Lettera settima. La società delle nazioni è un ideale possibile?[
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/01/1918
Lettera settima.
La società delle nazioni è un ideale possibile?[1]
«Corriere della Sera», 5 gennaio 1918
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 79-94
La guerra e l’unità europea, Ed. di Comunità, Milano, 1948, pp. 11-22
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 940-948
Signor direttore,
Messaggi di presidenti, discorsi di cancellieri e di ministri degli esteri, articoli di giornali farebbero supporre che uno degli scopi o dei risultati della guerra odierna possa essere la nascita di una «società delle nazioni» destinata a far regnare la giustizia e la concordia laddove oggi imperano la forza e la lotta fratricida. Agli Stati uniti d’America si dovrebbero contrapporre od associare gli Stati uniti d’Europa, in attesa di veder nascere in un momento ulteriore dell’incivilimento umano gli Stati uniti del mondo. Perché non dovrebbe essere possibile di rifare in Europa ciò che fu fatto dalle 13 colonie americane ribellatesi all’Inghilterra? Taluno, più restio ad ammettere i tedeschi nella nuova società delle nazioni, ha affermato che questa esiste già: le 27 nazioni grandi e piccole rappresentate alla recente conferenza di Parigi offrirebbero appunto il quadro di una esistente e viva e combattente società delle nazioni.
Ahimè! Come l’esempio prova la difficoltà dell’impresa e la difficoltà estrema di definire persino che cosa vogliano dire le parole «società delle nazioni»! Che cosa è una società nella quale alcuni associati sacrificano vite ed averi, altri averi soltanto, altri soltanto vite, mentre alcuni stanno a vedere e taluno persino realizza guadagni non piccoli, limitandosi a vendere provviste di guerra ed a far voti di vittoria? Dovrebbe essere chiaro a tutti che, prima di discorrere della «società delle nazioni» come di uno degli ideali scopi della guerra presente, farebbe d’uopo sapere quale in verità sia lo scopo per raggiungere il quale siamo decisi a spargere sangue ed a profondere tesori. Troppe volte è accaduto, durante la guerra presente ed in amendue i campi belligeranti, che fossero malcerti ed instabili gli scopi per cui si combatteva, perché oggi, avvicinandosi il giorno della stretta finale, non giovi precisare chiaramente ciascuno di quegli scopi.
Può sembrare ingenuo dire, a proposito della auspicata «società delle nazioni», che si deve lottare soltanto per costruire qualche cosa che sia vitale e vantaggiosa. Ma non è. I più, quando discorrono di «società delle nazioni», pensano ad una specie di perpetua alleanza o confederazione di stati, la quale abbia per iscopo di mantenere la concordia fra gli stati associati, difenderli contro le aggressioni straniere e raggiungere alcuni scopi comuni di incivilimento materiale e morale. Tutti implicitamente ammettono che gli stati alleati o confederati debbono rimanere pienamente sovrani ed indipendenti; che non si debba costituire un vero super-stato fornito di una sovranità diretta sui cittadini dei vari stati, con diritto di stabilire imposte proprie, mantenere un esercito super-nazionale, distinto dagli eserciti nazionali, padrone di una amministrazione sua diversa dalle amministrazioni nazionali. I più non pensano a questa seconda specie di «società delle nazioni», perché non a torto ritengono che questa non sarebbe una «società» di nazioni ugualmente sovrane, ma un unico stato sovrano di cui le nazioni attuali diventerebbero semplici provincie. Si vogliono, sì, gli Stati uniti d’Europa, ma ogni stato deve essere indipendente, sicché la Francia non sopraffaccia l’Italia, od amendue, insieme con l’Austria e la Russia, non diventino provincie dell’Inghilterra o della Germania, o, anche, degli Stati uniti d’America, se il nuovo ente politico dovesse comprendere il continente americano.
Ora, se l’esperienza storica dovesse essere davvero la maestra della vita, tutti i discorsi sulla «società delle nazioni» fatti in questi ultimi mesi di guerra sarebbero senz’altro apparsi vani, quando si fosse ricordata la fine miseranda dei tentativi sinora compiuti e durati talvolta per pochi anni e tal’altra per secoli di «società delle nazioni» intesa nel senso, che oggi appare unicamente possibile e desiderabile, di confederazione di stati sovrani, ed il successo magnifico di quell’altro tipo di società delle nazioni, il quale culmina nella trasformazione dei preesistenti stati sovrani in provincie di un unico più ampio stato sovrano. L’esperienza storica prova, cioè, che ciò che oggi si considera come ideale non è possibile, non è duraturo e può essere funesto; e che soltanto è possibile, duraturo e benefico ciò che dai più oggi si considera repugnante.
Una prova nettissima della verità delle mie affermazioni è data da quei medesimi Stati uniti, a cui si volgono gli sguardi di quanti sperano giorni migliori per l’umanità dilaniata. Leggesi in tutte le storie delle costituzioni come gli Stati uniti siano vissuti sotto due costituzioni: la prima disposta dal congresso nel 1776 ed approvata dagli stati nel febbraio 1781; la seconda approvata dalla convenzione nazionale il 17 settembre 1787 ed entrata in vigore nel 1788. Sotto la prima, la unione nuovissima minacciò ben presto di dissolversi; sotto la seconda gli Stati uniti divennero giganti. Ma la prima parlava appunto di «confederazione e di unione» dei 13 stati, come oggi si parla di «società delle nazioni», e dichiarava che ogni stato «conservava la sua sovranità , la sua libertà ed indipendenza ed ogni potere, giurisdizione e diritto non espressamente delegati al governo federale». La seconda invece non parlava più di «unione fra stati sovrani», non era più un accordo fra governi indipendenti; ma derivava da un atto di volontà dell’intiero popolo, il quale creava un nuovo stato diverso e superiore agli antichi stati.
«Noi, – così dice lapidariamente il preambolo della vigente costituzione federale, – noi, popolo degli Stati uniti, allo scopo di fondare una unione più perfetta, stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere per la comune difesa, promuovere il benessere generale e garantire le benedizioni della libertà per noi e per i posteri nostri, decretiamo e fondiamo la presente costituzione per gli Stati uniti d’America».
Ecco sostituito al «contratto», all’«accordo» fra stati sovrani per regolare «alcune» materie di interesse comune, l’«atto di sovranità del popolo americano tutto intiero», il quale crea un nuovo stato, gli dà una costituzione e lo sovrappone, in una sfera più ampia, agli stati antichi, serbati in vita in una sfera più ristretta.
Ve n’era urgente bisogno. Quei sette anni di vita, dal 1781 al 1787, della «società» delle 13 nazioni americane erano stati anni di disordine, di anarchia, di egoismo tali da far rimpiangere a molti patrioti il dominio inglese e da far desiderare a non pochi l’avvento di una monarchia forte, che fu invero offerta a Washington e da questi respinta con parole dolorose, le quali tradivano il timore che l’opera faticosa sua di tanti anni non dovesse andare perduta. La radice del male stava appunto nella sovranità e nell’indipendenza dei 13 stati. La confederazione, appunto perché era una semplice «società» di nazioni, non aveva una propria indipendente sovranità, non poteva prelevare direttamente imposte sui cittadini. Dipendeva quindi, per il soldo dell’esercito e per il pagamento dei debiti contratti durante la guerra della indipendenza, dal beneplacito dei 13 stati sovrani. Il congresso nazionale votava spese, impegnava la parola della confederazione e per avere i mezzi necessari indirizzava richieste di denaro ai singoli stati. Ma questi o negligevano di rispondere o non volevano, nessuno tra essi, essere i primi a versare le contribuzioni nella cassa comune.
Dopo brevi sforzi, – così scrive il giudice Marshall nella sua classica Vitadi Washington, riassumendo le disperate ripetute invocazioni e lagnanze che a centinaia sono sparse nelle lettere del grande generale e uomo di stato, – dopo brevi sforzi compiuti per rendere il sistema federale atto a raggiungere i grandi scopi per cui era stato istituito, ogni tentativo apparve disperato e gli affari americani si avviarono rapidamente ad una crisi, da cui dipendeva la esistenza degli Stati uniti come nazione… Un governo autorizzato a dichiarare guerra, ma dipendente da stati sovrani quanto ai mezzi di condurla, capace di contrarre debiti e di impegnare la fede pubblica al loro pagamento, ma dipendente da tredici separate legislature sovrane per la preservazione di questa fede, poteva soltanto salvarsi dall’ignominia e dal disprezzo qualora tutti questi governi sovrani fossero stati amministrati da persone assolutamente libere e superiori alle umane passioni.
Era un pretendere l’impossibile. Gli uomini forniti di potere non amano delegare questo potere ad altri; ed è perciò quasi impossibile, conchiude il biografo, «compiere qualsiasi cosa, sebbene importantissima, la quale dipenda dal consenso di molti distinti governi sovrani». Ed un altro grande scrittore e uomo di stato, uno degli autori della costituzione del 1787, Alessandro Hamilton, così riassumeva in una frase scultoria la ragione dell’insuccesso della prima società delle nazioni americane: «Il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche è un puro nome».
Vogliamo noi combattere per un nome o per una realtà? Ammettasi che la realtà di uno stato europeo o anche solo di uno stato composto di tutti o parecchi degli attuali alleati sia difficilissima a raggiungersi. Tuttavia gli sforzi fatti per costruire uno stato vivo di vita propria, con indipendente diritto di ripartire imposte sui suoi cittadini senza dipendere dal beneplacito di altri stati sovrani, fornito di un esercito proprio, atto a mantenere la pace interna ed a difendere il territorio contro le oppressioni straniere, dotato di una amministrazione sua doganale, postale, ferroviaria, sarebbero almeno sforzi compiuti per raggiungere uno scopo concreto, pensabile, se pure oggi irraggiungibile. Mentre invece gli sforzi fatti per creare una società di nazioni, rimaste sovrane, servirebbero solo a creare il nulla, l’impensabile, ad aumentare ed invelenire le ragioni di discordia e di guerra. Alle cause esistenti di lotta cruenta si aggiungerebbero le gelosie per la ripartizione delle spese comuni, le ire contro gli stati morosi e recalcitranti. Una delle ragioni di decadenza dell’Olanda nel secolo diciottesimo non fu forse la repugnanza della maggior parte delle «Provincie Unite» a pagare la propria quota nel tesoro comune, sicché il peso maggiore delle guerre ricadeva quasi solo sulla provincia più ricca, l’Olanda, sì da impoverirla e consigliarla ad una politica estera di rassegnazione e di silenzio?
A che andare, del resto, cercando esempi forastieri del danno di creare entità politiche esistenti solo di nome e prive di potere effettivo, quando pur ieri, con ineffabile tracotanza, il segretario tedesco agli esteri von Kühlmann invocava le tradizioni imperiali degli Hohenstaufen e le loro bramosie di terre italiane? Quell’invocazione avrebbe dovuto suscitare in lui il ricordo del sogno più infausto e più vano di dominazione universale che abbia visto il mondo: il sogno irreale del Sacro romano impero. Dopo un breve periodo di splendore e di potenza reale, dall’800, data dell’incoronazione a Roma di Carlo Magno come imperatore, quel sogno fu per centinaia d’anni un incubo gravante sulla Germania e sull’Italia. Inghilterra e Francia e Spagna, rimaste fuori dell’unità nominale dell’impero, diventarono, fin dall’ultimo medio evo, stati forti sovrani rispettati. La Germania e l’Italia, amendue vissute sotto l’ombra del sogno imperiale, rimasero disunite dilaniate serve, sinché in ognuna di esse uno stato sovrano, sotto le due case di Brandeburgo e di Savoia, non poté a poco a poco assorbire estensioni sempre più vaste del territorio nazionale e finalmente confondersi con la nazione stessa, divenuta una. Ma, nel frattempo, quanto male produsse la vana chimera di una monarchia universale, vagheggiata anche dalla mente sovrana di Dante Alighieri! Quel Sacro romano impero, morto solo nel 1806, dinanzi alla realtà imperiosa degli eserciti napoleonici, fu per 1.000 anni un tentativo sterile di costituire, sotto l’egida di un unico imperatore, una vera società delle nazioni. L’imperatore, erede degli antichi imperatori romani, doveva mantenere la pace e la tranquillità interna in tutto il mondo conosciuto, impedire le sopraffazioni dei principi, sollevare i poveri ed i deboli, far trionfare il regno di Dio in terra. Ma come poteva far tutto ciò, quando i veri sovrani erano i principi, i vescovi, le libere città? Con quale esercito poteva egli impedire le lotte intestine? Con quali denari mantenere l’esercito, egli il cui reddito principale erasi ridotto al ricavo del prezzo di vendita di vani diplomi di nobiltà e di privilegi privi di contenuto; egli, le cui entrate imperiali nel 1764 giungevano appena a 13.884 fiorini e 32 grossi? L’esistenza di un’autorità formale, destinata a far regnare la pace e la giustizia nel mondo, fu una delle cause le quali per secoli impedirono che si costituisse in Germania ed in Italia una autorità reale, fornita di mezzi finanziari e di armi, la quale potesse davvero dar pace ai popoli tribolati.
Non abbiamo forse noi italiani il ricordo più vicino di un altro tentativo di società delle nazioni, fortunatamente durato meno a lungo del Sacro romano impero? Il preambolo del trattato della Santa alleanza, conchiuso il 26 settembre 1815 a Parigi fra gli imperatori d’Austria e di Russia ed il re di Prussia, rammentava come i tre monarchi si fossero impegnati «in ossequio ai precetti del vangelo, i quali ordinano a tutti gli uomini di amarsi come fratelli, a rimanere legati con l’indissolubile nodo di una amicizia fraterna, a prestarsi vicendevole assistenza, a governare i loro sudditi come padri, a mantenere sinceramente la religione, la pace e la giustizia. Essi si considerano membri di una unica nazione cristiana ed incaricati, ognuno, dalla provvidenza divina di reggere un ramo della stessa famiglia. Essi incitano tutte le potenze a riconoscere questi principii e ad entrare nella Santa alleanza». Ben presto il tentativo apparve non solo ipocrita – non per tutti, ché l’imperatore Alessandro di Russia aveva accarezzato davvero in un impeto generoso il sogno della pace universale ed i popoli per un istante avevano plaudito, – ma anche vano. Tornata la discordia tra i membri della affermata società delle nazioni, ché questo e non altro era nella sua essenza la Santa alleanza, dove si trovò la forza per reprimere le lotte intestine e per serbare pace ai popoli europei?
Dopo 2.300 anni si ripeteva in America ed in Europa l’insuccesso che aveva travolto il tentativo delle città greche di costituire una confederazione, capace di mantenere la pace nel mondo greco e di difendere questo contro i persiani. Le città greche avevano deliberato anzi qualcosa di più di quel che era contenuto nella costituzione americana del 1781 e nel trattato della Santa alleanza del 1815; poiché, nel 470 avanti Cristo, Aristide era riuscito a fissare le quote di contribuzione delle singole città nel tesoro comune raccolto nel tempio di Delo. Mancò però un governo comune, scelto dai delegati delle città, per amministrare il tesoro comune; mancò un esercito federale; ed i contributi dipendevano dal buon volere dei confederati. Il sinodo di Delo non aveva un potere effettivo, come non l’avevano il congresso americano del 1781 e la dieta del Sacro romano impero. Fu un’ombra di stato; né poté impedire le lotte fra Atene e Sparta, fra Sparta e Tebe e la comune caduta, invano deprecata da Demostene, sotto l’impero macedone.
Di fronte a questi «nomi vuoti» di società di nazioni, quali unioni vere e salde ci presenta la storia? L’impero romano fondato colla spada di Cesare e di Augusto, ma di cui disse Bacone che «non fu Roma a coprire il mondo, ma il mondo a coprire Roma» per significare il fatto principe della storia romana: la volontà dei popoli di mettersi sotto le ali protettrici di un popolo capace di far leggi e di farle rispettare. Lo stato francese, fondato non su trattati tra i grandi signori feudali, ma sul potere affermato contro ad essi da successive forti dinastie di re. L’impero germanico, di cui gli odierni piani protervi di conquista non ci devono far dimenticare che esso coronò gli sforzi meritori di ricostruzione dell’unità germanica durati secoli da parte di una dinastia energica e perseverante. L’Italia, anch’essa frutto di aspirazioni ideali da parte di un’eletta di pensatori e di sforzi secolari di una famiglia dimostratasi capace di creare un vero stato ai piè delle Alpi.
Forse questi non sono gli esempi, a cui oggi si può ispirare chi, pur sognando, voglia mirare ad un ideale dimostrato dalla esperienza storica possibile. Bisogna riandare colla mente ad esempi di stati sovrani, i quali abbiano volontariamente rinunciato alla loro sovranità per scomparire nel seno di un nuovo stato sovrano di ordine più elevato. Nel 1707 l’unione della Scozia con l’Inghilterra, due paesi abitati da razze in gran parte differenti, parlanti in parte lingue diverse, animati da sentimenti di rivalità commerciali, divisi da ricordi di lotte e di odi fierissimi, salvò l’Inghilterra dal pericolo di essere assalita alle spalle da uno stato, il quale aveva tradizioni antiche di alleanza con la Francia, diede alla Scozia parità di diritti nel più grande stato, la Gran Bretagna, risultato dalla fusione, diede agli scozzesi la possibilità di guidare le sorti del maggiore impero del mondo, preservò le tradizioni, il patrimonio ideale, le istituzioni giuridiche proprie della Scozia; e rimane ancor oggi l’esempio europeo più bello di creazione di uno stato nuovo e più ampio in seguito a discussioni ed a trattative complicate ed ardue fra uomini di stato consapevoli della grandezza dell’impresa a cui si accingevano e delle sue difficoltà. L’altro esempio è la già citata costituzione data nel 1787 agli Stati uniti d’America, trasformando quella che era un’ombra, una irreale società di nazioni pronte a dividersi ed a combattersi in un unico stato d’ordine superiore ai 13 stati confederati. Vuole la tradizione che, apponendo il 17 settembre 1787 la sua firma al progetto approvato dalla convenzione nazionale, il quale doveva ancora ottenere il consenso dei singoli stati, Washington esclamasse: «Se gli stati respingeranno questa eccellente costituzione, mai più un’altra potrà essere formata in pace. La nuova costituzione sarà redatta nel sangue».
Il vaticinio di Washington è destinato ad avverarsi per la futura costituzione degli Stati uniti d’Europa? Io lo ignoro e non so se non converrebbe per ora limitarci ad immaginare creazioni di stati latini, germanici, slavi d’ordine più elevato dei piccoli stati europei, che tutto fa presumere destinati a divenire stelle di seconda o terza grandezza, se la società delle nazioni britannica saprà trasformarsi – problema grandioso, da cui dipende la vita o la morte del mondo anglo-sassone – in un vero stato, se gli Stati uniti sostituiranno alla dottrina di Monroe la estensione dell’unità federale alle altre parti dell’America e se i giapponesi diventeranno il fermento organizzatore del mondo cinese. La guerra presente è la condanna dell’unità europea imposta colla forza da un impero ambizioso; ma è anche lo sforzo cruento per elaborare una forma politica di ordine superiore. Questa deve essere il frutto degli sforzi di uomini convinti che soltanto le cose impossibili riescono ed hanno fortuna; ma devono essere sforzi indirizzati non ad affermare maschere false di verità, ma ideali concreti, saldi, storicamente possibili.
[1] Tradotto in tedesco nel 1945 con ampio rimaneggiamento e il titolo Die Föderationsidee vor einem Vierteljahrhundert und heute. Eine italienische Stellungnahmein«Neue Schweizer Rundschau» (Zürich), a. 12, n. 11, marzo 1945, pp. 655-664. Traduzione dall’italiano di Doris Hasenfratz. [ndr]