Opera Omnia Luigi Einaudi

L’educazione politica del conte di Cavour

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1912

L’educazione politica del conte di Cavour

«La Riforma Sociale», maggio 1912, pp. 397-402[1]

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 253-264

 

 

 

Francesco Ruffini ha scritto un libro, che egli ama chiamare d’occasione, intitolato la Giovinezza del Conte di Cavour. (Francesco Ruffini, prof. nella R. Università di Torino, La Giovinezza del Conte di Cavour. Saggi storici, secondo lettere e documenti inediti. Due volumi di pag. XLVIII/376 e 422, con ritratto del Conte di Cavour nella giovinezza. Torino, Fratelli Bocca, 1912).

 

 

Affrettiamoci a dire che ben di rado una raccolta di saggi e di documenti inediti è riuscita viva, mossa, affascinante come questa e che molti saranno gli italiani i quali vorranno, riponendo i due volumi, ringraziare la fortuna che ha dato occasione ad un giurista di trasformarsi in biografo della più compiuta e ricca figura politica del Risorgimento.

 

 

Francesco Ruffini ha l’aria di scusarsi di aver messo mano, lui giurista e storico del diritto ecclesiastico e dell’idea della libertà religiosa, ad un’opera che sarebbe spettata, per ragion di competenza, agli storici di mestiere ed ai raffinati nella critica degli accadimenti politici. E quasi vuole attribuire alla fortuna soltanto il merito di avergli fatto scoprire carteggi importantissimi, rivelatori, intorno alla giovinezza del Conte. Dicasi ancora subito che la fortuna assiste coloro che se la sanno procacciare. Francesco Ruffini ha scoperto molte lettere preziose di Camillo Cavour ai parenti e dei parenti a lui perseguendo un filone logico. La fortuna, che ha aiutato lui, forse non avrebbe aiutato un altro il quale non avesse posseduto la chiave logica per aprire il forziere racchiudente l’ignorato tesoro.

 

 

La chiave logica fu l’idea della libertà religiosa, di cui Ruffini è universalmente riconosciuto il più insigne storico vivente (Francesco Ruffini, La libertà religiosa. Vol. 1: Storia dell’idea. Torino, Fratelli Bocca, 1901, della quale opera sta per uscire la traduzione inglese), fu la curiosità scientifica prepotente d’indagare come si fosse formata nella mente del Cavour la celebre formula: «Libera Chiesa in libero Stato». Gli sparsi accenni che si leggono nel diario del Conte lo portarono a Ginevra, città religiosa, anzi città di lotte religiose ferventi, iraconde, dove i principi della libertà religiosa da un lato e dello Stato credente, rigidamente confessionalista, dall’altro, si tramandavano, custoditi con gelosia e purezza, nelle famiglie discendenti dagli italiani rifugiati in Svizzera all’epoca della controriforma e nelle famiglie calviniste pure. Lo storico dell’idea della libertà religiosa, perseguendo lo studio delle origini della formula cavouriana s’incontrò così con le famiglie ginevrine strettamente imparentate col Conte di Cavour: nei De Sellon, nei De la Rive. Fu allora che quella che egli chiama fortuna e che è invece intuito geniale di scienziato lo assisté: principalmente mettendo a sua disposizione un grosso manipolo di lettere possedute dal barone Leopoldo Maurice, discendente, per via di donna, dalla famiglia De Sellon. Da questa prima nacquero altre fortune, che gli fecero rinvenire nell’archivio famigliare di Santena, nelle carte di Stato di Vienna documenti importantissimi, coi quali e colle lettere egli compose due volumi. I quali sono epistolario e biografia insieme; documento storico riprodotto con cura scrupolosa e narrazione biografica, commento delle idee cavouriane, ricostruzione dell’ambiente famigliare e storico, illustrazione degli avvenimenti e dei movimenti politici e spirituali, in mezzo a cui visse Cavour negli anni che volsero dal 1826 al 1844, dai 16 ai 34 anni di sua età. È il Conte stesso che ci parla, colla sua parola fresca e vibrante, col suo stile nervoso, per nulla simigliante allo stile letterario, accademico, compassato degli epistolari anche più celebri degli italiani suoi contemporanei, e ci narra i suoi affetti, le sue passioni, gli avvenimenti a cui ha assistito da spettatore entusiasta, voglioso di mescolarsi colla gente, di discutere e di abbaruffarsi con gli altri uomini. Sono gli anni della preparazione, in cui egli ha temprato la sua natura di uomo politico combattente, di studioso dei problemi sociali, di finanziere rotto alle imprese agricole ed industriali, tetragono alle disillusioni speculative. Sono gli anni in cui si formava, con pazienza meravigliosa negli studi, nei viaggi e nelle esperienze pratiche, quell’uomo che doveva far stupire, per la rapidità della carriera, i contemporanei e far sentenziare gravemente e leggermente allo Sclopis che egli era divenuto ministro «senza aver preso cognizione pratica degli uomini e delle cose».

 

 

Il libro del Ruffini dimostra stupendamente come i contemporanei a torto si stupissero e si scandalizzassero per la subita apparizione del grande uomo di Stato: Camillo di Cavour era un genio politico a 20 anni come a 40, ed avrebbe potuto governare il suo paese nel 1830 così come lo governò dopo il 1850. Ma gli anni della giovinezza non furono da lui spesi indarno. Certamente egli non li spese soltanto vegliando sui libri. Egli amò con ardore parecchie donne, dall’animosa ed appassionata e colta incognita genovese, identificata ora dal Ruffini nella marchesa Anna Giustiniani, nata Schiaffino, alla misteriosa gentildonna francese, la quale amava chiamare il giovane dai brillanti occhi cerulei, dai biondi capelli, dal riso squillante, fresco ed appassionato e lusingatore nel volto, così come ce lo raffigura il ritratto onde è adorno il volume del Ruffini e così diverso nell’aspetto da quello che ci apparve dappoi: «L’italien au teint rose et au sourire d’enfant».

 

 

Ma le donne e il gioco e le cure mondane non gli fecero mai perdere di vista l’ideale meta che egli, pur negli anni più foschi, pur nell’esilio dalla vita pubblica al quale l’animosità del Principe e la saldezza nei principii liberali l’avevano condannato, voleva raggiungere. Uomo di Stato in un governo rappresentativo egli voleva essere fin dagli anni più giovanili; primo ministro responsabile davanti al Parlamento. Deriso dagli invidiosi, amorevolmente ammonito dai suoi, parve allora superbo; mentre la sua era superbia radicata nell’animo di chi sentiva di possedere le qualità innate che fanno l’uomo politico e sapeva d’averle fortificate e raffinate con una educazione politica, quale nessun uomo in Piemonte e pochissimi in Europa avevano saputo procacciarsi.

 

 

Se l’era procacciata viaggiando in Francia ed in Inghilterra, facendo lunghe dimore in Svizzera presso suoi parenti, attendendo in patria alle cure agricole dei grossi possessi terrieri della sua famiglia. Se io volessi riassumere in una parola l’impressione più forte avuta leggendo questi due volumi, direi che da essi balza fuori, circondata di luce vivissima, una figura nuova di Camillo di Cavour: il cadetto. Discendente di una antica e grande famiglia piemontese, imparentato con la famiglia savoiarda dei De Sales, che aveva dato alla Chiesa S. Francesco, con le famiglie ginevrine dei conti de Sellon, protestanti cacciati di Francia dall’editto di Nantes, dei De La Rive e coi Maurice, che avevano tradizioni universitarie nella calvinistica accademia di Ginevra, nipote di un duca francese, che portava il gran nome dei Clermont Tonnerre abituato a vivere in ville settecentesche come a Santena, in castelli feudali, come a Grinzane, o in latifondi che come Leri portavano intatta fin dentro il secolo decimonono l’impronta medievale della corte feudale, della massa conventuale, Camillo di Cavour era tutt’altro che un déraciné. Anzi egli si sentiva profondamente radicato alla terra che l’aveva visto nascere, tanto che, mentre lo sconforto lo assaliva e gli veniva alle labbra l’amaro rimpianto di non essere nato inglese, subito soggiungeva: «mais je suis piémontais … Malheur à celui qui abandonne avec mépris la terre qui l’a vu naître, qui renie ses frères comme indignes de lui! Quant à moi, j’y suis décidé, jamais je ne séparerai mon sort de celui des Piémontais. Heureuse or malheureuse, ma patrie aura toute ma vie, je ne lui serai jamais infidèle; quand même je serais sûr de trouver ailleurs de brillants destinées».

 

 

Pur essendo profondamente radicato al suolo, alla famiglia e all’aristocrazia militare e governante, di cui faceva parte per ragion di nascita, egli era un cadetto. In Piemonte i cadetti di famiglie nobili si facevano soldati e preti. Egli non volle essere né l’una cosa né l’altra. L’amore del paese, la coscienza dei servizi che era chiamato a rendere alla patria, la piccolezza dello Stato piemontese, privo di possessi coloniali, gli impedirono da andare a cercar fortuna, come talvolta facevano e fanno i cadetti inglesi, nelle colonie d’oltremare. Volle però, come i cadetti d’Inghilterra, conquistare l’indipendenza economica. «Je suis cadet» scrive al congiunto professore De La Rive, «ce qui veut dire beaucoup dans un pays aristocratiquement constitué; il faut que je me crée un sort à la sueur de mon front. Il vous fait bon à vous autre richards, qui avez des millions à foison, de vous occuper de sciences et de théories: nous autres pauvres diables de cadets, il nous faut suer sang et eau avant d’avoir acquis un peu d’indépendance». L’indipendenza! ecco il sogno del Conte degli anni di sua giovinezza. Egli la sognava, non per mania di lucro; ma perché l’indipendenza economica gli doveva parere come la condizione necessaria per dedicarsi intieramente alla cosa pubblica; ma perché riteneva che la classe politica non potesse realmente riuscire utile alla patria, ove non fosse composta di persone indipendenti nel giudizio non costrette ad adulare il popolo per accattarne stipendi e favori.

 

 

È una concezione aristocratica della vita politica; e suppone, naturalmente, che la classe politica non sia composta di ricchi aspiranti a crescere la propria ricchezza impadronendosi del meccanismo governativo. L’indipendenza cui anelava Cavour era quella di una aristocrazia che vive dei redditi aviti ed accumulati nell’età giovane, che non cerca di accrescerli colla propria influenza politica, e se ne giova per il bene pubblico. Al cugino De la Rive, che egli riteneva «un des cerveaux les mieux organisés de l’Europe», Camillo di Cavour scriveva incitandolo a diventare il conduttore supremo della politica ginevrina e così diceva i motivi dei suoi incitamenti: «Plus que tout autre à Genève vous êtes par votre position indépendante et par les titres nombreux que vous avez acquis à l’estime et à la reconnaissance de vos concitoyens, en mesure de combattre avec avantage cette minorité factieuse qui n’a pour elle que de l’impudence et de l’audace; qui n’est forte que de la timidité et de la couardise de ses adversaires. Vos paroles ont un grand poids dans le Conseil et dans le public, et pour peu que vous vouliez vous en donner la peine, vous deviendrez le leader du parti sage et raisonnable, qui veut le bien possible et toutes les réformes salutaires». Scritte a 25 anni, queste parole dipingono quale fosse il concetto che del leader politico si faceva il Conte di Cavour: indipendente di censo, capo di notabili e notabile egli stesso per intelligenza, studi e, se possibile, per tradizioni famigliari, il leader doveva mettersi a capo di tutte le riforme ragionevoli, ossia realmente utili al popolo.

 

 

Egli è assai scarso estimatore della piccola borghesia come forza politica. Parlando della rivoluzione che nel 1841, per l’impulso della associazione del tre marzo, abolì a Ginevra la costituzione aristocratica del 1844, accenna, al «petit noyau d’hommes à ambition déçue, et à amour propre blessé» che insieme a «tout ce que le canton contient de mécontents et de mauvaises têtes» formava il nocciolo del partito vincitore; ma dimostrava che la rivoluzione non avrebbe potuto riuscire pel malcontento dei politicanti, irritati dalla lunga aspettazione, se non si fossero aggiunti altri fattori d’indole sociale:

 

 

«Le gouvernement, qui vient d’être renversé, quoique démocratique de droit, était olygarchique de fait, puisque le pouvoir se perpétuait entre les mains d’une certaine caste, ou pour mieux dire d’une certaine société. Le résultat de l’ancien ordre de choses irritait tout ce qui appartenait aux couches sociales inférieures. C’est l’ancienne querelle du bas contre le haut, de la petite bourgeoisie contre l’aristocratie. La trois mars devenant puissant attira à lui toute cette masse bourgeoise, à esprit étroit, à passions mesquines, qui jalouse la classe supérieure, tout en déployant vis-à-vis de l’inférieure cent fois plus d’exclusivisme, que l’aristocratie à son égard. Il paraît que la masse des boutiques se rallia plus ou moins ouvertement au trois mars, moins pour obtenir un changement politique que pour taquiner les dames et les élégants du haut».

 

 

Qui c’è tutto il concetto mediocre che il discendente di grande famiglia si faceva della piccola borghesia bottegaia e avvocatesca, insieme alla consapevolezza dei doveri – troppo spesso dimenticati – dei leaders verso il popolo. Egli, che riconosce e proclama la decadenza irrimediabile delle vecchie aristocrazie, condannate dai loro errori ad «hâter elles-mêmes l’oeuvre de destruction» della loro classe, non è avaro di sarcasmi verso la nuova classe politica fatta di avvocati, professionisti, energumeni da comizio:

 

 

«Je commence par y compter (nell’assemblea costituente ginevrina del 1842) une trentaine de trois mars (membri dell’associazione la quale aveva rovesciato il vecchio governo aristocratico), parmi lesquels il y a dix énergumènes, et vingt niais qui de temps s’arrêtent et regardent avec effroi le but où leurs collègues veulent les entraîner. Viennent ensuite vingt ou trente trembleurs, conservateurs au fond du coeur, radicaux par peur, n’ayant ni couleur ni opinion tranchée, principale cause de la difficulté du moment. Enfin il faut ranger les conservateurs, à la tête desquels se place le banc des professeurs. C’est la partie la plus distinguée de l’assemblée. Elle compte dans ses rangs les hommes les plus éminents de la république, qui étaient progressifs lorsque les retardataires dominaient, et qui sont maintenant conservateurs que l’ordre est menacé. Les catholiques complètent l’assemblée».

 

 

Egli, a cui nessuna audacia politica sarà ignota, non sarà del partito degli energumeni, né dei radicali ciechi, incoscienti, né dei conservatori trembleurs, contro di cui egli parecchie volte si eleva con accento che sa la collera. Ben diverso da queste pallide figure, che ci rivivono dinnanzi agli occhi nelle parole scultorie di Camillo di Cavour, egli voleva essere il tipo del leader naturale! Non potendo, in regime di monarchia assoluta, dedicarsi alla carriera politica, vi si apparecchia cercando innanzitutto l’indipendenza economica. Si fa guidatore di contadini, allevatore di porci a Leri; si occupa di foresticultura perché la zia de Tonnèrre gli affida la cultura delle sue selve; va in Stiria e nel Friuli a comprare cavalli ed arieti da spedire in Egitto, s’interessa in una compagnia savoiarda di navigazione fluviale, compra a credito una ragguardevole tenuta in risaia, guadagna una prima volta 20.000 lire e ne perde altrettante una seconda volta a Parigi speculando in Borsa. Questo è uno degli episodi culminanti messi in luce, con documenti nuovissimi, dal Ruffini. Ingannato da una falsa notizia di guerra, la quale avrebbe dovuto far precipitare la rendita francese, ne vende una grossa partita, sperando di guadagnare 200.000 lire. Invece la pace si riafferma e la rendita aumenta, sicché egli teme di dover liquidare l’operazione, ricoprendosi con una perdita di 45.000 lire. Era una perdita enorme per lui, privo a quel tempo (1840, a 30 anni) di beni di fortuna, perdita che ingoiava quel piccolo margine attivo tra il valore della tenuta di risaia acquistata quattro anni prima a credito e l’ammontare dei debiti contratti per l’acquisto. Altri si sarebbe disperato ed avrebbe incolpato la fortuna avversa, le manovre degli aggiotatori. Egli si apre invece col padre e gli afferma «que la leçon que je viens de recevoir me rendra meilleur sous tous les rapports. Peut-être un jour la considérerai je comme un événement heureux». Quando sa che la perdita è di sole 20.000 lire invece delle 45.000 temute ne è ben lieto; ma conclude che, sebbene il colpo sia meno grave, non sarà meno profittevole: «L’effet moral n’en sera pas moindre, je vous le promets; j’aurais payé moins cher la leçon, mais elle ne m’en profitera pas moins le reste de ma vie. Si j’avais réussi, … j’aurais maintenant plus de 200.000 francs à moi; au lieu de cela j’en perds 20.000; mais j’ai gagné de l’espérience, et pris des résolutions, qui valent 1.000.000». Uomini di questa tempra hanno in pugno la vittoria. Se a trent’anni il Conte di Cavour si credeva, come amorevolmente gli ricordava, con consigli di prudenza, il padre, ben conscio però della grandezza del figlio, «le seul jeune homme fait pour devenir Ministre d’emblée, pour être banquier, industriel, spéculateur», gli atti suoi, la sua costanza, la sua indomita energia nelle avversità dimostrano che egli era di quelli che possono diventare, a lor posta, grandi agricoltori, grandi industriali o banchieri, ovvero conduttori di uomini.

 

 

La storia di Camillo Cavour finanziere, iniziatore di un’epoca nuova nella vita economica del suo paese, dopo il 1848, è ancora da scrivere. Chi la farà, dovrà studiare nel libro del Ruffini i primi passi che il Conte mosse nell’applicazione delle dottrine da lui imparate nei libri classici, nelle conversazioni e nel commercio epistolare col Senior, nella riflessione sui fatti economici che intorno a lui si svolgevano. È del 2 novembre 1840 una lettera al padre che è un vero capolavoro di analisi elegante di quell’elegantissimo problema di economia che è il monopolio della domanda da parte di un unico possibile consumatore. Volendo cercare il prezzo che suo padre poteva pagare per certe acque sopravanzanti al vicino dopo la irrigazione della sua risaia, comincia a stabilire, eliminando ad uno ad uno tutti i possibili concorrenti nella domanda dei coli, che il fondo del padre era l’unico adatto a consumare questi; e «cette vérité bien établie» e ne deduce che, avvantaggiandosi il lor fondo di un maggior valor capitale di 60.000 lire, ben potevasi offrire un canone di 1000 lire, nella sicurezza che il fondo dominante non avrebbe saputo ricusare. Non per nulla s’era approfondito, mentr’era ufficiale del genio, nelle matematiche e nel calcolo; e di qui era passato allo studio delle scienze sociali. Benché a 16 anni dichiarasse al Plana che «non era più tempo di matematiche ma bisognava occuparsi di economia politica» per prepararsi degnamente alla carica di primo ministro a cui fin d’allora aspirava, la forma sua mentale era rimasta diritta, logica, divinatrice. I problemi più complessi sono da lui scomposti nei loro elementi primi, sì da renderli cristallini e trasparenti. Per ora il suo è un lavorio mentale, che si rivela nelle lettere famigliari, che forse ancor meglio si rivelerà negli abbozzi di un trattato di economia politica che io spero il Ruffini, col tempo, vorrà pubblicare. Dopo, assurgendo dagli studi dottrinali e dalle applicazioni ai problemi della vita privata ai grandi problemi di Stato, egli analizzerà le forze politiche e le forze sociali esistenti in Italia e in Europa, le scomporrà, le valuterà e saprà giovarsene pel grande suo gioco della risoluzione del problema dell’unità politica italiana.

 

 



[1] Con il titolo Storia politica ed economica. (Un libro sulla giovinezza del conte di Cavour). [ndr]

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