Lettera decima. Perché è necessario che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/10/1918
Lettera decima.
Perché è necessario che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca
«Corriere della Sera», 16 ottobre 1918
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 127-141
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 782-790
Signor Direttore,
Quando si legge che bisogna combattere la Germania sino alla distruzione del suo spirito militaristico, delle sue caste feudali, della sua dinastia autocratica, fa d’uopo confessare che non tutti rimangono persuasi. La pace offerta dall’uno o dall’altro cancelliere, da un principe di casa regnante o da un democratico-sociale, sembra sempre ugualmente benedetta ed auspicata; e, purché dia a noi ed ai nostri alleati il riconoscimento dei nostri diritti nazionali, essa sembra un beneficio siffatto da rendere superfluo l’interessamento intorno al regime politico sotto cui i tedeschi, a guerra finita, preferiranno di vivere. Questioni interne, si osserva, di cui è consigliabile non occuparci, poiché il frutto degli interventi forestieri fu mai sempre l’irrigidimento dei sentimenti di patriottismo e di solidarietà fra le classi contro le inframmettenze altrui.
Molto di vero c’è in questa ripugnanza che le persone moderate e tranquille hanno ad assumersi la missione di rigenerare politicamente e spiritualmente il nemico. Ed è specialmente ragionevole la ripugnanza nata dell’istinto, il quale ci avverte che forse noi siamo invitati a distruggere ciò che non esiste. Se invero la Germania ha molti peccati e se soffre di malanni da cui noi, come si dirà dopo, abbiamo urgente interesse di vederla guarita, non è men vero che essa non patisce di altre malattie, da cui noi ci compiacciamo di dichiararla afflitta. Essa non è, ad esempio, né uno stato feudale, né uno stato illiberale; né si può affermare che essa sia tenuta sotto il giogo di un prussianesimo contrastante agli interessi nel mondo tedesco. Che la Germania sia uno stato feudale, caratterizzato cioè dal dominio politico esercitato dalla nobiltà terriera sul contadiname dei suoi latifondi, noi siamo tanto più scusati nel crederlo, quando si pensi che fino all’età di 56 anni lo credette anche il fondatore dell’unità tedesca, l’allora principe ereditario Guglielmo di Prussia, il quale grandemente stupì, quando avendo manifestato al Bismarck il suo proposito di non «lasciar maltrattare il contadino dal gentiluomo», si sentì rispondere che, quand’anche l’avesse voluto, il nobiluomo non ne aveva il potere; e se nondimeno l’avesse, «il tentativo finirebbe col suo maltrattamento o per opera dei contadini o per opera della legge». Così narra Bismarck nelle sue memorie: ed è verità indubbia che dai tempi di Stein e di Hardenberg, ogni traccia di regime feudale è scomparsa in Prussia ed in Germania la quale è un paese governato nelle forme usate in ogni altro paese civile d’Europa. Meno accentratore del governo francese e dell’italiano, il governo tedesco è liberale all’europea, sebbene non all’anglo-sassone. Ha ridotto la nobiltà ad un ceto di servitori a buon mercato dello stato, orgogliosi dei servigi resi e dell’attaccamento alla dinastia ed all’idea dello stato. In maggioranza poveri, salvo un certo numero di latifondisti, gli Junker tedeschi cercano sostentamento e potere negli uffici militari e civili dello stato; simili in ciò alla nobiltà piemontese, pur essa in gran maggioranza priva di beni rilevanti di fortuna, la quale diede tanti servitori devoti alla dinastia sabauda e tanto sangue sparse per l’indipendenza patria. Sebbene il partito cattolico sia potente, la forza politica del clero luterano e cattolico è stata annullata, così come accadde negli altri paesi “liberali” dell’Europa, sicché se il “liberalismo” si fa consistere, come si fece per tanti anni tra noi, nella lotta contro il “clericalismo”, si può senz’altro affermare che esso ebbe causa vinta in Germania. La quale possiede, nei suoi organi di governo centrale e locale, nei rapporti fra stato e municipi, nei suoi istituti di previdenza sociale, nella sua magistratura, nelle sue università e scuole d’ogni ordine, istituti congegnati con sagacia grandissima e capaci di risultati ottimi. Cosicché non a torto i tedeschi, a noi che li eccitavamo a mutar forma di governo, trasformando il cancelliere responsabile solo verso Dio e l’imperatore in un gabinetto responsabile dinanzi al parlamento, replicavano: E perché dobbiamo mutare? Forseché i governi non si saggiano alla prova dei risultati?
E qual governo europeo, anzi qual governo civile moderno può dimostrare di aver prodotto risultati migliori, più vantaggiosi alla collettività di questo nostro governo a tipo costituzionale, in cui il cancelliere è nominato dall’imperatore e verso di lui solo è responsabile, ed al parlamento spetta solo l’ufficio del controllo delle spese e della critica? Forseché, per citare due soli esempi, il sistema di legislazione sociale saputo creare dal nostro governo non era universalmente riconosciuto da tutti gli studiosi come il più compiuto e vantaggioso? Forseché il nostro metodo di governo locale, coi borgomastri ed assessori nominati dai consigli municipali elettivi, per un numero fisso d’anni, quasi per concorso tra persone, anche forestiere alla città, venute in grido per la loro capacità tecnica amministrativa, non ha dato risultati mirabili, invidiati dai paesi, dove le elezioni mandano spesso incompetenti discorritori ai seggi sindacali ed imitati già da non pochi municipi nord-americani, dopo ripetuti sperimenti di altre forme di governo?
Ed è anche vero che questa Germania non feudale, non clericale, liberale all’europea, sapientemente amministrata all’interno, fu creata dalla dinastia degli Hohenzollern. Se noi, nemici della Germania e della sua dinastia, vogliamo vedere nettamente perché la dinastia e l’impero vanno oggi incontro al disastro, e vogliamo regolare la nostra azione in rapporto a questa conoscenza netta, dobbiamo prima riconoscere che la Germania moderna è la creazione di una famiglia. Precisamente come la Francia moderna è stata creata attraverso i secoli dai Valois e dai Borboni, come l’Inghilterra si è costituita in unità per opera dei Plantageneti e dei Tudors, come il Piemonte fu creato dalla dinastia sabauda. In epoche di disordine, di spezzettamento della sovranità, di oblio dei sentimenti nazionali, furono queste famiglie ostinate valorose econome abili, che attrassero a sé gli elementi migliori del paese e crearono una corte, un’amministrazione, una giustizia, un esercito. E con queste forze mossero alla distruzione delle meno forti e meno capaci dinastie concorrenti; assoggettarono il paese altrui, crebbero di potenza, diventarono un centro di attrazione. Quante piccole dinastie, quanti liberi ed irrequieti municipii dovettero domare i conti, poi duchi di Savoia, prima di giungere a costituire quello stato che solo due secoli fa poté assumere il titolo di regno e cominciare ad aspirare alla unificazione dell’Italia! Da umili origini nacque pure la dinastia degli Hohenzollern. Ricordisi il celebre brano, con cui il grande storico inglese Lord Macaulay inizia il suo saggio su Federico II:
«Circa verso il principio del secolo XI, il marchesato del Brandeburgo fu concesso dall’imperatore Sigismondo alla nobile famiglia degli Hohenzollern. Nel sedicesimo secolo questa famiglia abbracciò le dottrine luterane. Ottenne, nel primo seicento, dal re di Polonia l’investitura del ducato di Prussia. Anche dopo quest’aumento di territorio, a mala pena i capi della casa Hohenzollern potevano uguagliarsi agli elettori di Sassonia e di Baviera. Il suolo del Brandeburgo era in gran parte sterile. Persino intorno a Berlino, capitale della provincia, la quale si estende intorno a Potsdam, residenza favorita dei margravi, il paese era un deserto. In alcuni luoghi, la sabbia profonda a stento poteva essere costretta da lavori assidui a fornire scarse messi di avena e di segala. In altri luoghi, le antiche foreste, da cui i conquistatori dell’impero romano erano discesi sul Danubio, rimanevano inviolate dalla mano dell’uomo. Dove il suolo era ricco era generalmente paludoso e la sua insalubrità allontanava i coltivatori che sarebbero stati attratti dalla sua fertilità».
Combattendo e destreggiandosi contro e fra i principi e re sassoni annoveresi bavaresi polacchi svedesi russi, la dinastia giunse a fondare un gran regno e finalmente ad espellere dalla Germania i discendenti di quegli orgogliosi Asburgo, che quattro secoli prima le avevano concesso il margraviato di Brandeburgo. Nella concorrenza con dinastie più fiacche, con organizzazioni statali meno resistenti, dinastia e stato prussiano provarono la loro capacità a compiere la grande opera della unificazione tedesca. Comunque le cose volgano in avvenire, la Germania non potrà mai dimenticare che essa è stata foggiata dal Grande Elettore, da Federico II, da Guglielmo I, come l’Italia non potrà non annoverare tra i fattori massimi della sua esistenza unitaria Emanuele Filiberto, Vittorio Amedeo II, Vittorio Emanuele II. Né alcuna forza straniera od interna sarebbe stata da tanto da scrollare la dinastia degli Hohenzollern se essa stessa non avesse voluto divenire l’artefice della sua rovina, se essa non avesse commesso modernamente errori irreparabili. Noi assistiamo oggi in Germania agli inizi del dramma storico che in Inghilterra si compié nel 1642 e nel 1689 ed in Francia nel 1789. Se gli Stuardi inglesi non fossero stati leggeri incostanti prepotenti, durerebbero ancora oggi sul trono; né forse l’Inghilterra vanterebbe una tradizione bicentenaria di governo parlamentare. Se gli ultimi Borboni non fossero stati incapaci dilapidatori ed inconsapevoli, la rivoluzione francese non sarebbe probabilmente avvenuta e la storia moderna avrebbe preso un altro cammino. Se Bismarck fosse vissuto per qualche decennio ancora e fosse stato il consigliere di un principe come Guglielmo I, limitato d’intelletto, ma retto e compreso dei suoi doveri verso il paese, probabilmente al mondo sarebbe stata risparmiata la sciagura della guerra presente.
L’errore, da cui la dinastia tedesca è tratta alla rovina od alla trasformazione sua profonda, nel senso inglese ed italiano, fu di aver voluto prolungare nel mondo moderno una situazione tramontata per sempre. Finché gli Hohenzollern dovevano lottare con i Wittelsbach, con gli Absburgo, con principi gelosi e città particolaristiche per unificare la nazione tedesca, era naturale considerassero cosa propria l’arma della diplomazia e dell’esercito che essi avevano foggiato per tale rude bisogna. Era naturale, per chi guardava alla grandezza del compito passato, che l’imperatore riservasse al suo gabinetto la nomina alle cariche diplomatiche e militari e negasse agli eletti del popolo ogni diritto di mescolarsi nelle cose sue. Frattanto però anche il popolo tedesco aveva dato prova di essere atto al governo di se stesso. Nelle cose minori: nell’amministrazione della provincia e dei comuni, nella gestione degli istituti di assicurazione sociale, nella sovrintendenza delle scuole, i delegati del popolo avevano dato prova di notevole grado di maturità politica. Attorno a questi corpi locali e funzionali, i quali godono in Germania maggiore libertà di movimento che non in Italia ed in Francia, sorse tutto un ceto di amministratori-eletti, i quali provarono che non farebbe difetto una classe politica venuta su dalla scelta dei concittadini ed atta a governare l’impero. Era giunto per la dinastia degli Hohenzollern, dopo il 1866 e dopo il 1871, il momento fatale in cui essa doveva rassegnarsi a far uscire il popolo di minorità, aprendogli l’accesso al governo del paese e specialmente alla direzione della sua politica estera. Il sacrificio, duro ma necessario, sarebbe stato forse fatto se essa si fosse ricordata dell’ammonimento di Bismarck:
«Il mio ideale, dopo conseguita la nostra unità nei limiti entro i quali era conseguibile, fu sempre quello di acquistare la fiducia non solo dei minori stati europei, ma anche delle grandi potenze e di farle persuase che la politica germanica, dopo riparata l’injuria temporum e ricomposta ad unità la nazione, vuole essere pacifica e giusta».
Invece di cercare le occasioni «di mostrare che noi siamo soddisfatti e pacifici», l’attuale imperatore cercò le occasioni per intromettersi nelle questioni che meno toccavano la Germania, moltiplicò i motivi per dimostrare ai tedeschi che essi non avevano scampo se non tenevano ognora in alto la spada forbita e lucente. La Germania di Guglielmo II è uno dei casi tipici dell’organo, il quale, creato dapprima allo scopo di compiere una funzione, compiuta questa, altre ne cerca, artificiosamente, allo scopo di mantenere se stesso in vita. Il governo personale, il cancelliere creato dall’imperatore, l’esercito che deve ubbidienza all’imperatore e non al paese, che è quindi sottratto al controllo ed al comando della nazione, sono necessità di tempi in cui bisogna “creare la nazione”. Ma quando questa oramai esiste, essa deve diventare padrona delle proprie sorti. Potevano gli statisti germanici immaginare forme di responsabilità verso il popolo diverse da quelle in uso nei governi parlamentari. Negli Stati Uniti il presidente ed il suo gabinetto non sono responsabili verso le due camere; né cadono in conseguenza di un voto di sfiducia, come accade in Inghilterra e nei paesi latini. Ma il presidente è l’eletto del popolo è la guida e nel tempo stesso l’esecutore della volontà della nazione. Non era impossibile forse conciliare l’efficacia tradizionale di governo con il riconoscimento della sovranità della nazione.
Invece Guglielmo II, testa bislaccamente romantica, immaginò, per serbare un potere che il Grande Elettore e Federico II avevano dovuto al proprio genio, di dare nuova vita a sogni romantici di una missione divina dei re, che sarebbero a mala pena apparsi tollerabili nelle teste mistiche dei romantici tedeschi del principio del secolo decimonono, a storte immagini di uno stato medioevale cavalleresco, non esistito mai e che invano De Maistre aveva tentato, nell’Europa stanca dalle guerre napoleoniche, di idealizzare e di propagandare, coll’unico visibile frutto di artificiose incoronazioni in San Dionigi di Carlo X. Trovò egli cortigiani, come il principe di Bulow, i quali lo incoraggiarono nelle sue manie divinizzanti, dimostrando, nel libro La Germania imperiale, che i tedeschi sono incapaci di governarsi da se stessi, idealisti battaglianti per fisime irrealizzabili o senza importanza nella vita politica e bisognosi quindi di un governo forte, proveniente dall’alto, che li indirizzi e li sorregga. Poté citare, purtroppo, l’esperienza fantastica del parlamento di Francoforte del 1848, in cui un nugolo di dottrinari per lunghi mesi discusse, chiacchierò e si sciolse senza nulla conchiudere, lasciando i popoli persuasi che soltanto la forza della spada potesse sciogliere i nodi gordiani del destino.
Così fu che il popolo tedesco consentì a rimanere minore d’età, anche dopo essere risorto; che il parlamento tedesco, non chiamato ad agire, privo di ogni responsabilità di governo, cessò di attrarre uomini d’azione e divenne persino incapace alla critica. Ed il sovrano ed i suoi consiglieri dovettero seguitare ad agitarsi ed a fare gli occhi corruschi e ad accattar brighe ed a minacciar di dar fuoco alla gigantesca polveriera, che era divenuta l’Europa, perché, altrimenti, a che avrebbe servito la missione divina dei re? Con qual ragione si sarebbe potuto negare ai delegati del popolo il diritto di aver voce nelle cose dell’esercito e della politica estera? Come si sarebbe potuto impedire che a grado a grado il parlamento prendesse coraggio e volesse partecipare, insieme col sovrano, al governo della cosa pubblica? Non avendo voluto consentire a questa partecipazione, volendo mantenere intatta la finzione del popolo incapace a governare se stesso, si fu costretti a gridare ogni giorno la patria in pericolo. Poiché soltanto dinanzi al pericolo diuturno della patria era possibile tenere quiete le forze sociali e politiche che pure in Germania erano sorte ed erano ingigantite, come dappertutto altrove in Europa, nella seconda metà del secolo XIX: gli industriali, i commercianti, le classi professionali, gli operai. Il miracolo storico di un popolo, certamente fra i più istruiti, tra i più ricchi ed industriosi di quelli civili, il quale abbandona il governo del paese nelle mani di una dinastia e di un ceto di funzionari e di soldati scelti dalla dinastia, è stato possibile solo grazie alla coltivazione intensa di questo senso del pericolo nazionale. La Germania circondata “da un mondo di nemici e di invidiosi”: ecco l’incubo affannoso che turbava le veglie ed i sonni del popolo tedesco, e che un imperatore persuaso della sua missione divina e circondato da un ceto di alti funzionari, anch’essi convinti della propria superiorità intellettuale e morale ed avidi nel tempo stesso di ricchezze e di onori, cercarono per un trentennio di tenere ognora vivo.
Se oggi la guerra si chiudesse con una pace bianca, la dinastia sarebbe salva. Essa potrebbe seguitare ad alimentare l’incubo del “pericolo nazionale”; ed a chiedere per sé l’autorità necessaria a tenere l’esercito in armi per difendere contro il nemico il sacro suolo della patria. Anche se qualche provincia ci fosse abbandonata, non per ciò sarebbe spento il vulcano che coperse di sue fiamme e di sue lave roventi tutta la dolente Europa. Quel vulcano trarrebbe sempre nuovo alimento dal senso del pericolo in cui i tedeschi crederebbero di trovarsi, premuti da ogni parte da popoli avidi di spartirsi le spoglie dell’impero tedesco. Nulla sarebbe mutato al quadro dell’Europa dinanzi al 1914, quadro spaventoso per occhi che oggi possono contemplarne il fatale seguito.
Perché l’Europa e la Germania trovino finalmente quiete, perché le generazioni venture non abbiano a patire nuove sanguinose guerre, fa d’uopo che il disastro della dinastia tedesca sia compiuto. Fa d’uopo che essa dimostri la sua incapacità a salvare l’esercito dalla sconfitta. Siamo sulla buona via; ché l’esperimento di governo semi-parlamentare del principe Massimiliano del Baden è un tentativo disperato di salvataggio ed insieme un’affermazione di volontà di ceti tenuti sempre lontani dalla responsabilità del potere. Ma non basta; ché se l’esperimento riuscisse, la dinastia salva metterebbe ben presto da un canto l’arnese di cui si giovò nell’ora del dubbio; ed il vecchio gioco della creazione del pericolo tornerebbe a dare suoi frutti. Solo quando la Germania vedrà che a nulla valse la sua abdicazione al governo di sé medesima e si persuaderà che la dinastia di missione divina condusse esercito e paese alla rovina; solo quando scorgerà che la pace ordinata dagli alleati fu pace giusta e non violatrice della sua unità nazionale, solo allora le cadrà la benda dagli occhi. Vedrà allora che non è necessario rassegnare i poteri suoi ad un gruppo di funzionari responsabili solo a Dio e non al popolo, per avere un esercito capace di difendere il territorio nazionale; ché l’esercito del suo imperatore non lo avrà saputo difendere, mentre gli eserciti della spregiata democrazia latina ed anglo-sassone, gli eserciti radunati a furia di popolo, avranno avuto la virtù di cacciare l’invasore, riducendolo entro i suoi onesti confini. Ed allora avverrà la riconciliazione fra il popolo tedesco e i popoli civili del mondo; e per lunghi anni l’Europa avrà pace.