danno dei piccoli, sinché, avendo il cannibale più grosso divorato tutti i minori consorti, ad esso sarebbe stata agevolmente tagliata la testa e la collettività si sarebbe messa al suo posto, instaurando il regno della felicità. Siccome l’avvenimento tardava a verificarsi, accadde che, nel paese più lontano dalla sua verificazione, per la ignavia e la corruttela delle classi dirigenti i Lenin e gli Stalin tagliassero sul serio la testa ai componenti di quelle classi e di altre classi ancora ed instaurassero un regime che si dice comunistico e forse è solo la contraffazione del comunismo.

 

 

Tra parentesi, chi merita sul serio l’attributo di “utopistico”? Gli Owen, i Cabet, i Fourier, i Saint Simon, e gli altri, irrisi come utopisti, i quali, se non riuscirono a far durare collettività in tutto comunistiche, furono tra i maggiori creatori e promuovitori del grandioso movimento cooperativo, il quale ha, si, mutato la faccia di talune società umane? Chi abbia un’idea anche vaga dei risultati meravigliosi ottenuti dalla cooperazione britannica di consumo, con le sue innumeri cooperative locali, con le due grandi associazioni di acquisto e produzione e vendita all’ingrosso d’Inghilterra e di Scozia, con le sue fabbriche e le sue flotte; chi sappia di quale trasformazione nell’edilizia popolare sia stata feconda l’opera delle società cooperative edilizie britanniche; chi ricordi la persistente sempre rinnovata opera delle società di mutuo soccorso, divenute oggi in quel paese le maggiori cooperatrici dello stato nella assicurazione malattie, non può a meno di riconoscere che quei vilipesi utopisti, quei sognatori calunniati da Marx riuscirono a creare, in nome dell’ideale comunistico, istituti vivi e grandiosi e fecondi di stupendo elevamento materiale e morale per le classi operaie. E che cosa crearono i socialisti “scientifici”? Non certo il movimento operaio propriamente detto, là dove esso davvero conquistò, come di nuovo in Gran Bretagna, posizioni oggi incrollabili di fronte ai ceti industriali nella contrattazione dei salari, delle ore e delle condizioni di lavoro; ché quel movimento si svolse del tutto fuori dell’influenza del socialismo scientifico e se deve qualcosa a qualche ispirazione, questa fu la medesima ispirazione di libertà religiosa e politica la quale sta alla radice, così come di tanti altri istituti, anche delle correnti di pensiero dette del socialismo utopistico. Per non discutere su contraffazioni, facciamo astrazione dal gergo apocalittico di Marx e dall’opera dei profittatori odierni di quel gergo; e immaginiamo una società comunistica compiuta e perfetta, nella quale ad uno o più enti pubblici sia dunque riservata la proprietà e l’esercizio di tutti i beni strumentali (quelli che nel gergo cosidetto scientifico dei marxisti si chiamano strumenti di produzione). Altrove[4] furono già esaminate le ipotesi varie che si possono fare in proposito. Non le riesporrò, per non ripetermi e non dilungarmi. Dirò solo che delle due ipotesi estreme l’una, a parer mio, è utopistica; ed è quella secondo cui l’ente o gli enti pubblici padroni dei beni strumentali e del loro esercizio (ossia organizzatori di tutta la produzione dei beni diretti di consumo e del risparmio, che è produzione di nuovi beni strumentali) riconoscerebbero e rispetterebbero ed avrebbero per iscopo di promuovere la massima più ampia libertà degli uomini di scegliere le proprie occupazioni e di distribuire il proprio reddito tra i beni di consumo. È la premessa dei ragionamenti con cui Pareto, Barone e Cabiati concludono alla identità delle soluzioni comunistiche con quelle date dalla perfetta libera concorrenza. La verificazione di siffatta premessa richiede la verificazione di parecchie altre premesse politiche, morali, religiose, intellettuali. Suppone che nella immaginata società comunistica i dirigenti siano davvero l’emanazione dei governati e ne attuino pienamente le aspirazioni; suppone che nei cittadini esista unanimità di propositi, o se vi sono dispareri e dopo discussione la maggioranza si sia pronunciata, la minoranza volentieri acceda[5] e collabori; suppone che esistano mezzi attraverso i quali le minoranze, anche le più piccole, possano liberamente esprimere e far valere le proprie opinioni o credenze contrarie a quelle della maggioranza e ad esse sia garantito nel modo più ampio il diritto di trasformarsi in maggioranza, se ad esse riesca di persuadere i più.

 

 

Tutto ciò, storicamente, sulla base della esperienza fin qui osservata e dalla quale non possiamo dipartirci se non con buone ragioni, è utopistico, fantasticamente utopistico. Abbiamo osservato ordinamenti concreti forniti di una dose maggiore o minore di libertà; ma in nessuno di essi mai si vide che coloro, i quali in un certo momento erano i dirigenti politici, fossero anche i dirigenti economici assoluti, ossia padroni della vita e della morte di tutti i cittadini, arbitri di escluderli dall’acqua e dal fuoco, se non ubbidissero ai loro comandi. Chi, dotato di tale autorità, non soggiacque alla tentazione di diventare uno Stalin? Chi non trovò pretesto o giustificazione a diventarlo, nel dovere da lui sentito di non cedere il posto ad un Trotzki, da lui giudicato a sé inferiore e nemico dell’ideale scritto nelle tavole della legge?

 

 

La ipotesi corrispondente alla natura umana è l’altra: quella per cui chi ha il potere politico assoluto se ne serve non al perfezionamento degli uomini, ma a crescere ed affermare il potere proprio e del gruppo dirigente. Se poi, come accade in una società comunistica piena, il gruppo dirigente, oltre il potere politico, possiede anche il pieno potere economico, per quale mai ragione misteriosa dovrebbe astenersi dall’usarne? Per rendere ossequio al principio che i governanti sono fatti per i governati, che il ministro della produzione deve produrre quel che piace e nella misura in cui piace ai consumatori di desiderare? Eh! via; questi principi possono essere scritti od essere implicitamente contenuti negli scritti teorici di Pareto, Barone e Cabiati; ma i politici e i ministri della produzione di uno stato, il quale abbia a sua disposizione l’arma terribile del possesso e dell’esercizio di tutti i beni strumentali, se ne sono sempre infischiati (Incas del Perù, Russia attuale) e sempre se ne infischieranno. Che sottoposti a siffatto giogo, i popoli alla lunga ne traggono argomento per rivoltarsi e che così attraverso i secoli, per tesi ad antitesi, si giunga alla libertà e si attuino ideali umani più alti, può darsi. Ma che il processo storico di rivolta dimostri la compatibilità fra comunismo e ideale liberale, direi sia una barzelletta.

 

 

«Non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che può garantire o compromettere la libertà… né il filosofo né l’economista in quanto tali hanno nulla a dire in questioni pratiche; la parola spetta solo al politico».

 

 

È lecito esporre qualche considerazione sui pericoli che presenta la attribuzione della competenza nel decidere di questioni pratiche ai soli politici? Mi astengo dal parlar di quel che possono dire e fare i filosofi, sebbene le tante belle parsuasive pagine di Benedetto Croce contro i filosofi, i quali almanaccano escogitazioni di sublimi veri tratti dal proprio cervello e non sanno nulla della vita e non vivono nella storia, e le sue lodi ai cultori di scienze particolari i quali dalle loro conoscenze ed esperienze concrete sono tratti a filosofar bene, mi facciano dubitare della inettitudine dei filosofi alla pratica. Al Croce medesimo la qualità di filosofo non credo sia stata poco giovevole nell’amministrar ottimamente, come egli fece, le cose della pubblica istruzione in Italia ed altre cose pubbliche minori in Napoli.

 

 

Parliamo solo degli economisti. D’accordo che essi, in quanto fanno il loro mestiere, sono dei puri astrattisti. Fabbricano schemi e ragionano in base a quelli. Però sarebbe inesatto dire che quei teoremi non hanno nulla a che fare colla pratica. Quegli schemi sono, anzi debbono essere via via complicati con successive approssimazioni, sì da renderli ognora più vicini alla realtà. Non giungeranno mai a fotografare del tutto la realtà, che è complicatissima e mutabilissima; ma talvolta arrivano ad un grado di approssimazione notevole, tale che le leggi e teoremi finali certamente non dovrebbero parere e non sono disutili al politico il quale debba intuire e studiare e risolvere problemi concreti.

 

 

Dopo la grande guerra, diventò di moda presso la gente frettolosa dire che essa aveva distrutto sbugiardato tutte le leggi economiche; ed invece era vero che quella guerra fu crogiolo quasi sperimentale dal quale riuscirono ridimostrate e nuovamente illustrate e pienamente confermate quelle leggi; e lo sbugiardamento immaginato dai frettolosi consisteva semplicemente in ciò che essi ed i politici non avevano mai saputo dove stavano di casa quelle leggi ed accumulando spropositi credevano ingenuamente che questi non avrebbero avuto degna sanzione; e quando la sanzione venne, strillarono contro la scienza economica quasi questa li dovesse salvare dalle conseguenze dei loro spropositi. L’esperienza fatta nell’altra guerra avrebbe dovuto insegnare che nel risolvere questioni pratiche economiche al politico giova la conoscenza delle essenziali leggi teoriche economiche; e se egli non ha avuto modo prima di procacciarsi una solida cultura in argomento – il che non solo è lecito, ma può essere considerato normale, altra essendo la preparazione dell’economista da quella del politico – giova però l’attitudine a distinguere, tra i suoi consulenti, gli improvvisatori ed i cerretani dai tecnici seri. Dico che il puro intuito non giova nel risolvere questioni pratiche economiche e scegliere le conoscenze vere da quelle spurie. Darò, di quel che dico intorno alla insufficienza dell’intuito, tre esempi: Napoleone, Cavour e Giolitti.

 

 

È curioso leggere nelle memorie del suo grande ministro del tempo, il conte Mollien, gli appunti intorno alla mentalità economica di Napoleone. È mentalità divulgatissima tra gli uomini e si dice del “progettista”. Quasi tutti coloro i quali discorrono di economia pubblica – non di quella particolare loro, della loro impresa, nella quale possono essere espertissimi – appartengono al genere dei progettisti. Hanno una cabala pronta a fornir denari allo stato, per salvare questa o quella industria, per porre rimedio a questo o quel malanno o crisi. Il guaio è che costoro non sentono quasi mai ragione ed è inutile perdere tempo a smontare la cabala. È un lavar la testa ai cani. L’intuito economico di Napoleone – e perciò egli faceva eccezione alla regola propria dei “progettisti” – consisteva nell’afferrare fulmineamente le obbiezioni di Mollien, nel farle proprie e nel rivoltare la propria argomentazione, cosicché Mollien non aveva presto altro da fare se non inchinarsi alla decisione dell’imperatore; che era invece la decisione da lui abilmente, senza parere, suggerita contro il progetto fantastico stravagante di Napoleone. Ma l’intuito ancor più penetrante di Napoleone fu nell’aver scelto Mollien, economista di nascita e di studio, e di averlo, finché regnò, tenacemente conservato, nonostante le lezioni che ne riceveva, ministro del tesoro; come tenne del pari sempre a capo delle finanze un altro grande ministro, Gaudin, duca di Gaeta.

 

 

Il conte di Cavour non aveva invece, nelle cose economiche, bisogno di consiglieri; che il grande politico aveva studiato sul serio la scienza economica teorica ed era stato insieme banchiere e finanziere ed agricoltore pratico, emulo di quegli economisti inglesi, i quali erano anche banchieri o commercianti ed agenti di cambio e che egli tanto ammirava e di parecchi dei quali era amico. In lui si cumulavano l’intuito fulmineo del politico, la conoscenza dell’economista teorico, la pratica dell’imprenditore di cose economiche concrete. Chi dubita che la riunione di tutte queste qualità non abbia contribuito a fare di lui quel grande che fu? Maggiore di quanti uomini politici vanti il secolo XIX? Egli non correva rischio di sbagliarsi chiedendo, prima di decidere, consiglio all’uomo competente in questioni economiche concrete delle quali per avventura non si fosse mai occupato; che egli aveva nella sua organizzazione mentale e nella sua preparazione scientifica gli strumenti sicuri per giudicare l’uomo da lui interrogato e le soluzioni a lui offerte.

 

 

Non si può negare che Giolitti avesse una dose non comune di intuito politico; ma non aveva bastevole preparazione economica e mancava di alcune delle qualità necessarie a dare il giusto peso ai dati del problema che egli doveva risolvere. Giolitti fu il tipico, anzi il maggior rappresentante di quella classe laboriosa, onesta di amministratori pratici, i quali governarono i dicasteri italiani dal 1876 al 1914; gente la quale guardava con sospetto i teorici e credeva che bastasse la “pratica” a “governar bene”; e quella frase del governè bin sentii appunto dalla bocca di Giolitti a riassumere l’essenza dell’arte del governo. Ma non si governa bene senza un’ideale. Era penoso, ascoltando i discorsi di Giolitti, vedere come, discutendo di cose economiche, egli passava sopra, con qualche barzelletta o qualche volgare frase demagogica, al punto essenziale del problema, per ottenere il plauso ovvio della maggioranza alla sua tesi. A lui accadde talvolta di giungere con l’intuito alla soluzione buona; ad esempio, quando propose e tenacemente volle nel 1921 l’abolizione del prezzo politico del pane, che minacciava di trarre nell’abisso la finanza e la moneta italiana. Gli giovò, qui, l’incubo, spaventevole per un uomo assestato come egli era, dei miliardi di disavanzo che ogni dì si cumulavano e crescevano; e volle farla finita. Il merito suo fu in questa occasione grandissimo e vale a riscattare la colpa delle leggi demogogiche d’imposta da lui fatte approvare e di tutto quel che di bene avrebbe potuto, negli anni fortunati in cui governò, operare in economia e in finanza e non fece. Giovò a lui l’avere come emulo un dottrinario, il Sonnino; il quale, per essere un dottrinario e non un teorico, diffettava dei freni che al teorico impediscono di cercare di attuare i propri schemi teorici; mentre il dottrinario, per definizione privo di senso scientifico ed insieme di intuito politico, vorrebbe fare e, incapace a muovere la materia sorda, non può. Ma Giolitti lo irrideva a torto. Avrebbe invero potuto sorridere di Sonnino il conte di Cavour; non egli, Giolitti, il quale ebbe una sola grande idea: quella di immettere le classi lavoratrici e contadine a partecipare al governo politico ed economico del paese; ma, a differenza di Cavour, mancava a lui la conoscenza del meccanismo economico e non seppe perciò andar oltre la nozione empirica del lasciar fare a socialisti ed operai l’esperimento necessario. Troppo poco per un uomo di stato, il quale deve sapere capeggiare ed indirizzare le forze sociali alle quali egli ha inteso aprire l’accesso al potere.

 

 

Un politico che sia un puro politico è qualcosa di difficilmente definibile ed a me pare un mostro, dal quale il paese non può aspettarsi altro che sciagure. Come possiamo immaginare un politico che sia veramente grande – della razzamaglia dei politicanti non val la pena di occuparsi, anche se temporaneamente riscuotono gran plauso ed hanno seguito frenetico – il quale sia privo di un ideale? E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se non si conoscano i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere quell’ideale? Ma queste esigenze dicono che il politico non deve essere un mero maneggiatore di uomini; deve saperli guidare verso una meta e questa meta deve essere scelta da lui e non imposta dagli avvenimenti mutevoli del giorno che passa. Il vizio di Giolitti fu di non possedere le qualità necessarie per attuare l’idea dell’elevamento delle masse che era nell’aria e che egli professava e intendeva far propria. Era uno scettico, adusato dalla quotidiana pratica amministrativa ed elettorale a disprezzare gli italiani, che avrebbe dovuto ed a parole diceva di voler innalzare. Il suo giudizio coincideva con quello di un gran fabbricante di abiti fatti, il quale: «gli italiani» – diceva «camminano gobbi» e gli abiti fatti si adattano perciò male al loro dorso. «Gli italiani camminano gobbi», ripeteva Giolitti e perciò non fanno guerre. Ma egli non li educò e sforzò a voler fortemente e se sul Grappa e sul Piave stettero valorosamente in campo, non fu merito suo; mentre era stato merito di Emanuele Filiberto l’aver costretto i piemontesi del tempo suo, poltroni famigerati tutti, nobili e plebei, a divenire il popolo guerriero per antonomasia fra gli italiani.

 

 

Non esiste una coscienza politica la quale da sé garantisca la libertà ed elevi i popoli. La coscienza politica è un composto di vivo sentimento morale, di amore di patria, di fierezza individuale, di solidarietà di famiglia, di classe e di nazione, di indipendenza economica, che il politico esalta ed utilizza a fini pubblici. Se di quella coscienza esistono i germi, essi possono essere fatti crescere o possono essere distrutti, a seconda della comparsa sulla scena del mondo, di uomini superiori o mediocri. In sostanza, gli uomini governati e governanti creano nel tempo stesso la libertà sotto tutti i suoi aspetti: politico, economico, religioso, di stampa, di propaganda. Se alla radice dell’azione degli uomini vi è libertà morale, come è possibile che essi creino istituti economici che li leghino e li riducano alla condizione di servi, privi della facoltà di scegliere le proprie occupazioni, di soddisfare ai propri gusti, di lavorare fuor degli ordini di funzionari gerarchicamente sovrapposti? Tanto varrebbe dire che gli uomini per elevarsi e per conquistar libertà decidano di delegare ad un dittatore il compito permanente di pensare, di scrivere e di parlare per loro conto. Possono e debbono farlo durante un assedio od un tumulto, volgendo tempi di guerra esterna o civile; ma se si acquetano ad ubbidir sempre, essi sono servi e non liberi.



[1] Con il titolo Intorno ai contenuti di liberismo, comunismo, interventismo e simili. Anche in estratto, Stamperia fratelli Parenti di G., Firenze, 1941 [ndr].

[2] Lo scritto era intitolato: A proposito della discussione fra Croce ed Einaudi. P.S. vi riassumeva e commentava in cinque pagine i termini della controversia intorno alle premesse del ragionamento economico (che aveva avuto inizio sulla «Rivista di storia economica» nel giugno 1937 e si era protratta nei quaderni del settembre 1940 e del marzo 1941), concludendo che «non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che può garantire o compromettere la libertà».

[3] Cfr. Rileggendo Ferrara, nel quaderno del marzo 1941 della «Rivista di storia economica».

[4] Cfr. Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica, nel quaderno del settembre 1940 della «Rivista di storia economica».

[5] Sul concetto di “accessione” cfr. i paragrafi 265 e 266 dei Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino 1940.

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