Opera Omnia Luigi Einaudi

Le sorprese dell’Eritrea: grano tunisino e grano eritreo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/03/1904

Le sorprese dell’Eritrea: grano tunisino e grano eritreo

«Corriere della Sera», 22 marzo[1] e 8 giugno[2] 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 108-115

 

 

I

 

L’Eritrea è il paese delle sorprese. Prima erano sorprese militari; oggi sono argute iniziative di un letterato che vorrebbe emulare nella colonia i seri provvedimenti di pubblica economia onde vanno orgogliose le terre della sua natia Toscana per opera di scienziati e letterati che rispondevano ai nomi di Bandini, Capponi, Ridolfi, Lambruschini, ecc. Per attingere inspirazione a questi grandi spiriti, l’on. Martini ritorna ogni anno a passare sei o sette mesi nella sua villa di Monsummano, dando così l’esempio – unico ed inimitabile fra i governatori di tutte le colonie del mondo di un governatore che dalla madre patria governa la colonia a migliaia di chilometri di distanza. Forse nella tranquilla Monsummano il Martini attenderà a prepararci un libro sui progressi economici dell’Eritrea; e noi gli auguriamo che il libro possa gareggiare con i magnifici rapporti che lord Cromer è riuscito a mandare al parlamento britannico, dopo anni ed anni di pertinace lavoro e di diuturna permanenza, sui progressi economici e finanziari dell’Egitto. Sinora però i profani possono indovinare il contenuto di uno soltanto dei capitoli di cui si comporrà il libro del governatore letterato: di quello precisamente nel quale si farà il conto di ciò che è costato e costerà allo stato italiano il cosidetto risveglio economico eritreo. È un piccolo conticino che bisognerà aggiungere al conto grosso delle spese di guerra; ma è un conticino che può assumere proporzioni imprevedute. Sinora vi si raccolgono soltanto le partite di dare ed avere delle coltivazioni dei cavoli venduti ad Aden, dei quali il «Corriere della sera» ha raccontato la curiosa istoria alcuni giorni fa; o delle ricerche misteriose di oro, di cui non si ha più notizia da qualche tempo. Presto avremo però altre novelle: quando sarà stato approvato il progetto, tanto caro al cuore dell’on. Martini, di esenzione di dazi a favore del grano e di altri prodotti dell’Eritrea e quando i capi lega di Portomaggiore e di altri luoghi del Polesine avranno condotte le loro torme di contadini disoccupati ad occupare le libere terre dell’Asmara, non più aduggiate dall’ombra torva del capitalismo sfruttatore.

 

 

Evidentemente l’on. Martini ha studiato la storia e la pratica attuale della colonizzazione; egli sa che in Inghilterra nella prima metà del secolo XIX si imbarcavano i disoccupati ed i galeotti per i porti dell’Australia a spese dello stato e vorrebbe ripetere l’esempio classico. Egli ha studiato la legislazione coloniale della Francia e sa che molti prodotti delle più importanti colonie francesi (Guadalupa, Guiana francese, Indo-Cina, Madagascar, Martinica, Nuova Caledonia, Riunione, Algeria, ecc.), sono ammessi in esenzione di dazio nella madre patria, mentre i «coloniali» propriamente detti pagano solo la metà dell’attuale tariffa; sa che gli animali vivi, i cereali, la selvaggina, il vino, ecc., della Tunisia sono ammessi in franchigia in Francia purché la importazione non superi una determinata quantità. Né la Francia è il solo paese che abbia accordato trattamenti preferenziali alle sue colonie. Anche il Portogallo, il quale pare abbia saputo trarre mirabile partito dalle sue colonie, impone solo la metà dei dazi normali sulle importazioni coloniali, e li riduce anzi ad un terzo per il granoturco e ad un quarto per lo zucchero di Madera. Pure la Spagna usava le stesse preferenze per le sue antiche colonie di Porto Rico e di Cuba ed ora, ahimè! si duole di potere essere soltanto generosa verso alcuni prodotti delle Canarie. Gli Stati uniti d’America, ultimi giunti nell’arringo coloniale, hanno unificato col territorio americano quello di Porto Rico e delle Hawai, e percepiscono solo il 25% dei dazi soliti sulle provenienze delle Filippine; e persino il Giappone tratta come parte del proprio impero l’isola di Formosa e ne ammette le importazioni in completa esenzione di dazio.

 

 

Appoggiato a questi esempi, l’on. Martini ha indotto il ministro degli esteri a presentare un disegno di legge, in virtù del quale le importazioni di grano dell’Eritrea sarebbero ammesse in esenzione di dazio in Italia, per ora sino all’ammontare di 20.000 quintali all’anno e in seguito sino ai limiti che piacerà al governo di fissare con decreto reale quando le speciali facilitazioni alla cultura del grano – che la legge autorizzerebbe pure il governo a concedere senza dubbio per aiutare gli sforzi dei disoccupati polesani trapiantati sotto i torridi climi eritrei – avessero prodotto gli auspicati benefici effetti. Sarebbero del pari ammesse in completa esenzione di dazi, senza limitazione di quantità, il cotone in bioccoli, o in masse, la dura, il miglio, l’orzo, la saggina, il succo di aloe, la gomma e le resine, il tamarindo, il legname, il fiore di cusso e le foglie di sena, la crusca.

 

 

Francamente però ci sembra che ben altra avrebbe dovuto essere la dimostrazione di dati e di esempi necessaria a legittimare la presentazione di proposte così gravi. Lasciamo stare l’argomento della emigrazione sussidiata, su cui occorrerà tornare di proposito, ora che un po’ da tutte le parti si vuole che il commissariato dell’emigrazione sussidi gli esperimenti di colonizzazione. Sinora l’emigrazione sussidiata non ha prodotto altro fuorché disinganni e vergogne e prova ne siano i dolori dei nostri contadini attirati colla gratuità del viaggio e con promesse allettatrici nelle fazende del Brasile a sostituirvi gli ex schiavi negri liberati. Anche la convenienza di favori doganali è più che dubbia. Che la Francia, il Portogallo, la Spagna, gli Stati uniti ed il Giappone li abbiano concessi e li concedano, non è ancora motivo bastevole per indurre noi ad imitarli. I dazi di favore non tolsero che la Spagna perdesse quasi tutte le sue colonie, non impedirono la decadenza irrimediabile delle colonie portoghesi; e per gli Stati uniti ed il Giappone possono essere, più che altro, uno strumento di annessione politica di isole relativamente vicine e simili alla madre patria. Quanto alle colonie francesi, è più che dubbia per molti – e citiamo soltanto il Leroy-Beaulieu, forse il più illustre cultore di studi di questo genere in Francia che i dazi differenziali abbiano prodotto qualche effetto utile. Intanto né l’Inghilterra, né la Germania, né l’Olanda, che pur contano qualcosa fra i paesi colonizzatori più fortunati non sotto l’aspetto politico, ma sotto il rapporto commerciale, non hanno concesso nessuna preferenza alle loro colonie; ed in Inghilterra si contrasta ora a colpi d’inchieste, di statistiche e di documenti se si debba concedere una modesta preferenza del 10%.

 

 

Anche in Italia – se si voglia fare un passo su questa via – occorrerebbe seguire lo stesso sistema indagare quali siano le condizioni del commercio fra la madre patria e la colonia Eritrea; vedere se e quali coltivazioni meritino di essere eventualmente incoraggiate, e per quali motivi plausibili si debba imporre all’erario dello stato un onere non indifferente. Poiché oggi sono 150.000 lire a cui lo stato rinuncia per l’abolizione del dazio sul grano eritreo (20.000 quintali per 7,50); ma domani potranno essere molte di più e diventare anche milioni per poco che la cultura del grano e delle altre derrate ammesse in franchigia cresca. Perché lo stato, il quale molto ha speso e molto spende per l’Eritrea, dovrebbe indursi a spendere ancora di più, in una forma larvata, sottratta al voto del parlamento, senza benefizio dei consumatori che non vedranno diminuire i prezzi delle merci, e col solo vantaggio di un ristretto numero di persone a cui l’on. Martini concederà – ad arbitrio suo – il permesso di seminare grano e di importarlo franco di dazio in Italia? Sinora di motivi ne è stato addotto uno solo e curiosissimo: che cioè il grano eritreo costa 12 lire sul mercato d’Asmara, a cui aggiungendo 5,50 per il trasporto alla costa, 2,50 per il nolo, 1,50 per il facchinaggio, carico, ecc., e 7,50 di dazio, si raggiunge un costo in Italia di 27,50, superiore al prezzo corrente da noi. Perciò occorre condonare il dazio allo scopo di ridurre il costo a 20 lire e far guadagnare 5 lire al quintale a non si sa chi, forse ad una società di negozianti organizzata sotto gli auspici dell’on. Martini. Il ragionamento, non c’é che dire, legittima qualunque più ardita intrapresa di saccheggio a danno del tesoro dello stato. Se il grano costa troppo per spese di trasporto, abbiate il coraggio, on. Martini, di chiedere fondi per la costruzione della ferrovia per l’altipiano eritreo, e chiedete, se mai, mezzi per ridurre il costo dei noli per l’Italia! Almeno si saprà dove i denari andranno a finire e si vedrà di far qualcosa che possa essere utile anche sotto l’aspetto militare! Coi favori proposti è probabile si avranno nuovi disinganni e si ripeterà la storia dei muletti d’Africa. Ora di queste graziose storielle il pubblico italiano è stufo.

 

 

II

 

Dunque la giunta permanente dei trattati e tariffe ha tarpate le ali ai voli fantasiosi dell’immaginazione del governatore eritreo. Chiedeva infatti l’on. Martini che fossero ammessi in Italia, in esenzione di dazio, 20.000 quintali di grano all’anno, aumentabili in seguito sino ai limiti che sarebbe piaciuto al governo di stabilire quando si fosse allargata sull’altipiano eritreo la coltivazione cerealicola. Ma la giunta permanente – diventata forse arcigna in seguito all’insurrezione dell’opinione pubblica contro codesto larvato modo di distribuire il pubblico denaro a pretesi importatori di grano dalle terre africane – non si lasciò commuovere dalla visione superba dei campi biondeggianti di spighe laddove adesso impera il deserto ed ha sentenziato che al più dovessero essere 20.000 i quintali di grano che si potranno importare in franchigia dall’Eritrea. Se il governo coloniale vorrà estendere la cultura del grano, dovrà far presentare dal ministero degli esteri un apposito disegno di legge al parlamento, affinché questo possa giudicare a ragion veduta dei progressi della coltivazione del grano e della opportunità di sussidiarla con favori doganali.

 

 

Questo il motivo che la giunta adduce a suffragare il suo deliberato, cotanto crudele verso le speranze eritree di poter ben presto redimere l’Italia dal tributo di grano verso lo straniero. Noi dubitiamo forte che la giunta, richiedendo per ogni aumento al disopra di 20.000 quintali la presentazione di un disegno di legge, non abbia voluto che apprestare alla camera una periodica occasione di sollazzo e una gratuita maniera di istruirsi intorno ai modi inventati dall’ingegnosità umana per procacciarsi ricchezze con poca spesa.

 

 

Almeno questo è il frutto che in Francia si è ottenuto dalle discussioni parlamentari intorno all’importazione in franchigia dalla Tunisia. Anche per la Tunisia i governanti francesi ritennero – come ritenemmo noi ad imitazione loro – fosse conveniente stimolare la coltivazione del grano, dell’orzo, dell’olivo, della vite, ecc. ecc., concedendo l’esenzione in franchigia ad una certa quantità di quei prodotti introdotti in Francia. Divenuti però per antica esperienza sospettosi, i legislatori francesi vollero imporre specialissime cautele doganali per difendersi dalle frodi, e vollero, di più, che ogni anno venisse determinata dal parlamento la quantità che potesse essere introdotta in franchigia nel territorio della madre patria. Così si riteneva che la protezione non avrebbe potuto superare quei limiti che fossero effettivamente dimostrati onesti ed utili, precisamente come ora ritiene la nostra benemerita giunta dei trattati e delle tariffe, anch’essa divenuta sospettosa contro le eccessive facoltà da rilasciarsi all’on. Martini.

 

 

Difatti l’anno scorso, dopo lunga ed esauriente discussione, ministero, deputati e senatori, sentiti i rapporti sull’estendersi promettente della cultura del grano in Tunisia, erano rimasti d’accordo che la cifra del grano esportabile in franchigia di dazio dalla Tunisia nella madre patria dovesse essere fissata in 800.000 quintali: cifra certamente elevata, si diceva, in confronto al 1890, anno in cui si era iniziata la prova, ma giusta e ragionevole in base a molti fatti che oratori competenti non mancarono di rilevare celebrando i vantaggi della unione sempre più salda, cementata dai vincoli economici, ecc. ecc., fra la Tunisia e la Francia.

 

 

Siamo ad un anno di distanza. Nel 1904 la questione torna a presentarsi al parlamento per la solita formalità della fissazione della quantità di grano e di altri prodotti da esportare in esenzione di dazio. Stavolta un noiosissimo deputato, il signor Plichon, il quale forse aveva viaggiato in Tunisia e sentiva il bisogno di partecipare le sue scoperte ai colleghi, si alza e narra una storiella interessante. Che, cioè, nel 1903 la Tunisia aveva importato bensì in Francia in franchigia 800.000 quintali di grano; ma che di questi 800.000 quintali poco più della metà si produceva sul suolo della Tunisia medesima. Il miracolo di una esportazione di 800.000 quintali per mezzo di una produzione indigena di soli 450.000 avveniva in un modo semplicissimo, un po’ diverso dalle maniere antiche di compiere i miracoli, ma pure assai ingegnoso: importando 353.000 quintali di grano dall’estero e riesportandolo subito come grano tunisino.

 

 

Lo scandalo, alle rivelazioni del signor Plichon, fu grande. Subito si vide che i commercianti russi od egiziani di grano avevano trovato un mezzo assai comodo di non pagare il dazio di 7 franchi che in Francia è posto sul grano importato dall’estero: fargli fare un piccolo viaggetto di diporto in Tunisia, e fargli prendere la patente di nazionalità tunisina. Con questo metodo non solo i commercianti russi od egiziani od ungheresi non cavavano più fuori di tasca quegli antipatici 7 franchi; ma se a loro veniva in mente, dopo sbarcatolo a Marsiglia, di far macinare il grano e riesportare la farina a Genova, avevano il diritto di farsi pagare dall’erario francese un rimborso di dazio di 7 franchi. Sicuro. Perché il grano russo-tunisino non cessava, solo per non avere pagato il dazio, di essere straniero e quindi di avere diritto al rimborso di dazio che si concede a tutte le merci straniere che sono riesportate.

 

 

L’ilarità e lo scandalo furono grandi alla camera di Francia, sì che per quest’anno ogni concessione di esenzioni di dazio per la Tunisia fu sospesa, almeno insino a tanto che non si siano meglio appurati i fatti. Forse per procurare alla camera italiana da qui a dieci anni un qualche trattenimento altrettanto vario ed esilarante la nostra giunta permanente non vuole lasciare libere le mani all’on. Martini, ma desidera che egli renda conto ogni tanto dei fatti suoi al parlamento.

 

 

Senonché noi crediamo che il giuoco sia troppo pericoloso. La Tunisia è a quattro passi dalla Francia; ed è stato facile al signor Plichon, sebbene un po’ tardi, ricevere informazioni e scoprire il giochetto. In Eritrea non ci va nessuno; e che cosa obbietteranno perciò i deputati nostri, che non mettono mai il naso fuori d’Italia all’on. Martini, quando questi verrà a dimostrare che bisogna lasciar entrare in franchigia non 20, ma 100 o 200.000 quintali? Nulla. Noi crediamo dunque non convenga concedere favori a nessuno, nemmeno ai tristanzuoli primi 20.000 quintali, avanguardia di un esercito di sacchi di grano destinato ad arricchire speculatori, senza alcun vantaggio per i consumatori italiani.

 

 



[1] Con il titolo Le sorprese dell’Eritrea. [ndr]

[2] Con il titolo Grano tunisino e grano eritreo. [ndr]

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