Le due politiche monetarie
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 23/08/1921
Le due politiche monetarie
«Corriere della Sera», 23 agosto 1921
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 303-308
Sebbene l’on. Meda non abbia voluto direttamente rispondere al quesito che gli avevo posto: in qual misterioso modo sarebbe possibile toccare il pareggio se la lira ritornasse davvero e rapidamente dagli attuali 20 centesimi ai pieni 100 centesimi d’un tempo?, il dibattito non è stato davvero infecondo. In esso è intervenuto anche il prof. Cabiati, e dalla collaborazione di tutti parmi possa ricavarsi già qualche conclusione.
Tenuto fermo il principio che si debba andare verso il pareggio, quanto più presto lo raggiungeremo tanto meglio. L’on. Meda non ha troppa fiducia nelle economie; ed io non voglio simularne una grandissima. Basti essere d’accordo nel proposito di fare ogni sforzo per fare tutte le economie possibili. Chi è scettico su di esse e tale si dimostra apertamente, spalanca la via alle maggiori spese, non può resistere a quelle inutili e di fatto vieta il ritorno al pareggio. In Inghilterra, dove il bilancio fu già ridotto più del nostro, si costituiscono leghe per l’economia; il governo è obbligato a prestare ascolto alle giuste richieste; un ministro (sir Eric Geddes) si dimette per dedicare tutto il suo tempo al nuovo compito di presidente di una commissione governativa, composta di lui e di pochi banchieri e uomini d’affari, incaricata di segnalare le economie da farsi nel bilancio dello stato. Sotto la pressione del pubblico clamore pro economie, non solo il pareggio fu raggiunto; ma si ridusse già il debito pubblico da 8 milioni di lire sterline il 31 dicembre 1919 a 7.793 milioni il 30 luglio 1921; e qualche imposta fu già abolita e qualche altra ridotta. Laggiù non si è contenti: si vuole ridurre più rapidamente il debito pubblico, e si trovano insopportabili le imposte vigenti. Perciò si grida economie! ed il governo è costretto a farne.
In Italia siamo lontani dagli ideali britannici; e crederemmo di aver fatto molto se toccassimo il pareggio. All’uopo siamo anche tutti d’accordo nel ritenere che, se le economie non basteranno, occorrono imposte nuove. Sul genere delle nuove imposte occorrenti, ci può essere divergenza di vedute: il prof. Cabiati, ad esempio, crede che la imposta sulla spesa voluta dall’on. Meda sia inaccettabile, perché sperequata ed oligarchica. Io sono esitante a darne un giudizio, finché l’on. Meda non abbia spiegato in che consiste il tributo da lui vagheggiato: essendoci imposte sulla spesa ottime ed imposte sulla spesa pessime. Ed occorrerà egli dimostri in che cosa la sua imposta sulla spesa differisca dalle numerose imposte sulla spesa già esistenti e perché sia preferibile istituirne una nuova, piuttostoché far rendere meglio quelle vigenti. Nessuno disputa sulla necessità di nuove imposte, quando le economie all’osso non bastino; ma non è un’imposta nuova anche l’esigere meglio e più perequatamente un’imposta vecchia? E non è forse vero che, nove volte su dieci, la differenza fra l’esigere meglio un’imposta vecchia e il mettere un’imposta nuova sta nella creduta necessità politica di illudere i contribuenti di pagare su un cespite nuovo, non prima tassato? Il che è pura illusione, perché l’unica fonte delle imposte è sempre il flusso del reddito annuo dei contribuenti. Mutano i nomi; ma la sorgiva tributaria è sempre la stessa. Incombe all’on. Meda l’ufficio di dire quale nome d’imposta egli preferisca, come il suo congegno si attui praticamente e perché sia preferibile ai congegni esistenti e più produttivi per la finanza. Fino a che egli non abbia fornito gli opportuni chiarimenti, la discussione su questo punto parmi prematura.
Rimane tuttavia il quesito fondamentale da me posto ed a cui l’on. Meda reputa non dover rispondere. Posta come ferma la necessità del pareggio, ammesso che dopo fatte tutte le economie possibili, si debba ricorrere ad un maggior gettito tributario – derivato da imposte nuove o vecchie, come sarà chiarito più consigliabile – a quale condizione sarà possibile il pareggio?
L’esistenza del problema non può essere messa in dubbio. L’uomo politico non può assolutamente farne astrazione. Il ministro del tesoro deve avere idee chiare in merito e deve indicare lui, su questa base, la via da percorrere al suo collega delle finanze. È perfettamente inutile che quest’ultimo, con imposte nuove o con miglioramento di quelle vecchie, tenda energicamente al pareggio, se nel tempo stesso il suo collega del tesoro con una contraria politica monetaria impedisce ai contribuenti di pagare.
Il pareggio può essere ottenuto partendo da due opposte concezioni monetarie:
- Con la prima si vuole, in un tempo dato, più o meno lungo, riportare la lira alla pari. A tale scopo si riduce ogni anno, di un dato percento, la circolazione cartacea. Così facendo, ribassano i prezzi ed i redditi. Dopo 5 o 10 anni, alla fine del periodo di passaggio dall’attuale sistema di prezzi alti a quello futuro di prezzi bassi, noi saremo ritornati da un reddito nazionale di 100 miliardi di lire piccole ad un reddito di 20 o 25 miliardi di lire grosse.
Mentre il passaggio si compie, bisogna essere preparati a vedere molte imprese fallire, perché avranno comperato a prezzi alti e venderanno a prezzi bassi. Lo spirito di intrapresa sarà scoraggiato e ben difficilmente la produzione potrà aumentare. Milioni di lavoratori dovranno ridursi dagli attuali salari da 30 o 20 lire agli antichi di 4 o 5 lire. Continuerà cioè, per anni, l’attuale periodo di crisi economica. Lotte fierissime sociali si perpetueranno, per la naturale resistenza dei lavoratori a consentire ad una riduzione di salari, prima di essere ben sicuri di beneficiare di una corrispondente diminuzione di prezzi. E molti altri fenomeni di attrito, nel commercio, nel credito, nei valori fondiari e mobiliari, ecc. ecc., si verificheranno, che qui sarebbe troppo lungo narrare.
Nel frattempo lo stato, le province ed i comuni non potranno mantenere il gettito tributario all’attuale altezza e tanto meno potranno aumentarlo a quella di 25 miliardi che sarebbe necessaria per ottenere il pareggio sulla base delle spese attuali. Giunti alla fine del trapasso, apparirà manifestamente assurdo cavare dai contribuenti possessori di un reddito complessivo di 25 miliardi tante imposte da uguagliare questa cifra. Non si può cavar sangue da una rapa; e non si possono far morire di fame i cittadini per far vivere lo stato. Questo, per conto suo, dovrà ridurre il suo fabbisogno dagli auspicati 17 o 18 miliardi in lire piccole ad un massimo di 4 o 5 miliardi in lire grosse. A tal uopo, dovrà ridurre – come propongono l’on. Giolitti (nel discorso di Dronero) e il prof. Cabiati – gli interessi del debito pubblico. Non basterà una riduzione dal 5 al 3 per cento; ma, ad evoluzione monetaria compiuta, dovremo arrivare all’1, ½ per cento. Anche le vecchie rendite 3,50 per cento dovranno forzatamente essere vulnerate. Gli stipendi dei pubblici funzionari dovranno ridursi al livello antico; e cioè, a seconda delle classi, ad 1/2, 1/3, 1/4, 1/6 ed 1/8 dello stipendio antebellico. Tutte le altre spese dovranno essere contratte in proporzione.
Creditori pubblici ed impiegati in conclusione nulla perderanno, perché riceveranno in un minor numero di lire grosse l’equivalente della maggior copia di lire piccole. Ma l’uomo di stato ha il dovere strettissimo di fare il calcolo delle resistenze formidabili, degli attriti gravissimi che egli dovrà superare nel lungo e periglioso cammino che egli dovrà percorrere nell’attuazione di un così austero programma di politica monetaria. E per rimanere nel campo della disputa presente, il ministro del tesoro, il quale abbia deciso di porsi su questa via, dovrà chiedere al suo collega delle finanze diminuzioni e non aumenti di imposte.
- Non meno austera, né meno severa è la seconda concezione monetaria. Anche qui si vuole, alla fine, che la lira di carta torni ad equivalere alla lira d’oro. Ma non si prefigge alcun limite di tempo all’operazione. Il mezzo adottato è nelle linee generali questo: «tener ferma la quantità di carta circolante sulla cifra attuale di 20 miliardi». È chiaro che in tal modo, il ribasso unitario dei prezzi può derivare soltanto dal moltiplicarsi delle unità delle merci o dei servigi da far circolare, ossia dall’aumento della produzione. Se il reddito complessivo dei cittadini è oggi di 100 miliardi di lire, quel reddito rimane fisso sulla stessa cifra, perché è vero che, col crescere della produzione, i prezzi unitari ribassano; ma, producendosi di più, il ricavo totale è uguale. L’agricoltore che produce oggi 100 quintali di frumento a 125 lire il quintale, ha un reddito lordo di 12.500 lire. Il suo reddito rimane invariato anche se il prezzo ribassa a lire 62,50 il quintale, se i quintali prodotti diventano 200.
Questo secondo metodo di ritornare all’equilibrio antico è assai più lento; ma sembra di gran lunga meno pericoloso socialmente. A mano a mano che la produzione aumenta, i prezzi unitari ribassano; ma, rimanendo invariato il reddito complessivo medio di ogni cittadino, ognuno trova un conforto alla stasi dei proprii redditi monetari, nel fatto che con quegli stessi redditi si compra più roba. L’industria deve lavorar di più per ottenere lo stesso prodotto. È una situazione di sforzo e di tensione costante; ma non è una situazione di tracollo di prezzi o di lenta depressione (di cui ebbimo un esempio memorabile nel periodo 1873-98), che scoraggia lo spirito d’intrapresa e fa veder tutto nero. Gli operai e gli stipendiati troveranno un limite infrangibile contro richieste di aumenti di salari nominali; ma i loro salari reali andranno gradatamente migliorando.
È probabile che, in un sistema siffatto, il saggio d’interesse dei capitali diminuisca; epperciò da un lato gli imprenditori siano incoraggiati dalla possibilità di procacciarsi capitali a buon mercato e lo stato possa fare conversioni volontarie del suo debito pubblico dal 6 al 5 e poi al 4 per cento. Lo stato e gli altri enti pubblici, fermo rimanendo il reddito nazionale in 100 miliardi, potranno più agevolmente fare economie (le citate conversioni volontarie del debito pubblico) e contemporaneamente aumentare le imposte sino al pareggio. Non è neppure impossibile, che, passato qualche anno, se e quando si vegga crescere la produzione con ritmo abbastanza veloce, lo stato possa ridurre la circolazione monetaria ed accelerare così senza danno il ritorno della lira di carta alla parità con la lira d’oro.
Ho detto che questa seconda concezione non è meno austera né meno severa della prima. Essa ha due perni fondamentali: non crescere per nessuna ragione e ad ogni costo neppure di un centesimo la massa totale della circolazione (di stato e bancaria); toccare ad ogni costo il pareggio e mettere fine alle emissioni di debiti pubblici, salvoché per scopi particolari direttamente riproduttivi.
Non è chiaro, on. Meda, che sulla scelta tra i due metodi monetari è necessario avere un’opinione ben ferma, prima di decidersi ad una qualunque politica tributaria?