Le “entrate” escogitate da Sonnino e la riforma dei tributi locali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 14/02/1910
Le “entrate” escogitate da Sonnino e la riforma dei tributi locali
«Corriere della sera », 14 febbraio 1910
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.IlI, Einaudi, Torino, 1960, pp. 79-84.
Un giudizio sull’ampio programma finanziario dell’on. Sonnino non può essere dato senza una avvertenza preliminare: che per il momento e per ipotesi si suppongano buoni i fini che si vogliono raggiungere, ossia le nuove spese a cui dovrebbe provvedere il progettato aumento di tributi. È una premessa che si fa esclusivamente per comodo di critica, allo scopo di giudicare le entrate e le spese secondo i propri meriti o demeriti specifici, salvo poi a raffrontare l’una all’altra e concludere che le spese sarebbero utili a farsi, ma non si possono fare perché i mezzi scelti a sopperirvi sono cattivi, ovvero che le nuove entrate sarebbero accettabili ma non devono essere approvate perché sarebbero devolute a fini inutili o dannosi. Discorriamo dunque oggi delle entrate, che sono del resto la materia propria della finanza pubblica. Le spese sono determinate in base a criteri così vari e da forze così disparate che la finanza purtroppo è spesso impotente, nonché a criticarle, a porre un qualsiasi freno al loro dilagare, che, per essere un malanno antico ed universale, si è preso persino l’abitudine di chiamare fatale.
Le nuove entrate, escogitate dal ministero Sonnino, fanno buona impressione. Poiché l’imposta sul tabacco è, a parer mio almeno, l’ottima fra le tante imposte che colpiscono il contribuente italiano, un lieve inasprimento della tariffa di vendita delle sigarette non può sollevare critiche se non da un punto di vista che potrebbe essere ritenuto persino di preveggenza eccessiva. Voglio dir cioè che è sempre opportuno conservare in bilancio una riserva latente di maggiori gettiti per i momenti di difficoltà, di pericolo nazionale, che non si può affermare certamente siano senz’altro esclusi per l’avvenire in Italia.
È bene che il governo abbia a sua disposizione una sorgente potenziale, non utilizzata, di proventi; e deve essere una sorgente provvidamente pronta a dare milioni su milioni, senza ritardi e senza attriti. Quale miglior imposta di quella sul tabacco può adempiere a questa utilissima funzione? Un piccolo e breve decreto, ignoto fino all’istante in cui deve essere applicato, basta alla fabbrica dei milioni. Non basta tuttavia più quando si sia spinta al massimo, già in tempo di pace, la produttività del tributo. Auguriamoci che, neanche coll’attuale aumento, si sia raggiunto il punto di massimo rendimento di questa meravigliosa imposta; e che il fumo possa, in caso di gravi distrette del paese, essere ancora chiamato a contributo.
Insieme coi fumatori di sigarette, sono stati chiamati a contributo i fabbricanti di zucchero. Ho detto a bella posta fabbricanti, perché il congegno dell’aumento di tributo esclude ogni danno per i consumatori di zucchero. Invero, come bene ha rilevato l’onorevole Salandra, il prezzo dello zucchero in Italia è dato dal prezzo all’estero (Trieste), più il dazio doganale che lo zucchero estero deve pagare per entrare in Italia. Nessuno di questi due fattori (prezzo estero e dogana italiana) è variato colle proposte Sonnino e perciò il prezzo non potrà essere aumentato all’interno. I soli fabbricanti di zucchero saranno toccati, perché l’imposta sul raffinato da lire 70,15 è portata a lire 72 a partire dall’1 luglio 1910 e via via crescendo fino a lire 77 dall’1 luglio 1914. La protezione ai zuccherieri rimane ridotta così subito di lire 1,85 e fra 4 anni di lire 6,85; mentre il progetto Giolitti la riduceva subito di lire 8,85 e dopo cinque anni di lire 13,85. Sembra che l’on. Sonnino, nel ridurre la protezione agli zuccherieri, abbia adottato quei criteri di moderazione e di temporeggiamento che i più autorevoli fra gli interessati medesimi avevano invocato durante le polemiche di due mesi fa. Cosicché, senza arrecare un danno insopportabile ai fabbricanti, lo stato incasserebbe una forte somma senza far pagar nulla di più al contribuente. Non dico che ciò sia tutto quello che potrebbe dare una riforma del regime doganale degli zuccheri, ma è certo qualcosa che, senza danneggiare il consumatore, avvantaggia lo stato.
Le restanti proposte non toccano più le sole finanze dello stato, ma queste insieme con le finanze degli enti locali. Quanto alle provincie, la concessione ad esse fatta di metà del provento della tassa sulle automobili risponde ad un antico voto delle provincie, le quali mantengono le strade che alle automobili servono; il trapasso dell’ultimo decimo di guerra sui terreni consacra l’inizio di quel passaggio agli enti locali delle imposte erariali sulla proprietà immobiliare, che la maggior parte degli studiosi da tempo invoca ad imitazione di talune celebri riforme straniere, tra cui famosissima quella prussiana del Miquel.
Del pari le proposte di riforma dei rapporti tributari fra stato e comuni paiono copiate da qualcuno dei tanti, più o meno rassomigliantisi, progetti di riforma tributaria messi innanzi dagli studiosi negli ultimi tempi. È risaputo invero che si era andata formando una certa communis opinio in questo problema, di cui i caposaldi erano: abbandono ai comuni di tutto il provento del dazio consumo, tributo essenzialmente d’origine locale, male adattato alla natura nazionale dello stato moderno; avocazione allo stato dei tributi, globali e personali sul reddito, adattatissimi alla estensione nazionale dello stato e graduale limitazione, a vantaggio dei comuni, del diritto di imporre tributi reali, sulle terre, sulle case e sulle industrie, gravanti cioè su fonti localizzate territorialmente. Il programma dell’on. Sonnino si muove su queste linee e deve essere approvato da tutti quelli che hanno costantemente affermato e dimostrato che l’Italia non poteva sottrarsi a quella evoluzione tributaria, a cui avevano obbedito già gli stati più del nostro progrediti nell’assetto delle imposte.
Confesso candidamente che, se le proposte Sonnino di mutazione dei rapporti finanziari fra stato e comune poggiassero soltanto sull’esempio straniero, non esiterei un istante a condannarle. Gli esempi dell’estero hanno servito a far penetrare nel nostro paese tante idee balorde e tante riforme perniciose che l’imitazione dell’esempio straniero mi sembra sufficiente a far condannare a priori qualunque proposta di riforma. Del resto parmi che noi italiani non s’abbia ad andare scimmiottando tutto ciò che, bene o male, all’estero si fa, quando gli stranieri più dotti riconoscono che la legislazione fiscale italiana offre tipi d’imposta degnissimi d’imitazione, ed imitati da quegli stranieri medesimi che noi ogni altro giorno esaltiamo come progressivi e moderni valga per tutti l’esempio dell’italiana imposta di ricchezza mobile, imitata a gara da taluni recenti riformatori dell’income tax inglese e dal Caillaux di Francia.
Ma, per fortuna, le proposte di riforma dei tributi locali dell’on. Sonnino mi paiono, nelle somme linee, raccomandabili in se stesse, senza d’uopo di ricorrere affatto alla consacrazione straniera:
1) La avocazione dell’imposta di famiglia allo stato si imponeva. L’esempio, stavolta nostrano e probante, di Milano era stato decisivo. Un comune non può, per quanto esso sia amministrato con sapienza ed imparzialità, imporre con buoni frutti un tributo personale sui redditi globali. Troppi mezzi gli mancano per potere accertare i redditi cittadini, e tanto più quelli originanti fuor della cerchia comunale; troppi attriti sorgono tra comune e comune per la localizzazione del reddito. L’imposta sul reddito o è di stato o dà mali frutti. L’avocazione allo stato risparmierà inoltre gli sperimenti pericolosi che in un prossimo avvenire sarebbero certo derivati dall’avvicendarsi dei politici al governo dei comuni. Accadde in passato ed accade oggidì che in molti comuni meridionali e forse anche settentrionali, l’imposta di famiglia sia un testatico, quasi puro, uguale per tutti i contribuenti, qualunque sia la loro ricchezza, con sfregio evidente della giustizia distributiva. Ma potrà accadere e forse accade già, che, per ragion di contrasto, i popolari, andati al potere, gravino quasi soltanto la mano sui pochi ricchi, con offesa altrettanto evidente alla giustizia distributiva. Diventando l’imposta di stato, sarà assai più difficile che si giunga a questi estremi di spogliazione.
2) L’abbandono del dazio consumo governativo ai comuni fa sì che lo stato, mentre assume un’entrata di carattere nazionale, come l’imposta di famiglia, restituisca un’altra entrata che è di carattere indubbiamente locale, perché legata ai consumi che sul luogo fanno coloro che si giovano dei servizi comunali. L’esame delle norme particolari del disegno di legge gioverà a dimostrare se, nel momento in cui fa questo abbandono, lo stato abbia saputo ideare le guarentigie opportune ad impedire l’abuso che i comuni potrebbero fare del delicatissimo strumento di tassazione. Urgerebbe, ad esempio, che si inserissero norme tassative per impedire che i comuni si servissero della tariffa daziaria per concedere una indebita protezione alle industrie viventi entro le mura di una città contro le industrie italiane extra moenia. L’approvazione di una tariffa doganale protezionista da parte di una grande città, come Torino, dovrebbe essere impedita, ed anzi dovrebbe essere fatto obbligo ai comuni di procedere ad una revisione preventiva delle tariffe daziarie, prima ed allo scopo di ottenere il beneficio del condono del canone governativo. La revisione dovrebbe ispirarsi a due concetti:
a) semplificazione delle tariffe, con eliminazione di moltissime voci poco produttive e gravanti su consumi necessari;
b) abolizione di qualunque vestigio di protezionismo municipale. Senza questa revisione preliminare, l’abbandono integrale del dazio consumo ai comuni potrebbe fare più male che bene, mettendoli in grado di abbandonarsi alle più strambe fantasie tariffarie;
3) Ottimo è infine il concetto che debba esistere un rapporto, fissato per legge, fra il dazio consumo e la sovrimposta sui terreni e sui fabbricati. L’autonomia od autarchia comunale è forse una gran bella cosa; ma in materia di tributi i freni sono necessari. Altrimenti si vedrebbero comuni, dove spadroneggiano i popolari, abolire o quasi il dazio consumo ed aumentare le sovrimposte sino ad assorbire i redditi dei proprietari; e se ne vorrebbero altri, in balia dei proprietari fondiari, rifiutarsi ad elevare la sovrimposta ed abbandonarsi a fantastiche elevazioni delle tariffe dei dazi a danno dei consumatori. Il legislatore deve impedire queste alterne sopraffazioni e non lo può se non fissando un rapporto fra il rendimento dell’uno e dell’altro tributo. Il rapporto deve essere elastico, in guisa da adattarsi alle variabili e mutevoli condizioni delle finanze comunali; ma deve essere stabilito per legge ed è merito dell’on. Sonnino averne proclamato la necessità,