Lettera a mons. Barbieri sui problemi dell’educazione
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/09/1956
Lettera a mons. Barbieri sui problemi dell’educazione
«Idea. Settimanale», 9 settembre 1956, p. 1
Il Presidente Luigi Einaudi, per ringraziarlo di avergli inviato il suo libro Nuovi orizzonti della carità – Pensieri sull’educazione, ha indirizzato a mons. Barbieri la seguente lettera:
Caro monsignore,
Forse la pagina nella quale Ella pone più chiaramente il problema del suo libro è questa:
«Nelle famiglie “gli scolari” respirano insofferenza, alimentata ai nostri giorni da un’aurea di democrazia che sembra concedere il diritto a ognuno di fare il processo a ogni istituzione e a chi le rappresenta e di parlare di religione e di politica, come se tutti fossero teologi e statisti.
«La figura dell’educatore non è da questi giovani accettata passivamente: nell’anima dei singoli è viva la tendenza a valutarne comandi e indirizzi in relazione al credito che l’educatore riscuote. Raccolti in un’aula scolastica, essi sono quasi sempre in un atteggiamento di sia pure benevola opposizione verso gli insegnanti, soppesati in ogni loro parola e azione.
Né l’indole docile della maggioranza di essi né le dottrine intenzioni dell’educatore riescono a mutare sostanzialmente il clima di questo ambiente.
«Con il proposito di rilevarne più i difetti che le qualità gli alunni fissano i loro occhi sugli insegnanti e li frugano nei minimi particolari; ne studiano l’aspetto fisico, ne osservano il modo di vestire e i gesti, la maniera di esprimersi, di cui sono inclini a sottolineare più la monotonia che la vivacità, le inutili ripetizioni, le forme retoriche, le piccole vanità. Si divertono a trascinare gli insegnanti su argomento scabrosi o su un terreno che si presti al ridicolo, ne saggiano l’indole ed il carattere, magari suscitando razioni d’ira e qualche volta di vana simpatia.
«Togliere serietà alla scuola ed abbassare il prestigio delle autorità, è un po’ il segreto disegno, conscio e inconscio, di molti alunni».
Se rivado colla mente alla mia esperienza di scolaro di liceo del 1888-91 dovrei dire che l’atteggiamento nostro critico non era allora ugualmente esteso a tutti gli insegnanti. Alcuni di essi erano immediatamente, per tradizione subito apprese dagli anziani, guardati con diffidenza e scarso rispetto, perché ritenuti poco adatti ad insegnare od incapaci a mantenere la disciplina; ed erano fatti oggetto di scherzi e di lazzi. Ma erano in meno. I più dei professori erano guardati con rispetto, talvolta con timore od ammirazione. Tutti erano giudicati; e no ho l’impressione che il giudizio fosse ingiusto. Taluno che si sapeva aspirare alla carriera universitaria, che perseguì poi con notabile successo, fu da noi unanimamente collocato al disotto di altri che finì preside di liceo; né, oggi, riflettendoci, penso fossimo dalla parte del torto. Le difficoltà che l’insegnamento doveva superare erano tuttavia soprattutto di ordine didattico e disciplinare.
L’aula era attenta e silenziosa, quando parlava il professore di storia naturale, che si sapeva vagamente essere un ornitologo illustre, socio dell’accademia delle scienze, studioso di specie mal note della Polinesia; ed invece rumoreggiava dinnanzi agli sperimenti di fisica, talora condotti a mal fine dalla malvagia improntitudine di qualche scolaro. Si incoraggiava il latinista a divagare sugli errori, forse veri, di maestri posti più in alto di lui, allo scopo di distrarlo dalla correzione di compiti in classe, sicché il tempo trascorso sul latino e sul greco era quasi in tutto perduto. Non erano perdute invece le lunghe ore occupate in classe nel fare trasunti di scritti di critica letteraria, mentre il professore di italiano correggeva le bozze di suoi lavori e di una sua rivista scolastica; e noi della fatica durata sapevamo grado a lui che, una volta alla settimana, interrompendo la cura delle cose sue private, illuminava di viva luce quel che noi si era riassunto e la poesia che improvvisamente ci leggeva. Sicché sempre lo ebbimo in grande estimazione.
L’atmosfera degli allievi liceali era dunque critica ma rispettosa. I discorsi che oggi sento mi fanno ritenere che il quadro non lieto, che, nel brano citato, Ella tragedia, potrebbe essere talvolta resa ancora meno roseo. L’eco delle battaglie politiche giungeva, sì, nelle aule scolastiche; e noi convittori, trascorrendo, nella quotidiana ora di passeggiata in città, dinnanzi ad una certa bottega di giornalaio, furtivamente gittavamo il soldo, ritirando il foglio proibito; – ed imparzialmente erano vietati tutti, ritenuti colpevoli di distrarsi dagli studi. Ma la cosa non aveva eco nell’aula. Oggi, sento da scolari discorrere di insegnanti che guardano al sacerdote, il quale insegna religione, come ad una sotto-specie tollerata sono in virtù del prepotere del partito di maggioranza e di professori, evidentemente di sinistra i quali parlano con scarso rispetto dei colleghi democristiani; e questi di quelli. Sicché, in classe già si patteggia; e non sanno il perché. Non so se, in materia sessuale, i costumi siano peggiori o migliori; pare ché, per la frequenza, maggiore assai delle classi miste la familiarità tra giovanetti e giovanette sia cresciuta – e potrebbe essere un bene – ; ma sia cresciuto altresì il numero delle ragazze le quali hanno l’amico e ciò non sempre è innocuo.
Insomma, il problema educativo nelle scuole pubbliche e private secondarie è diventato in questi due terzi di secolo diverso, ed agli affanni didattici – disciplinari i quali sovrattutto angustiavano i capi degli stabilimenti di istruzione media della fine del secolo passato si sono aggiunti affanni morali sociali e politici, i quali rendono più ardua la situazione dei primi.
Di qui il significato soprattutto morale dell’insegnamento contenuto nel suo libro dedicato all’educazione, significato reso palese dal sottotitolo: Nuovi orizzonti della carità. Ella vuol cioè affermare sin dal principio che il problema dell’educazione è in primo luogo morale; e, riconducendo la morale educativa all’idea della «carità», questa spiega colle parole di S. Paolo nel capitolo XIII della prima lettera ai Corinti: «La carità è paziente, è benefica; la carità non è astiosa, non è esistente, non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse, non si muove ad ira, non pensa male, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra del godimento della verità: a tutto accomoda, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta».
Erro nel dire che il suo libro è un commento alla definizione della carità data da S. Paolo?; ed erro nel pensare che il problema della rivalità fra scuola laica e scuola religiosa è male posto se lo si riferisce all’insegnamento soltanto e non invece all’educazione morale dei giovani? Le diversità nella materia dell’insegnamento, dato il principio della validità legale dei diplomi rilasciati in seguito ad esami di stato e dati i programmi particolareggiati dei corsi imposti dall’alto, sono praticamente irrilevanti. Se tanti padri di famiglia inviano i loro figli, come per la sua figliola minore fa il ministro attuale della pubblica istruzione, on. Paolo Rossi, alle scuole religiose, ciò non fanno per maggiore perfezione nell’insegnamento. La ragione è altra e non è soltanto e talvolta non è prevalentemente quella religiosa. Il ministro elenca: «maniere, sentimenti, calore materno, cure particolari che non sempre si possono attendere dalla scuola pubblica uniforme». Sinché la scuola pubblica non dia alle famiglie gli stessi beni di ordine morale – e sono beni i quali per la più gran parte dei giovani sono il fondamento del successo didattico – la scuola privata, principalmente religiosa, avrà un suo luogo nel campo dell’educazione. In un futuro forse lontano, quando l’opinione pubblica si sarà persuasa della futilità del valore legale assegnato ai diplomi di licenza e di laurea, scuola pubblica e scuola privata prevarranno a seconda del pregio spontaneamente attribuito a diplomi privi di valore legale. Il pregio sarà valutato in ragione tanto delle cose imparate e sapute dal giovane quanto dalle qualità morali da lui acquistate. L’opinione che la scuola di stato debba perdere, nella libera competizione di diplomi liberamente giudicati a norma del loro valore effettivo, è erratissima.
Vince nella gara chi meglio vuole il bene, un bene composto di nozioni scientifiche e di valori morali. Perché lo stato, sotto il pungolo della concorrenza, non dovrebbe far di più e meglio di quanto oggi non operi? Quale il fondamento delle pessimistiche previsioni dei tanti i quali in tal modo collocano se stessi tra la «gente di poca fede»? Perché supporre che troppo pochi, tra gli insegnanti laici, posseggano il dono della carità, che S. Paolo delineava nella lettera ai Corinzii e del quale lei, monsignore, ha così bene dimostrato la necessità ai nostri giorni? Sono convinto che molti insegnanti, laici e religiosi, sappiamo non solo insegnare, ma essere maestri di vita per i loro scolari. Spetta ad essi diffondere, coll’esempio, il buon seme; sicché i giovinetti accorrano ad essa il letizia e speranza.