«Liberali»
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 17/04/1921
«Liberali»
«Corriere della Sera», 17 aprile 1921
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 119-122
C’è una circostanza di buon augurio nel blocco, il quale riunisce tutte le forze anticomuniste; ed è il nome che esso è stato indotto ad assumere. Nonostante tutti i partiti politici affettino di sopravanzarsi l’un l’altro nella corsa verso le novità, le audacie ecc. ecc., il nome di «radicale» è caduto troppo in discredito, perché la concentrazione anticomunista osasse assumerselo. L’aggettivo «popolare» tenne un gran posto nella politica italiana ai tempi di Cavallotti; e sotto i suoi auspici il Nathan aveva strappato il comune di Roma ai clericali; ma ora che la discesa nel «popolo» è stata compiuta da questi ultimi, non si poteva ledere un diritto di proprietà letteraria oramai consacrato dall’uso. Gli aggettivi «riformisti», «costituzionali», «rinnovatori», per l’una o l’altra buona ragione erano parsi inconcludenti; sicché agli uomini di buona volontà non rimase altra via fuorché ricorrere alle due qualifiche, venerande per età e per tradizioni, di liberali e di democratici. Le associazioni nostre si chiamarono «liberali-democratiche» ed il congresso di concentrazione fu chiamato «delle forze democratiche e liberali». Ma, a chi ben guardi, il solo dei due aggettivi il quale abbia un significato positivo è «liberale». La democrazia è un riempitivo buono per tutti, anche per i socialisti, i quali in Germania si chiamano «socialdemocratici» perché pretendono di voler governare e trasformare la società in nome delle masse, del «demos», del proletariato destinato, con la rovina del capitalismo, a diventare «tutto» il popolo. I comunisti, anch’essi, non possono non dirsi democratici. Pare che vi sia, sebbene non sicura, una certa differenza tra i comunisti e gli altri partiti nel modo di concepire le forme del governo; ma l’omaggio alla volontà di «tutti», esclusi, s’intende, dal «tutto» coloro che non sono niente, non appartenendo in qualità di capitalisti al genere umano, è indubbio anche da parte dei comunisti. Chi, oggi, tra gli aspiranti alla deputazione, osa confessare di non essere democratico, nel momento appunto in che si invocano i suffragi del «demos»? E chi non tenta dimostrare di essere lui il democratico più vero e maggiore?
L’unica nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di «liberale». Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta col concetto della tirannia – e socialismo e comunismo altro non sono che asservimento completo dell’uomo alla collettività, rappresentata dagli organizzatori, dai capi, dai soviets, dai dirigenti gli enti economici -; sempre ci fu chi credette che lo stato bene organizzato, forte, capace di adempiere ai fini suoi proprii fosse una condizione necessaria per consentire all’individuo, alla famiglia, alle corporazioni, alle associazioni un libero, vario, autonomo sviluppo, un mezzo per rendere più fecondo il perfezionamento intimo, spirituale dell’uomo; e sempre ci fu per contrapposto chi, scettico sulle capacità creative degli uomini, ritenne che questi dovessero essere governati, istruiti, alimentati, dal principe illuminato e paterno, dalla collettività organizzata, dal governo centrale. L’anima di un Lenin alberga dentro tutti coloro i quali sono persuasi che l’umanità va a rifascio se ad essi non sia consentito di accorrere in suo aiuto, di indicarle la strada, di tenerla per le dande. La battaglia fra i due ideali, liberale e socialistico, sarebbe una grande e degna battaglia, perché combattuta veramente tra due ideali, l’uno dei quali vuole che uno stato forte e conscio dei suoi fini permetta all’individuo di perfezionarsi senza posa, mentre l’altro crede che il perfezionamento della collettività non possa ottenersi se non attraverso la mortificazione delle forze individuali e la esaltazione di quelle collettive.
Perciò abbiamo scritto che la realtà dell’aggettivo «liberale» era bene augurante. In verità c’è qualcosa di più di un semplice augurio. Venti o trent’anni or sono il socialismo era una dottrina simpatica agli intellettuali, intorno a cui i giovani desiderosi di istruirsi si appassionavano, verso cui andavano i desiderosi della verità, gli idealisti. C’era intorno al «socialismo» un fermento di idee, di studi. Oggi tutto ciò è svanito. Chi legge ancora, chi studia Marx? Gli studiosi, i giovani vanno verso altri uomini, verso altri libri. Si ristudiano e si ripubblicano libri del periodo pre-marxistico, per quello che essi hanno di profondamente contrario allo spirito materialistico, materia morta e flaccida che caratterizzò il movimento intellettuale naturalistico e materialistico venuto su dopo il 1860 e giganteggiato insieme col socialismo e morto con esso. Tutta la filosofia moderna, tutto il movimento intellettuale è idealistico, è profondamente avverso a quelle concezioni della vita che concepivano l’umanità come un branco di animali contenti di un pascolo abbondante fornito, senza sforzo e senza preoccupazioni, ugualmente a tutti da una «collettività» sapiente, da un meccanismo automatico provvidenziale. Quello che era stato ed è ancora oggi l’ideale socialistico e comunistico, ossia la scomparsa del governo degli uomini, perché i governi si debbono occupare delle cose, ossia di organizzare una società in cui le cose vadano da sé per mezzo di macchine, di istituti, di organizzazioni, è un ideale schernito da coloro che pensano e valgono qualcosa.
Coloro che sono vissuti di fronte al nemico, nelle trincee, sanno che i valori morali sono di gran lunga superiori ai valori materiali, che i mezzi bellici abbondanti, che i viveri ed i vestiti in copia a nulla servono se l’animo ed il cuore non sono fermi ed ardimentosi; che la vittoria è di chi la vuole e fa lo sforzo per ottenerla. Questo è spirito liberale, è idea nazionale; e queste idee sono il patrimonio delle elette del paese, delle generazioni le quali salgono.
Se così è, rallegriamoci che il blocco nazionale ed anticomunista si intitoli al liberalismo. Ma ricordiamoci anche che questa intitolazione è alta e nobile e sacra. Impone dei doveri, impegna a seguire una via.
Non dovrà più essere lecito a coloro che si sono intitolati «liberali» di non avere la più pallida idea di ciò che veramente sia il «liberalismo». Osano chiamarsi liberali certuni che sono accaniti «protezionisti» e neppure pensano che protezionismo e socialismo sono due fratelli siamesi, che le due dottrine derivano dal medesimo ceppo, sono figlie ambedue dell’idea falsa che lo stato non debba essere forte solo per adempiere ai fini suoi proprii, ma altresì per ordinare agli industriali quel che devono produrre, per consigliare ad essi di intraprendere questa o quell’industria, per garantire loro coi dazi un «equo» profitto. Questi falsi liberali a torto gridano contro il controllo; poiché colui il quale ha chiesto allo stato di garantirgli clientela e guadagni, come può rifiutarsi a render conto del modo, del perché e del quanto guadagni?
Protezionismo vuol dire direzione dell’industria affidata alla onnipotente ed onniveggente burocrazia governativa; e chi vuol questo, certamente si trova imbarazzato a respingere quel controllo giolittiano che trasformerebbe l’industria in una burocrazia governativa.
Quanti altri non sono liberali che di nome ed hanno come unico titolo di liberalismo il non avere avuto mai alcuna idea, né buona né cattiva: ed unicamente si riempiono la bocca di «progresso», di «evoluzione», di «trasformazione» e trovano tutto bello ciò che proviene da parte avversaria, e rincarano la dose sulle scempiaggini più insulse, sugli errori più dannosi esposti dai socialisti, e reputano il massimo dell’abilità far concorrenza nelle promesse insulse ai popolari ed ai comunisti. No, costoro non sono liberali; sono procaccianti puri e semplici. Con essi non si salva l’idea liberale; la si manda a fondo, inonoratamente, nell’ora della vittoria. Prima che a dar battaglia ai nemici interni, diamo perciò battaglia a noi stessi e conquistiamo la coscienza dell’ideale che è nostro, che è fecondo, che è capace di continuo rinnovamento.