Le terre nuove italiane nel duecento
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1939
Le terre nuove italiane nel duecento
«Rivista di storia economica», IV, n. 1, marzo 1939, pp. 76-78.
Johan Plesner – Una rivoluzione stradale nel dugento. Primo, in primo fasc., 1 degli “Acta Jutlandica” – Universitets forlaget J. Aarhus – Einar Munksgaard – Copenaghen, 1938. Un vol. in ottavo di pp. 103 e 2 carte.
L’autore del libro su L’émigration de la campagne à la ville libre de Florence au treizième siècle, che tante discussioni ha suscitato e sul quale mi sono intrattenuto a lungo (in “La leggenda del servo fuggitivo” nel primo quaderno del 1937 di questa rivista) dà, nel volumetto sopra annunciato, nuova prova della singolare sua attitudine a vedere problemi accanto ai quali tanti studiosi erano passati senza rilevarne la importanza.
Percorrendo a piedi il contado fiorentino, il Plesner era rimasto colpito dal gran numero di nomi locali del tipo di Quarto, Quinto, Quintole, Sesto, Settimo, Settimello, Terzollo, La Pietra, La Lastra, Vigesimo, Decimo e simili. La distanza media in linea d’aria fra un certo numero delle località così designate è di circa 2.350 metri; ma tenendo conto delle giravolte delle strade la distanza effettiva non è lontana dalle due miglia romane di circa 1.480 metri l’una. L’osservazione gli fa parere plausibile l’ipotesi che i nomi locali del tipo “quarto”, “quinto” ecc.. segnassero la posizione delle pietre miliari collocate, a distanza di due miglia l’una dall’altra, lungo le strade romane. Una carta del contado fiorentino, dove egli segna i nomi che ricordano le pietre miliari, i nomi dei luoghi indicati come sede di plebato nel libro di Montaperti del 1260, i corsi dei fiumi e torrenti, le basse pianure ancora paludose nei primi tempi dell’età comunale, i dorsi dei monti e delle colline che spartiscono le vallate del contado, gli consente di porre altre ipotesi illuminanti. Le strade che da Bologna al settentrione, da Imola e Forlì all’oriente e da Roma per Arezzo, Siena e Volterra al mezzodì si dirigono verso Firenze non seguivano, come oggi fanno strade ordinarie e ferroviarie, sino alla metà del tredicesimo secolo i fondi valle, ma correvano lungo i crinali dei colli spartiacque o si tenevano sugli altopiani a mezza costa fra l’alto colle ed il fondo della valle. Là dove fa d’uopo traversar la vallata, è scelta la gola più stretta, che si attraversa con ponti arditi evitando di scendere nel basso.
Salvo eccezioni di contrade fuori mano, i capoluoghi dei plebati si trovano lungo il percorso della strada in alto. Le linee di congiunzione tra le chiese plebane congiungono altresì i luoghi che, con il numerale romano, ricordano le antiche pietre miliari.
Sin verso la metà del duecento uomini e merci si recavano dunque a Firenze e ne partivano lungo le antiche vie romane, tracciate nell’alto in modo da evitare il basso delle vallate. Si fanno lunghi giri pur di evitare il fango e l’acqua e la malaria che rendevano malagevole e talvolta impossibile il cammino lungo l’Arno, il Sieve, l’Elsa, il Pesa, il Greve, il Bisenzio e l’Ombrone. Quando nel 1170 Firenze sostituisce alla divisione in quartieri quella in sestieri ed assegna, probabilmente nello stesso torno di tempo, ad ogni sestiere urbano una giurisdizione rurale, la divisione, come il Plesner dimostra in altra nitidissima carta, obbedisce al comando delle grandi direzioni stradali.
Ma già nel 1300 Giovanni Villani non conosce più l’antico ordinamento stradale; ed in un elenco del 1284 le strade maestre seguono il fondo valle e si avvicinano a quelle moderne. Valli amene come quella dell’Ema, non più ampia di 100 metri, che dianzi le strade evitavano con lunghi giri, inerpicandosi su e giù per colli incomodi, sono ora percorse da strade pianeggianti. La grande bonifica del contado fiorentino, iniziata dai romani, non mai interrotta neppure sotto i longobardi e negli oscuri secoli innanzi al mille, a poco a poco erasi compiuta ad opera dei monasteri che avevano ricevuto dall’imperatore amplissime concessioni di terre desertiche e paludose e dei signori e contadini, i quali ne avevano usurpato o goduto le terre. Quando i terreni delle pianure, redenti dalle acque, sono divenuti saldi, la strada abbandona i crinali e le mezze coste delle catene montane e collinose e scende in basso. Le antiche strade si guastano e diventano spesso sentieri impraticabili dei quali a poco a poco si perde il ricordo.
L’aspetto esteriore della Toscana è profondamente mutato. Là dove, lungo il mare, nella maremma pisana e volterrana, fiorivano le città etrusche e la terra coltivata sembrava un giardino, sono ora, a causa dell’abbandono delle genti in fuga dinnanzi ai pirati, deserto e malaria; ed invece là dove stava, fra colli e monti, il paese selvaggio e boscoso del tempo etrusco, con le oasi romane lentamente ampliantisi, sorge la Toscana comunale, giardino d’Italia.
Plesner, concludendo, si riattacca a Giovanni Villani il quale aveva già scritto che la terra d’Italia “dove era abitata e sana è oggi disabitata e inferma et e converso”; e la conclusione merita di essere ricordata: “Il cronista medievale, da vero storiografo, ha qui scoperto uno dei tratti fondamentali della storia d’Italia, e cioè che l’Italia del tempo romano e l’Italia dei comuni medievali sono, si può dire, due paesi diversi. Tutti forse sanno ciò, ma nessuno storico ha preso abbastanza in considerazione questo fatto elementare, che le contrade più fertili dell’antichità stavano diventando deserte quando l’Italia del medio evo e del rinascimento si sviluppò in contrade la cui bonifica, sebbene incominciata già al tempo degli imperatori romani, non fu ripresa con lena che fra il decimo ed il tredicesimo secolo, all’epoca dei comuni cittadini. I comuni sorsero in contrade coloniali, del Reno, del Rodano e della Septimania. Insieme con questa civilizzazione “romanica” e facente parte integrante di essa, sorge intorno al primo millennio della nostra era un nuovo paese, l’Italia moderna, nata nelle paludi e nelle foreste della Toscana e della Lombardia, un paese la cui geografia gli storici cominciano appena ora ad indagare”.
È grandemente da lamentare che un uomo, il quale in due libri di scarsa mole ha dato così prezioso contributo di ipotesi feconde allo studio della storia italiana, non sia più. Nato nel 1896, professore dal 1937 nella università di Aarhus in Danimarca, è morto il 10 settembre del 1938 in conseguenza di un’operazione di appendicite. La vedova signora Kathleen Plesner curò pietosamente la stampa di questo ultimo suo scritto, voltato in lingua italiana dall’autore medesimo in collaborazione con la signora Carmen Zimmer Storchi. Lo scritto è destinato a crescere il rimpianto di tutti gli studiosi italiani per la ingiusta dipartita di uno studioso che aveva amato l’Italia e dal quale il nostro paese molto ancora si riprometteva.