Lettera terza. Intorno ai detti memorabili dello statista erede della tradizione piemontese
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 18/08/1917
Lettera terza.
Intorno ai detti memorabili dello statista erede della tradizione piemontese
«Corriere della Sera», 18 agosto 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 33-41
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 449-453
Signor direttore,
Lo statista «che in tutta l’opera sua ha continuato la tradizione piemontese di una politica larga ad ampie vedute democratiche» – così il suo organo ufficiale commenta il discorso dell’on. Giovanni Giolitti – «non poteva non essere il primo del partito costituzionale ad affermare i diritti dell’ora nuova». L’ora nuova dice: «a sinistra, sempre più verso sinistra», in ricordanza della tradizione piemontese cavouriana del connubio con la sinistra di Rattazzi. Nei caffè «costituzionali» piemontesi, dove si ragiona di politica e si paragona Giolitti a Briand od a Lloyd George od a Wilson, quell’affare del «verso Sinistra» deve essere rimasta l’idea politica più chiara tramandata ai posteri dalla storia del risorgimento. Come mai, si ragiona nei piccoli caffè, nessuno statista, fuor del nostro grande erede delle tradizioni cavouriane, s’è ancora accorto che il mondo va verso sinistra? E che la guerra ha insegnato doversi «accelerare decisamente il ritmo» del passo verso quella parte della strada, lungo la quale si cammina, la quale sta a sinistra del viandante?
Par certo che la «tradizione piemontese» si sostanzi in quell’«unico» ricordo «topografico», se si riflette che sarebbe difficile fuori dallo storico connubio ricordare qualche altro fatto piemontese in cui le «ampie vedute democratiche» avessero avuto tale importanza da dar luogo ad una «tradizione». A meno di considerare bastevoli a costituire una tradizione «democratica» a larga visibilità le promesse elettorali non mantenute dello stesso on. Giovanni Giolitti e dei suoi predecessori Depretis e Rattazzi. Cavour, ai suoi tempi, era considerato un aristocratico, «milord Camillo», un latifondista, un monopolista, un accaparratore, un nemico delle osterie dove alcuni degli avoli degli attuali «lavoratori delle città e delle campagne» – che, secondo lo statista – erede, parrebbero i soli componenti l’esercito di terra e di mare d’Italia – cercavano un rifugio contro la visione dei dolori che li attendevano, anche allora, al ritorno «alle povere loro case».
Cavour, sovratutto, viaggiava, leggeva libri di politica, di economia e di storia e non avrebbe preso alla lettera l’immaginosa uscita del primo ministro inglese, educato in un ambiente religioso e biblico, figlio ed eletto di quegli uomini del Galles, in cui sono così numerosi i revivalisti emuli degli asceti medievali. Sentendo dire che la guerra odierna “è la più grande catastrofe dopo il diluvio universale”, il conte di Cavour avrebbe riflettuto che queste sono cose buone a dire per accendere l’entusiasmo di popoli immaginosi, ma che probabilmente uguale è stata sempre e sempre sarà l’impressione di tutti coloro i quali vissero in mezzo agli sconvolgimenti prodotti dalle grandi guerre. Aprasi Tucidide, che forse anche l’on. Giolitti, amante degli aforismi storici semplici e pago della lettura del suo giornale ufficiale, conosce come l’autore di una storia di qualche grido; e si legga come egli parli di quella del Peloponneso come di guerra «assai più di ogni altra che la precedette memorabile e grande», perché «non solo i greci, ma molti tra i barbari e, per così dire, la più gran parte degli uomini fosse sossopra». E poiché è certo che le guerre del Peloponneso esercitarono un’influenza grandissima sulle vicende posteriori dei popoli civili, dirà la storia, la «grande Vergine», fra qualche centinaio di anni, se maggiore sarà stata la portata della guerra attuale. Per ora sarebbe azzardato dare un giudizio in proposito, se non forse nel calore di un discorso detto da un uomo di passione, come sicuramente è il signor Lloyd George.
Ma forse il detentore della rocca, da cui il conte di Cavour trasse il nome gentilizio, interpretò la «catastrofe» del bell’impeto oratorio lloyd-georgiano nel senso extrastorico di avvenimento disastroso e fecondo di miserie. Nella quale opinione si rimane confermati vedendo come l’uomo «che unico affida» ritenga che «il paese continua con immutata costanza a sopportare sacrifici di sangue e di denaro e disagi superiori a quelli di ogni altra guerra e ad ogni comune previsione». Non parlisi di sacrifici di sangue, ché questi non possono a tutti non essere dolorosissimi; ma dei quali, per la loro incommensurabilità, è disperata impresa fare un paragone tra guerre successe a distanza di secoli. Quanto a sacrifici di denaro ed ai disagi, l’opinamento dell’erede delle «tradizioni» e una nuova prova della sua scarsa propensione alla lettura, anche di giornali ed anche di libri dilettevoli e famosissimi. O non s’è letto su tutti i giornali che la guerra odierna ha sfatato tutte le predizioni fatte da statisti, da economisti, da uomini di spada? Ritenevansi ormai le guerre assurde o di brevissima durata, perché produttrici di tale scompiglio nei traffici, nella industria, nella banca da rendere impossibile ai popoli di lavorare e di vivere. Questa la «comune previsione» prima della guerra; che i fatti dimostrarono lontanissima dal vero, essendosi invece i popoli adattati, oltre davvero ogni comune previsione, alla nuova vita imposta dalla guerra, sì da rendere disperati coloro i quali dallo scompiglio generale speravano la loro rapida ed incontrastata vittoria.
Se non alle previsioni si bada, ma ai fatti, sarebbe fuor di luogo sperare che lo statista-erede della tradizione piemontese conosca la storia del suo Piemonte e, peggio, «i sacrifici di denaro ed i disagi» che i piemontesi subirono per salvare l’indipendenza del proprio paese dalla prepotenza di Luigi XIV o dagli eserciti della rivoluzione francese e di Napoleone; quando in comuni non lontanissimi da quello di Cavour gli uomini erano ridotti a mangiar ghiande ed il principe spezzava tra i contadini affamati la collana dell’Annunziata, perché potessero procurarsi un pane così nero, in confronto al quale l’odierno pane di guerra parrebbe candidissimo. Ma senza andare sino a questa non peregrina erudizione, fu scritto in Italia un romanzo famosissimo, in cui si narra di guerre e di carestie e di peste; ed ognuno che abbia letto i Promessi sposi sa che le guerre di altri tempi producevano, anche in paesi lontani da quelli di guerra guerreggiata, «disagi» di gran lunga superiori a quelli che finora la guerra presente ha prodotto nel «paese», che vuol dire in Italia. Di fronte alle descrizioni del Manzoni, impallidiscono le querele odierne sulle tessere dello zucchero, sui 300 o 400 grammi di pane al giorno ed a testa, sul digiuno periodico della carne; e se l’on. Giolitti non ha voluto far previsioni ed affermazioni per l’avvenire, forza è concludere, rovesciando il suo detto, che tutte le grandi guerre del passato hanno costretto le popolazioni a sopportare disagi assai superiori a quelli che oggi valorosamente il popolo italiano sopporta.
No, finché le cose non peggiorino, questo dei «disagi» superiori a quelli mai visti in passato non è un buon argomento per eccitare il popolo a rinnovare le tragiche gesta della rivoluzione francese, allo scopo di chiudere «definitivamente» il periodo antebellico di politica estera segreta e di politica sociale ed economica, così come «il periodo dell’antico regime fu chiuso dalla rivoluzione francese».
Probabilmente l’on. Giovanni Giolitti non conosce il libro che ha inaugurato l’analisi delle sostanziali differenze fra l’antico regime e il regime inaugurato dalla rivoluzione. Quell’Ancien régime di Alessio di Tocqueville è ancora adesso, se si bada ai discorsi di apertura del consiglio provinciale di Cuneo, il racconto inedito di un viaggio alla scoperta di terre nuove. Dimostrò quel libro, or sono più di tre quarti di secolo, e dimostrò in maniera la quale da nessuno fu in seguito recata in dubbio, che la rivoluzione francese non chiuse ma continuò un periodo. Fu la prosecuzione accelerata di un’opera gigantesca, alla quale i re di Francia avevano consacrato secoli di sforzi non inutili. Abolì una feudalità che di fatto s’era già consunta. Unificò , con la divisione in dipartimenti e con la nomina napoleonica dei prefetti, quella Francia che i re avevano già riunito attorno a sé e che in gran parte facevano amministrare da propri «intendenti» non elettivi. Diede le proprietà della chiesa e della nobiltà a quei contadini che già stavano comprando le terre dai signori, un gran numero dei quali era già andato in rovina. Nessun grande avvenimento storico «chiude», come farebbe credere l’immagine da consiglio provinciale dell’on. Giovanni Giolitti, il periodo precedente di storia. Nessuna rivoluzione, nessuna guerra è un bolide caduto dal cielo a turare i buchi delle malefatte del passato. Ma tutte escono dalla terra medesima che fu feconda del passato, e continuano e superano il passato. Perciò son grandi.
Giova sperare che la storia d’Italia dopo la guerra continui ed innovi la storia passata. La continui nelle aspirazioni all’indipendenza non solo territoriale ma spirituale, alla giustizia tra le classi, che sono il patrimonio ideale del nostro risorgimento, di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi. La innovi nella ripugnanza alla politica delle clientele personali, che fu impersonata, in un periodo oscuro della nostra storia recente, da Agostino Depretis e da Giovanni Giolitti.