Leggi generali o leggi speciali in materia di espropriazioni per pubblica utilità o di riscatto di imprese pubbliche?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/04/1913
Leggi generali o leggi speciali in materia di espropriazioni per pubblica utilità o di riscatto di imprese pubbliche?
«Rivista delle Società Commerciali», aprile 1913, pp. 337-342
In estratto: Roma, Offic. tip. Bodoni
In un bellissimo rapporto ufficiale intitolato Ricerche preliminari per la riforma della legge sulle espropriazioni dovuto agli studi del segretariato generale del Ministero dei Lavori Pubblici[1] leggesi, a guisa di proemio; una penetrante critica di quell’art. 13 della legge 15 gennaio 1885 n. 2892, notissima sotto il nome di legge per Napoli, che è il protoparente di tutte le innumerevoli disposizioni particolari emanate in Italia dopo quell’anno ed intese a sostituire alla norma generale del «giusto prezzo», voluto dall’art. 39 della legge fondamentale del 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità, altri criteri, più favorevoli all’espropriante e possibilmente oggettivi.
È noto invero come da un lato le esigenze della giustizia vorrebbero che il prezzo pagato dallo Stato e dalle altre amministrazioni pubbliche per i beni espropriati per causa di pubblica utilità corrispondesse al prezzo venale in comune commercio, astrazione fatta dalla sopravalutazione conseguente all’annuncio della disposta espropriazione ad opera pubblica; mentre dall’altro lato lo Stato ha ragione di preoccuparsi del pericolo che i periti esagerino il concetto del «giusto prezzo» sino ad attribuire agli espropriati una indennità superiore al prezzo che effettivamente il bene espropriato avrebbe avuto in un contratto di compra vendita.
Trovare una soluzione a questo problema non è facile; poiché il prezzo «venale» è una quantità variabile in ragione di tanti fattori, che è quasi impossibile di potere fermare in un testo di legge. Ma sembra che, di tutte le soluzioni possibili, quella fornita dalla legge di Napoli sia la meno efficace, come ampiamente dimostra il rapporto ufficiale del Ministero dei Lavori Pubblici.
Dice invero l’art. 13 della legge che l’indennità dovuta ai proprietari degli immobili espropriati sarà determinata sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dell’ultimo decennio, purché essi abbiano la data certa corrispondente al rispettivo anno di locazione. In difetto di tali fitti l’indennità sarà fissata sull’imponibile netto agli effetti delle imposte sui terreni e sui fabbricati.
Incertezze ed incongruenze gravissime si rivelarono subito, appena la legge dovette essere applicata. L’indennità doveva essere stabilita nella media di due termini, uno dei quali era il valore venale e l’altro i fitti coacervati dell’ultimo decennio. Il legislatore, evidentemente, aveva creduto che l’indennità sarebbe stata più giusta se stabilita ad un punto intermedio tra il «prezzo venale» stabilito con perizia ed i fitti coacervati dell’ultimo decennio, determinati sulla base di contratti aventi data certa o dell’imponibile netto agli effetti delle imposte sui terreni e sui fabbricati. Opinione la quale, anche se fosse stata esatta, dava luogo all’incongruenza che l’indennità poteva, per volere stesso della legge, risultare maggiore o minore del «valore venale» o «giusto prezzo» che volevasi tuttora accertare. Può invero concepirsi che il legislatore voglia stabilire l’indennità in misura diversa dal giusto prezzo o valore venale; ma non si comprende come si fissi il valore venale, ad es., 1.000.000 lire, e poi apertamente si ricorra ad un altro criterio per far scendere l’indennità al di sotto del prezzo che si considera «venale», per es., ad 80.000 lire.
È questa la confessione aperta e chiarissima che lo Stato vuole attribuire a sé ed agli enti pubblici il diritto di espropriare al disotto del prezzo giusto, ossia arrecare ingiusto danno ad altri ed indebita locupletazione a sé stesso. Astrazion fatta dalla quale osservazione di indole generale, ad altre obbiezioni presta il fianco la legge di Napoli, che tutte si leggono minutamente esposte nel pregevolissimo rapporto ufficiale del Ministero dei lavori pubblici.
Quale invero può essere il significata del secondo termine della media.: «fitti coacervati dell’ultimo decennio» vorrà significare la pura somma aritmetica dei fitti lordi di un decennio, ovvero la capitalizzazione del medio reddito netto, calcolato nello stesso modo una casa, ad es., ha dato un fitto lordo di 10.000 lire all’anno, ossia di 100.000 lire nel decennio. Il secondo termine nella media sarà dato da questa somma aritmetica di 100.000 lire, ovvero dalla capitalizzazione del reddito medio netto di 7.000 lire (10.000 lire reddito medio netto lordo del decennio meno 3.000 lire di spesa media)? In questo caso il capitale corrispondente a 7.000 lire al 4 % sarebbe di 175.000 lire, ed al 5 % di 140.000 lire, in ambi i casi superiori al «coacervo» o somma aritmetica dei fitti lordi per un decennio. E perché scegliere il 5 % e non invece il 4 % od altro tasso determinato dal perito, in base all’esame di tutte le circostanze particolari del caso?
Il criterio stesso degli affitti è privo di qualsiasi valore, essendochè i fitti per eludere il fisco sono mantenuti nei contratti e nelle denuncie ad un livello inferiore alla realtà. «Cosa deplorabile, certo, riflette il relatore del Ministero dei lavori pubblici, e che può legittimare la ricerca di rimedi e sanzioni. Ma non si vorrà considerare come sanzione e rimedio l’assumere questo falso asserto a misura dell’indennità e riparare l’ingiustizia con un’altra ingiustizia. Di più, il valore locativo delle case varia da luogo a luogo e di momento in momento, in ragione di molteplici cause, che possono coincidere, ma possono anche non coincidere con gli elementi d’intrinseco valore dell’immobile; onde mancano al coefficiente degli affitti, oltre al requisito della sincerità, anche quei caratteri di uniformità e costanza che, in una legge di tal natura, dovrebbero per primi ricercarsi».
Che dire del criterio dell’imponibile sostituito a quello degli affitti, nel caso che questi non risultassero da contratti aventi data certa? Il criterio sarebbe stato corretto, quando il reddito imponibile delle case e dei terreni, che è opera dello Stato, fosse, a cura dello Stato, riveduto e tenuto al corrente in guisa che i redditi imponibili di poco si discostassero in ogni tempo dai redditi effettivi. Ora – e lasciamo anche qui la parola al relatore del ministero dei lavori pubblici – «nell’85, quando la legge fu emanata, il catasto dei fabbricati, per essere stato recentemente riveduto, poteva ritenersi fonte attendibile di una indagine sul valore, sebbene anch’esso con quella larga approssimazione che i dati fiscali, per ovvie ragioni, meritano. Ma per il catasto dei beni rustici, antico e imperfettissimo, in contrasto, quindi, per più versi con la realtà, una sola certezza poteva aversi mettendolo a base del computo: di produrre sperequazioni ed ingiustizie».
Oggi, che dall’ultima revisione del catasto dei fabbricati è passato un quarto di secolo, anche i redditi imponibili del catasto dei fabbricati possono essere inferiori assai alla verità, non per colpa dei contribuenti, a cui nessuna legge fa obbligo di denunciare i redditi cresciuti, dallo Stato, che non volle mai procedere ad una revisione generale. Onde una casa che oggi rende nette 10.000 lire, nel 1889 era stata stimata per un reddito netto di 7.000 lire; e della propria negligenza lo Stato profitta espropriando la casa al prezzo di 140.000 lire, invece che di 200.000 lire, quant’è il valore capitale corrispondente al valore attuale. Peggio per i terreni; il cui reddito imponibile stimato ne] 1850, nel 1820, persino nel 1750, nel 1700, e anche nel 1600 può essere di gran lunga inferiore al reddito attuale; senza che i proprietari mai abbiano potuto, se anche lo avessero voluto, far variare il reddito imponibile. Un fondo che oggi rende 1.000 lire all’anno e, per la negligenza dello Stato, è stimato ancora secondo un reddito di 50 lire; appartenente all’antichità più remota, può essere dunque valutato sulla base de] reddito di 50 lire invece che di 1.000! Al 5 % lo Stato paga 1.000 lire di valor capitale, invece che 20.000 lire, traendo vantaggio nuovamente dalla propria negligenza!
Queste assennate critiche, che si leggono in un rapporto ufficiale del ministero più competente in materia di espropriazione per pubblica utilità, sembra siano state ignorate dai proponenti un disegno di legge che porta il titolo «provvedimenti pel riordinamento degli stabilimenti salifero – balneari di Salsomaggiore», presentato, col n. 1341, dal ministro delle finanze alla Camera nella tornata dell’8 aprile scorso. Trattasi di quel progetto di espropriare, a favore del demanio, due enti distinti, l’uno dei quali è lo stabilimento salifero – balneario di Salsomaggiore, del quale si parlerà poi, e l’altro è dato da certi terreni di privata pertinenza e situati nel medesimo comune, terreni che si considerano necessari al fine pubblico del maggiore impulso da dazi alle medesime terme. Qui si discorre della cosa, non per interloquire nell’argomento specifico della convenienza od utilità della assunzione diretta del pubblico servizio delle terme o della sua concessione ad altro esercente. Dalla questione di fatto possiamo fare astrazione, importando solo di esaminare se siano corretti i criteri di espropriazione accolti nel disegno di legge.
La risposta sembra dover essere senz’altro negativa per le zone di terreno da espropriarsi in genere perché necessarie all’ampliamento ed alla sistemazione degli stabilimenti balneari; ed è negativa perché l’indennità viene calcolata sulla base della solita legge di Napoli, la cui scorrettezza è universalmente riconosciuta ed ufficialmente armata nella profonda indagine sovra citata, compiuta a cura del ministero dei lavori pubblici.
Ma, non contento il governo di voler applicare alle zone espropriande in genere di Salsomaggiore i criteri scorretti della legge di Napoli, nell’intento di pagare una indennità inferiore al valore venale, ossia non contento di espropriare pagando i terreni ad un prezzo minore del corrente, per talune aree specialmente indicate si vogliono stabilire norme particolari ancora più favorevoli all’espropriante. Poiché, ricordiamolo, il prezzo di espropriazione secondo la legge di Napoli, risulta dalla media tra il valor venale ed il valore risultante dal coacervo dei fitti o dalla capitalizzazione degli imponibili catastali. Nel caso specifico i terreni di ragione privata, che il demanio vorrebbe espropriare, sono aree fabbricabili situate nel centro del comune di Salsomaggiore, che non sono affittate, ed il cui imponibile è calcolato secondo un vecchio catasto di Maria Luigia del 1831.
Pare che il reddito imponibile del terreno espropriando sia di L. 64,86, a quanto risulta da una petizione che la ditta espropriata ha presentato al Parlamento; tal ché uno dei due termini della media non potrà discostarsi molto da 1.700 lire; cifra che dimostra l’assurdità della legge per Napoli, dato che il governo, in virtù di essa, acquista il diritto di far valutare il terreno che desidera ad un punto intermedio tra il prezzo venale corrente che probabilmente è di parecchie centinaia di migliaia di lire, ed un prezzo fantasticamente cervellotico di 1.700 lire. Dico che la legge per Napoli è assurda, poiché non esiste alcun motivo per pagare un terreno, il cui valore venale è di 100 mila lire, a cagion di esempio, ad un prezzo uguale alla media tra 100.000 e 1.700, ossia a 50.850 lire.
Una legge la quale consente allo Stato di portar via ad un privato un bene che vale 100.000 lire pagandolo solo 50.850 lire non è più legge di espropriazione per pubblica utilità, ma è legge di confisca. Sembra che ai compilatori della proposta che esaminiamo, la confisca non sia sembrata abbastanza radicale, perché uno almeno dei due termini, dalla cui media si deduce la indennità, è il «valore venale». Onde essi, ad impedire che il «valore venale» giunga a prezzi «proibitivi»[2], stabilirono che il valore venale dovesse calcolarsi al prezzo più elevato dei contratti di compra – vendita di terreni urbani in Salsomaggiore – esclusi però gli appezzamenti di estensione non superiore a 500 metri quadrati – registrati presso l’ufficio del registro di Borgo S. Donnino nel triennio 1910 – 1912.
Ogni ragione privata sembra formalmente osservata; ma i privati espropriandi nella loro petizione al Parlamento si lagnano che solo in apparenza si sia reso ossequio alla giustizia:
1) essendosi scelto il triennio 1910 – 912 in cui il prezzo più elevato pare sia stato di 15 lire al metro quadrato, ad esclusione del 1908 in cui si ebbero vendite a 32 lire il mq.;
2) 2) ed essendosi escluse le aree di superficie di 500 mq., ossia precisamente i lotti fabbricabili, a cui soltanto può essere assimilata l’area esproprianda, lotti per cui si ebbero prezzi di 100 ed anche 250 lire al mq.
I quali fatti paiono certi; e qui si addussero solo a dimostrare una verità generale: che, quando un fondo di proprietà privata piaccia allo Stato, questo con legge apposita può stabilire altresì il prezzo di espropriazione, che a lui sia più gradito, cominciando a fare appello ad una legge di Napoli, redatta, come riconobbe il ministero dei lavori pubblici, in maniera scorrettissima da persone che non comprendevano il significato della norma voluta ed adducevano fatti inesistenti a dimostrarne il fondamento (vedi nota 10 a pag. 18 della relazione citata); e riducendo così il prezzo d’indennità da 100.000 valore venale a 100.000+1.700 ossia a 55.850. Non contento di questo, il governo vieta che i periti possano valutare a 100.000 lire il prezzo corrente venale del fondo da lui assorbito; e, dopo accurata ricerca negli uffici del registro dice che il valore venale deve essere corrispondente per mq., al valore più elevato di certe vendite, da lui scelte in un determinato periodo di tempo, con esclusione degli anni e degli appezzamenti, per cui risultasse nei medesimi uffici del registro un prezzo più alto. Cosicché il valore venale viene a ridursi, a cagion d’esempio, a 50.000 lire; e l’indennità diventa uguale a 50.000+1.700 .In poche parole la legge per Salsomaggiore stabilisce il principio che lo Stato, quando abbia desiderio di espropriare il fondo di un privato, possa con una legge speciale fissare, volta per volta, i criteri di espropriazione in guisa da pagare non il prezzo venale dal fondo, ma quella minor somma che piaccia al governo di pagare. Lo stesso nuovissimo principio varrà in avvenire, oltreché per l’espropriazione dei beni immobili, anche per l’espropriazione delle aziende industriali che Stato e Municipii desiderino statizzare o municipalizzare.
Vuole invero la legge sulle municipalizzazioni del 29 marzo 1903 che i comuni debbano, in caso di riscatto, ai concessionari di pubbliche imprese corrispondere una indennità corrispondente ai seguenti due elementi:
1) costo dall’impianto e del relativo materiale mobile ed immobile, tenuto conto dei deperimenti ed ammortamenti, ecc.;
2) capitalizzazione, al tasso di interesse legale, delle annualità di profitto che i] concessionario viene a perdere dal momento del riscatto fino al termine della concessione, purché il numero delle annualità non sia superiore a venti. Tale valore dei profitti si calcola sulla media dai redditi netti denunciati ai fini dell’imposta di R. M. per l’ultimo quinquennio a dalla media risultante si deduce l’interesse legale del costo dall’impianto, che si paga a parte. Facendo un esempio numerico schematico, sia una azienda il valore del cui impianto al momento dal riscatto, tenuto conto dai deperimenti e degli ammortamenti già fatti, sia di 1 milione di lire, ed il cui reddito netto negli ultimi 5 anni, denunciato agli effetti dell’imposta di R. M. sia stato di 120, 120, 190, 190) e 190 mila lire all’anno. Sia la concessione duratura ancora per 12 anni. L’indennità del riscatto si calcola nel seguente modo:
a) Valore dell’impianto, tenuto conto solo del valore integrale dagli impianti che alla fine della concessione debbono essere indennizzati al concessionario, e per gli altri, calcolando la quota che può essere ammortizzata nel dodicennio residuo di concessione L. 1.000.000
b) Profitto netto degli ultimi 5 anni, dedotto l’anno di minore e l’anno di maggior profitto 120.000 + 190.000 + 190.000 = 166.666 lire.
Deducendo dalle 166.666 lire l’interesse legale commerciale al 5 % del capitale d’impianto già indennizzato sotto a, ossia 50.000 lire si ha un profitto di L. 166.666 all’anno, sperabile per 12 anni. Ora 166.666 lire all’anno, sperabili per 12 anni, corrispondono all’interesse legale commerciale del 5 % a circa L. 1.033.000 Totale indennità 2.033.000
Si comprende il criterio da cui è partito il legislatore nel fissare le regole sovra descritte per la determinazione del riscatto d’indennità. Innanzi tutto il concessionario ha speso 1 milione di lire nell’impianto ed è corretto che la somma gli sia restituita, anche se per caso l’impresa non fosse redditizia.
Perché, se oggi non è tale, potrebbe diventarlo domani; e il concessionario potrebbe avere seminato per gli anni avvenire. Inoltre, se l’impianto rende più dell’interesse commerciale, per esempio, come nel caso nostro, 166.666 lire in media, ossia 116.166 lire di più dell’interesse commerciale di 50.000 lire sul milione di lire, che gli viene corrisposto a titolo di rimborso delle spese d’impianto, il concessionario ha un diritto acquisito di avere quel profitto di 116.666 lire all’anno per 12 anni; né di tal diritto può essere privato, senza incorrere nella taccia di confisca. Di solito lo si priva della speranza di avere un profitto maggiore delle 116.666 lire; perché il comune riscatterà solo quando i profitti siano cresciuti; ma, in ogni modo, se si può passare sopra alle speranze, non così si può passare oltre alle realtà già acquisite.
Per calcolare il profitto sperabile, si è tenuto conto degli ultimi cinque anni, esclusi l’anno di maggiore e l’anno di minor profitto. Tutto ciò potrà dar luogo a dubbi minori; ma nel complesso sembra un metodo sufficientemente corretto di fissazione delle indennità di riscatto. L’esempio di Salsomaggiore apre nuovi orizzonti agli amministratori della cosa pubblica. Volta per volta, quando essi vedranno che una impresa pubblica è bene amministrata ed ha avuto prospere le sorti, potranno far presentare un disegno di legge, in cui l’indennità di riscatto sia fissata in maniera che il municipio debba pagare la minor somma possibile, assai meno di quanto l’impresa valga.
Riduco il caso di Salsomaggiore ad un esempio schematico, per non insistere nel caso particolare. Innanzitutto non si parla più del valore dell’impianto. Nessuna indennità viene più data per questo capo, nemmeno per gli impianti fatti su terreno proprio dal concessionario o per quelli per cui il concessionario aveva diritto, secondo il contratto di appalto, ad una indennità. Lo Stato espropriante ha riflettuto che era troppo complesso fare il conto dei costi, dei deperimenti, ecc. ecc. e vi ha tirato sopra un rigo, forse perché avrebbe dovuto pagare una somma, che ad esso dispiaceva sborsare. Certo, così operando, lo Stato veniva a precludersi la possibilità di dedurre dal profitto medio netto, che è il secondo termine del calcolo secondo la legge sulle municipalizzazioni, l’interesse al 5 % del capitale d’impianto, ma evidentemente il tornaconto per l’espropriante dovette essere notevole, se si pensa che, per certe parti dell’impianto, il prezzo di riscatto avrebbe dovuto essere calcolato come se il reddito dovesse essere perpetuo, trattandosi di cose di assoluta pertinenza del concessionario; mentre il profitto del secondo termine si calcola solo per 12 anni. Ma nemmeno il modo tenuto dalla legge sulle municipalizzazioni per il calcolo dell’indennità per mancato profitto pare riuscisse gradevole allo Stato espropriante: poiché il profitto delle terme di Salsomaggiore negli ultimi anni era notevolmente cresciuto. Ed allora, con apposita proposta, si stabilisce che l’indennità debba essere basata sugli ultimi 10 anzichè sugli ultimi 5 anni, senza esclusione degli anni di minimo e di massimo profitto.
E poiché i profitti furono i seguenti:
1903 | L. 65.000 |
1904 | ” 105.000 |
1905 | ” 105.000 |
1906 | ” 120.000 |
1907 | ” 120.000 |
1908 | ” 120.000 |
1909 | ” 120.000 |
1910 | ” 190.000 |
1911 | ” 190.000 |
1912 | ” 190.000 |
con l’inclusione dei primi 5 anni si venne ad abbassare notevolmente la media, che risulta di L. 132.500 anziché di L. 166.666; laonde valore attuale corrispondente per 12 annualità risulta appena di L. 1.245.00O. E sembra che 1.245.000 lire siano una cifra notevolmente minore delle L. 2.033.000, da noi calcolata o dell’altra di L. 1.475.000 che risulterebbe se, calcolando a zero gli impianti, si indennizzasse il concessionario per la perdita delle 166.666 lire di profitto medio calcolato secondo la legge generale sulle municipalizzazioni, anziché per le 132.500 calcolate sulla base della scelta dei 10 anni artificiosamente preferiti dall’espropriante allo scopo di tener basso il prezzo di espropriazione.
Risulta così pacifico il nuovo principio che il legislatore possa, quando allo Stato od a un municipio sembri di dover pagar troppo, a titolo di indennizzo per mancati profitti, in base alla legge generale, votare una legge speciale, la quale fissi quei criteri che appaiano più convenienti all’uopo, allungando o riducendo il numero degli anni da prendersi in considerazione, in modo da diminuire opportunamente per l’espropriante, la media dei profitti su cui si deve istituire il calcolo. Un commento a questi fatti sembra inutile. Poiché i fatti parlano da sé e dimostrano:
1) che le norme relative alla espropriazione per pubblica utilità devono essere riformate, perché la legge fondamentale del 1865 sembra pericolosa in quanto lascia troppo ampia latitudine ai periti nel determinare il giusto prezzo d’esproprio;
2) che deve mettersi riparo allo sconcio della legge per Napoli, la quale non ha significato preciso e spesso è di assurda ed impossibile applicazione;
3) che deve seriamente meditarsi sulle conseguenze a cui potrà condurre la tendenza odierna del legislatore di fissare in leggi speciali foggiate ad personam i criteri di indennità per espropriazione o riscatto di imprese pubbliche.
Altri potrà affermare che la tendenza è moderna e ardita. A me sembra che, quando si voglia parlare con semplicità di linguaggio, facendo astrazione dalle teorie sedicenti moderne con cui i giuristi dell’imperatore, usano oggi, in ossequio alla democrazia sovrana, giustificare ogni specie di confisca, siffatta tendenza voglia dire:
1) non è riconosciuta in Italia la proprietà privata; od almeno è riconosciuta solo finché non piaccia allo Stato di espropriarla al prezzo fissato, con apposita legge, ad arbitrio dello Stato espropriante;
2) lo Stato non è più temuto a prestare fede ai contratti da esso liberamente conchiusi coi privati; ma è sempre libero, in sfregio ai contratti di appalto ed alle leggi generali votate dal legislatore, di riscattare le pubbliche intraprese concesse ai privati con quella indennità che piaccia allo Stato unilateralmente fissare con legge apposita.
Le quali deduzioni logiche ed incontrovertibili del disegno di legge per le terme di Salsomaggiore potranno piacere ai collettivisti e dispiacere ai conservatori. A me, non volendo ragionare altrimenti che colla logica economica, la quale non è né collettivista né conservatrice, sembra che, quando le deduzioni logiche delle nuove tendenze legislative in tema di espropriazione e di riscatti diventino note all’universale dei capitalisti e dei risparmiatori non potranno non partorire alcuni micidialissimi effetti. Di cui il primo è il rialzo del tasso dell’interesse, ognuno dovendo calcolare, quando investe i propri risparmi nell’acquisto di alcun bene immobile, la necessità di coprirsi contro il rischio di una espropriazione senza indennità o con indennità minore di quella che sarebbe dovuta. Ed il secondo effetto è il rialzo dei prezzi d’appalto, dei sussidi o garanzie erariali od il ribasso dei canoni dovuti allo Stato od ai comuni in ogni concessione di impresa pubblica; ogni concessionario dovendo calcolare il rischio di essere riscattato ad un prezzo artificiosamente scelto con legge speciale e minore di quello che al concessionario spetterebbe secondo le leggi generali.
I quali due effetti non è chi non veda quanto siano perniciosi alla economia nazionale ed all’erario pubblico. Perché questi due effetti non avessero a manifestarsi sarebbe d’uopo che le singole espropriazioni senza indennità o con indennità inferiore a quella dovuta rimanessero ignote ai capitalisti ed ai risparmiatori. Il che essendo impossibile, per la libertà consentita alla critica dall’editto sulla stampa, ed essendo vietato dalla pubblicità statutaria dei dibattiti parlamentari, ognun vede non esservi mezzo veruno di impedire il danno gravissimo all’economia nazionale ed al pubblico erario.
[1] Il lavoro è dichiarato, nella lettera di presentazione dal direttore generale al Ministro, opera precipua dell’avv. Luigi Pintor.
[2] In linguaggio economico la parola «prezzi proibitivi» non ha senso. Certo per il compratore è meglio pagare solo 10 un terreno che val 100 lire al metro quadrato. Ciò è comodo al compratore; ma non significa che il prezzo 100 lire sia proibitivo. Poiché il prezzo 100 lire o esiste od è immaginarlo. Se è immaginario, nessuno acquisterà il terreno a quel prezzo; meno di tutti lo deve acquistare lo Stato e sono ragionevolissime le cautele per evitare siffatto danno. Se è reale, è segno che è conveniente al compratore pagarlo, perché egli spera di ricavare dalla sua utilizzazione, ad es., a scopo di bagni termali, almeno l’interesse corrente. Di fatto, è spessissime volte più conveniente comprare un’area a 100 o a 1000 lire al mq., che a 10 od 1 lira. I prezzi che con la logica politica si chiamano «proibitivi» con la logica economica sono frequentemente i più convenienti. Laonde la proposte di espropriare per 10 lire ciò che in comune commercio ha il prezzo cosidetto «proibitivo» di 100 lire è una proposta di confisca.