Lettera quinta. «Lasciar fare alla storia»
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/10/1917
Lettera quinta.
«Lasciar fare alla storia»
«Corriere della Sera», 20 ottobre 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 55-66
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 454-459
Signor direttore,
Il giornale giolittiano torinese insiste nella idealizzazione del suo patrono, raffigurato come il tipo dello statista Piemontese. Questa volta siamo però già alla costruzione di quello che La Bruyère avrebbe detto un «carattere». L’eroe della leggenda è così scolpito: «Empirismo, pazienza, prudenza, tolleranza, tatto, senso della realtà, repugnanza dalla rettorica, amore dell’ordine»… «Istinti e tradizioni ereditarie di piemontesi furbi e cortesi, diplomatici, burocratici, soldati di padre in figlio», gente che «lascia fare alla storia, come il buon medico sovente lascia fare alla natura».
Da quali fonti manoscritte o stampate o da quali tradizioni orali lo scrittore di tali frasi abbia tratto queste caratteristiche del perfetto uomo di stato di marca piemontese, non so. Ma i ricordi della storia che un tempo si insegnava nelle scuole di rettorica e di filosofia del vecchio Piemonte, quando ai ragazzi si usavano raccontare le vicende della Casa di Savoia e non «esperienze mistiche e professioni di verità soprasensibili», come l’unità d’Italia e simili «sublimità», quei ricordi non mi sembrano molto favorevoli alla teoria del «lasciar fare alla storia».
Non già che questa teoria in date circostanze non sia buona ed utile. Una delle maggiori personalità di stato dell’evo moderno, la regina Elisabetta d’Inghilterra, trasse il suo paese a salvamento appunto con la teoria del non fare essa e del lasciar fare alla storia: col non maritarsi risolse i nodi gordiani della prevalenza di Francia e di Spagna e dell’unione delle corone inglese e scozzese; col non inviperire in paese né contro i cattolici, né contro i protestanti, diede al popolo l’unità religiosa. Ma anche la regina Elisabetta dovette decidersi, insistendo il clamore popolare, a troncare la testa di Maria di Scozia ed a dichiarare legalmente la guerra alla Spagna, dopo averla lasciata fare per tant’anni a corsari che diventarono ammiragli di gran nome e vinsero l’invincibile armata di Filippo II.
I grandi uomini di stato, quelli che impressero un’orma profonda nella storia, lasciarono fare bensì agli avvenimenti, ma ad un certo punto presero per le corna la signora storia e l’obbligarono a viva forza a lavorare a vantaggio del proprio paese. Aveva «lasciato fare» a francesi ed a spagnuoli il duca di Savoia Carlo il Buono, e s’era ridotto a morire miserabile e sbeffeggiato, privo persino dei gioielli della corona e col paese invaso; ed il figlio Emanuele Filiberto aveva lasciato credere che la storia avesse bene operato a pro dei sopraffattori, mettendosi al soldo di uno di questi. Ma egli attendeva il momento; e ben lo seppe afferrare a San Quintino, nella memorabile giornata che per un secolo stabilì l’assetto d’Europa e ridiede a lui la corona ed al Piemonte l’indipendenza.
Passo sopra a quell’irrequieto, fantastico, immaginoso precursore di idealità destinate ad avverarsi dopo più di due secoli, che fu Carlo Emanuele I; ma chi oserebbe dire che i due gran re che tornarono a fondare per la seconda volta la monarchia di Savoia e con essa l’unità d’Italia, Vittorio Amedeo Il e Carlo Emanuele III, abbiano lasciato fare alla storia? Soldati, sì, e diplomatici anche; ma avventurosi e coraggiosi ed iracondi e capaci di sacrificare il tutto per il tutto, pur di non lasciarsi mettere il piede sul collo. Se avessero avuta soltanto qualità di «furberia» e di «cortesia», se fossero stati solo dei «diplomatici» e dei «burocratici», se avessero avuto appena della pazienza, della prudenza, della tolleranza e del tatto, quei due sovrani, che la storia corrente non dice grandissimi solo perché furono a capo di un piccolo stato, non avrebbero cacciato il Piemonte in quattro guerre lunghe, dure ed economicamente disastrose: dal 1690 al 1696, dal 1701 al 1713, dal 1730 al 1738, e dal 1740 al 1748; guerre che diedero al Piemonte Pinerolo e Casale, Acqui e la Lomellina e Val di Sesia e Novara e l’oltre Po pavese ed i feudi imperiali, che fecero mangiare, traverso a molti stringimenti di ventre, al piccolo stato sabauda, alcune tra le foglie più preziose del carciofo lombardo. Ma quelle foglie non si mangiarono «lasciando fare»; ma «facendo», ma pagando di persona, ma precorrendo, contro le prepotenze dei Borboni, i quali avevano imposto il disarmo di quasi tutti i reggimenti, le astuzie che giovarono alla Prussia nella lotta contro Napoleone; ma conducendo ripetute volte lo stato all’orlo della rovina, da cui, grazie a miracoli di energia e di fiducia nella «sublimità», si sollevò ad un’altezza che lo rese ammirato ed ascoltato ben al di là delle sue forze durante tutto il secolo XVIII. «Furbi» sì, ma all’occasione anche violenti ed iracondi e precipitosi.
Così come più d’un secolo dopo era «furbo e cortese» ma anche violento ed acceso e pronto quel conte di Cavour, al cui «temperamento», se non più al «genio», aspira oggi il possessore della rocca che da Cavour si intitola. Quale buffa contraffazione di biografia cavouriana è in uso nei cenacoli giolittiani, per osare di asserire che il gran conte era un empirico, un paziente, un prudente, un tollerante? Empirico il Cavour, che andava a lezione all’università di Torino da Francesco Ferrara, il più grande teorico della scienza economica italiana e ne pubblicava i riassunti della prolusione nel suo giornale? Empirico chi in gioventù si era dilettato a scrivere anch’egli un compendio della scienza economica, chi era dotto in problemi religiosi, chi aveva una preparazione scientifica formidabile? Favola assurda, come è assurda la favola che i piemontesi in genere siano stati capaci di fare le grandi cose del 1859 e del 1860 solo perché erano furbi e cortesi, pazienti e tolleranti, odiatori della rettorica ed aventi il senso della realtà.
Purtroppo anche i piemontesi avevano in casa dei rettorici bolsi e vuoti come il Brofferio, quotidiano svillaneggiatore di Cavour, assillante calunniatore della sua politica e del suo giornale, che già a quei tempi giudicava come oggi fanno certuni in cerca di diversioni, mosso da cupidigie speculative, da spirito di accaparramento monopolistico e simili «scempiaggini». Ma fecero grandi cose, perché seppero anteporre alla diplomazia ed alla furberia del Dalla Margherita la franchezza dei propri convincimenti, la sbalordente franchezza cavouriana nel dire la verità, sì da far credere ai diplomatici fosse menzogna; preferirono alla piccola realtà ed al buon senso del coltivare il proprio giardinetto la credenza ferma nelle idealità che fecero l’Italia. Cavour non fu un isolato; era tutta la miglior parte della classe dirigente piemontese di prima del 1848, la quale pensava e parlava ed agiva in base a principii, che oggi il giornale ufficiale del giolittismo chiamerebbe «professioni di verità sovrasensibili». Perciò a noi che siamo appena usciti dal gran decennio giolittiano, dalla «fioritura» di prima del maggio 1915; i discorsi di Cavour paiono idealistici. Non così ai suoi contemporanei, perché erano vissuti e cresciuti in un ambiente di idealità vive e fervide.
La sola verità che c’è in fondo a quel «lasciar fare alla storia», che sarebbe il gran merito dello statista erede delle tradizioni piemontesi, è nel detto memorabile che oggi ci rivela il suo organo: «lo sviluppo dell’Italia stava nell’ordine delle cose». Il detto non è in tutto vero, neanche applicato alle «fioriture» del gran decennio giolittiano; perché l’Italia economica nuova non si poté fare senza una nuova scienza, senza banditori di essa, senza agricoltori coraggiosi pronti ad accogliere il verbo dei primi cattedratici ambulanti, senza industriali e negozianti di fegato. Le fabbriche non sorgono, ed i campi non migliorano perché la storia lo vuole.
Certa cosa è che la storia, quella scritta, deve ancora dare il suo giudizio intorno al grado di collaborazione che ai risultati ottenuti nel gran decennio diede l’opera dell’erede del «temperamento» di Cavour. I maestri di logica insegnano che, perché un dato avvenimento possa considerarsi la conseguenza di un altro, nel caso nostro perché il miliardo di maggiori salari degli operai, perché l’entrata nel popolo delle «plebi di città che le signorie straniere ci avevano lasciato come peso morto e corrotto» – e chi mai aveva visto queste corrotte plebi cittadine prima che la grande industria richiamasse in Torino, in Milano, in Genova gli abitanti del contado? – possano considerarsi come la conseguenza del temperamento neo-cavouriano e dei concepimenti giolittiani, sarebbe necessario che quell’avvenimento non potesse essere ascritto a nessuna altra causa.
Forse lo scrittore del giornale torinese ha scoverto nuovissimi metodi di analisi storica, per cui nel groviglio delle cause ed effetti delle vicende italiane è riuscito a rintracciare il filo della causa unica sufficiente della prosperità italiana nel gran decennio, che sarebbe quel «temperamento» o quei «concepimenti».
La conoscenza di quei metodi sarebbe per fermo suggestiva e per fermo ancor più interessante sarebbe sapere in qual modo si spieghi come dappertutto, in tutti i paesi del mondo, d’Europa e d’America, d’Asia e d’Oceania, il gran decennio sia stato caratterizzato da alti salari, miliardi di incremento della ricchezza nazionale e prosperità inaudita. Che dappertutto il governo si inspirasse, nelle repubbliche democratiche, come negli imperi imperialisti, nei paesi dove non si scioperava perché c’era l’arbitrato obbligatorio ed in quelli dove non si scioperava perché c’era lo knut, alle regole che la tradizione piemontese ha trasmesso, incorrotte e misteriose, ai privilegiati del «temperamento» neo-cavouriano ed ai toccati dalla grazia dei «concepimenti generali ritrovati da Giolitti?» Che se questi nuovi metodi di critica storica non verranno rivelati, rimarrà il dubbio: come attribuire in Italia ad una causa risultati che altrove ugualmente si ottennero in assenza di quella causa?
E, poiché sono sul tema dei confronti di logica storica internazionale, sarebbe interessantissimo sapere perché solo in Italia e non altrove si ponga il dilemma: o il parlamento o il giornalismo. Parrebbe, a sentire i cultori delle tradizioni piemontesi, che sia una cosa nuova, mai più vista ed intollerabile, che ci siano giornali e giornalisti intenti a svillaneggiare ministri, governi, deputati e parlamenti. Parrebbe che, se le ingiurie non vengono fatte cessare, se non si riesce a dimostrare che tutti gli ingiuriatori sono pagati o dominati dai pescicani della guerra, il parlamento debba senz’altro «oggi o domani, scomparire»; ovvero, se le ingiurie non sono vere, il giornalismo «riceva un colpo che può essere mortale».
Se questo dilemma fosse vero, da lunghi anni parlamenti e giornali sarebbero amendue scomparsi. La Camera dei comuni, la venerabile madre di tutti i parlamenti oggi vivi e vivaci, sarebbe morta da due secoli. Perché quali ingiurie e quali villanie non furono dette ai membri della Camera bassa inglese ed alla Camera stessa come ente? Da Swift, l’immortale autore del libro di Gulliver, in poi, le più atroci ingiurie furono lanciate contro di essa; e la più infrequente non era per fermo quella di essere composta tutta di persone vendute o corrotte; vendute a Luigi XIV per l’abiezione del proprio paese, corrotte da Walpole per ottenere il voto del bilancio a pro della politica dei Re Elettori annoveresi. Se fossero stati necessari i pubblici abbruciamenti di giornali e le condanne dei giornalisti a baciare il pavimento della camera bassa – «come è sporco questo pavimento!», esclamava uno di questi giornalisti svillaneggiatori dopo essere stato costretto a fare onorevole ammenda dei suoi insulti – a tergere la camera del fango che su di essa si gittava a piene mani, a quest’ora il grande giornalismo inglese non esisterebbe.
In verità, né il fondamento indubbio di molte tra le accuse di mercimonio e di tradimento allo straniero lanciate dai giornalisti ai membri della Camera dei comuni ebbero la virtù di uccidere questa; né i fulmini del legislatore contro le insolenze degli «scribi», come si chiamavano un tempo, distrussero il giornalismo. L’uno non può vivere senza l’altro. Il giornale è il pungolo del parlamento; e questo è la tribuna dove i problemi posti dall’opinione pubblica devono venire discussi e trovare una soluzione. I vilipendi degli «scribi» contro parlamentari e governanti sempre mai si ebbero e sempre giovarono a purificare governi e parlamenti, sempre contribuirono a far tacere coloro che non meritavano di parlare. Né mai coloro che difendevano, contro il clamore degli «scribi», una causa giusta, ebbero bisogno di difendersi gridando che le mani le quali lanciavano l’accusa non erano pure.
La causa giusta si difende con i suoi meriti; mentre la causa cattiva va a fondo anche se i suoi patroni sono purissimi e gli avversari nefandi. Tra giornalismo e parlamento, il che vuol dire tra una forma ed un’altra di pubblica discussione – e chi mai, salvo coloro i quali infantilmente credono alla virtù delle carte costituzionali scritte, può attribuire ai parlamenti altro e più nobile ufficio di quello di tribuna pubblica di tutte le voci del paese? – non è giudice né l’una né l’altra parte. Giudice è solo la pubblica opinione degli uomini riflessivi ed amanti del paese, la quale col tempo via via si trasforma in storia e lascia cadere da ultimo nell’oblio gli uomini politici ed i giornalisti, i quali furono corrotti o ciechi, ed erige un monumento di riconoscenza a coloro che, traverso a decisioni e scoramenti, ad impeti e rilassatezze, a sacrifizi e trionfi, a calunnie ed esaltazioni, benemeritarono della patria.