Le correnti dell’emigrazione italiana
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/07/1903
Le correnti dell’emigrazione italiana
«Corriere della sera», 13 luglio 1903
L’emigrazione italiana è davvero una fiumana maestosa, le cui sorgenti sembra non debbano isterilirsi mai. Gli ultimi dati che in bel volume sono stati pubblicati di questi giorni dalla Direzione generale della statistica (Statistica della emigrazione italiana per l’estero negli anni 1900 e 1901, con appendice per il 1902, Roma, Bertero, 1903), ci dimostrano che la corrente migratoria non è per nulla scemata d’intensità. Erano gli emigranti 119 mila in tutto (distinti in 22 mila per la migrazione propria, 83 mila per la temporanea e 14 mila per la clandestina) nel 1869, e attraverso a non gravi oscillazioni erano ancora 119 mila nel 1880 (distinti in 37 mila per la migrazione propria o permanente e 82 mila per la temporanea). Ma dopo d’allora la fiumana s’ingrossa e straripa. Gli emigranti permanenti salgono nel 1885 a 77 mila, nel 1890 a 104, nel 1891 a 153, nel 1901 a 251 e nel 1902 a 245 mila. Quelli temporanei salgono pur essi a 112 mila nel 1890, a 199 mila nel 1900, a 281 mila nel 1901 ed a 286 mila nel 1902. Fermiamoci qui: ai due ultimi anni in cui l’emigrazione complessiva raggiunge i 533 ed i 531 mila individui, un vero e formidabile esercito di scontenti che va all’estero non più all’assalto della felicità e dell’Eldorado; ma alla ricerca di condizioni meno misere di vita.
Di dove vengono e dove vanno costoro? Se si getta l’occhio su una carta d’Italia e si immaginano le sue varie regioni colorate in azzurro ed in rosso a seconda che la percentuale della emigrazione permanente su 100.000 abitanti è stata nel 1902 inferiore o superiore alla media generale dell’Italia (che è di 747 emigranti su 100.000 italiani), si vedrebbero, con un’eccezione per le Puglie, le regioni superiori al Lazio tutte colorate in azzurro e quelle inferiori tutte colorate in rosso. Hanno una percentuale inferiore alla media la Sardegna (0 su 100 mila) dalla quale non si emigra in modo permanente, il Veneto (152), la Lombardia (156), l’Emilia (169), l’Umbria (173), il Lazio (230), la Toscana (283), il Piemonte (337), la Liguria (429), le Puglie (606), le Marche (700). Con queste due regioni già ci avviciniamo alla regione meridionale, dove la emigrazione permanente è superiore alla media: Sicilia (937), Campania (1.881), Calabria (2.354), Basilicata (2.870), Abruzzi e Molise (2.934).
Queste ultime cifre, pure così fosche, sono inferiori a quelle del 1901, quando dalla Basilicata emigrarono 3.380 persone e dagli Abruzzi e Molise 3.542 su 100 mila abitanti. Ve lo immaginate voi un movimento che continui con questa terribile densità per una decina d’anni? Sarebbe la popolazione spogliata dal 30 al 40 per cento dei suoi abitanti più giovani e vigorosi.
La emigrazione periodica o temporanea porta su cifre ancora più grosse in via assoluta; ma non ha, come ben si capisce, la medesima significazione tragica. Ogni inverno 872 italiani su 100 mila vanno a cercare lavoro all’estero per alcuni mesi e poi ritornano in patria con un piccolo gruzzolo. Vi sono tre sole regioni da cui si emigri più della media generale: il Piemonte con 895, l’Emilia con 952 e il Veneto con 3.011 su 100 mila abitanti; ma è solo l’ultima cifra, quella del Veneto, che fa pensare ed induce il dubbio trattarsi più che di migrazione temporanea, di una forma singolare di emigrazione permanente. Una sola regione vi ha in Italia, la quale non abbia emigrazione temporanea: la Basilicata (0 nel 1901, 2 nel 1902 su 100 mila abitanti). Da questa terra sconsolata si emigra senza speranza di ritorno! Invano la terra aspetta, fidente, che gli uomini tornino ad ararla. Essi nelle lontane Americhe hanno smesso, pur dolorando, ogni idea di ritornare alla terra che li respinge matrigna: ammonimento solenne che si leva dalle nude pagine delle statistiche ufficiali contro coloro, i quali ogni giorno cianciano a vuoto, senza por mano a nulla di concreto, della questione meridionale! Quando l’opera sarà alfine iniziata, essa sarà inutile perché gli uomini forti ed ardimentosi saranno fuggiti colla morte nel cuore.
Dove vanno queste torme di gente vagante in cerca di una sorte migliore? Quasi la metà si ferma nell’Europa. Nel 1902 su 531 mila emigranti, ben 236 mila si fermarono in Europa e di essi 220 erano emigranti temporanei. I paesi che più li attraggono sono l’Austria – Ungheria (54 mila), la Francia (59), la Germania (52), la Svizzera (50). Il dilettoso paese di Francia è quello che trattiene quasi la metà degli emigranti permanenti in Europa (6.426 su 13.291).
Correnti minori si dirigono in Africa (11.771 di cui 6.123 in Tunisia), nell’Asia (319) e nell’Oceania (767). Ma il resto della grande massa va in America dove si erano indirizzati nel 1902, ben 282 mila italiani, in maggioranza (226 mila) coll’intenzione di restarvi per sempre e 56 mila con proposito di un pronto ritorno. Una volta era l’Argentina che più li attraeva; sicché nel 1889 ben 69 mila italiani vi erano approdati; ma le crisi economiche, il malgoverno e la poca sicurezza vinsero i legami di sangue e ridussero la nostra emigrazione a 24 mila nel 1891. Era di nuovo cresciuta a 59 mila nel 1901; ma l’esperienza pare sia stata poco felice, poiché nel 1902 si cade di nuovo a 36 mila. Il Brasile seppe cattivarsi dappoi le simpatie dei contadini italiani; e sovratutto mercé i viaggi gratuiti, gli emigranti italiani che erano appena 4.533 nel 1878 e 6.116 nel 1884, balzano a 108 mila nel 1891, quando la crisi imperversa nell’Argentina. In seguito si scende a 26 mila nel 1899, si sale ad 82 mila nel 1901, e di nuovo si cala a 40 mila nel 1902, dopo che il Governo italiano vietò la emigrazione a viaggio gratuito in quello Stato. Sono le solite altalene dei paesi dell’America meridionale, i quali non potranno mai assicurarsi una corrente costante di emigranti sinché non si decidano a garantire a tutti, anche ai poveri ed ai deboli, vita, sicurezza e giustizia.
Quanto valga un Governo ordinato, sicurezza di vita ed opportunità di guadagni onesti dimostrano gli Stati Uniti. Malgrado la differenza dei costumi, l’ignoranza della lingua e le difficoltà di adattamento, l’emigrazione negli Stati Uniti cresce con costanza: 1.441 nel 1876, 26 mila nel 1886, 53 mila nel 1896, 87 mila nel 1900, 121 mila nel 1901 e 193 mila nel 1902, di cui 150 mila permanenti e 43 mila temporanei. Se gli Stati Uniti traducessero in atto le loro minaccie ed alle attuali difficoltà contro gli immigrati analfabeti ne aggiungessero altre, la crisi del lavoro in Italia sarebbe veramente terribile. Ciò che ha aiutato in questi ultimi anni lo sforzo delle masse operaie verso il proprio elevamento è stata la possibilità di mandare all’estero tutto il sovrappiù della forza di lavoro che in Italia avrebbe premuto sul tasso dei salari. Il salto verificatosi nel 1901 e nel 1902 nella emigrazione italiana da circa 300 mila a più di mezzo milione ha fatto riuscire più scioperi che non forse la nuova politica di libertà. Che cosa avrebbero fatto le leghe, specialmente nelle campagne, se questi 400 mila operai, emigrati in più nell’ultimo biennio, fossero rimasti in Italia e se avessero preso la cattiva abitudine di risalire su dai paesi meridionali a salari bassi nei paesi settentrionali a salari più elevati? è difficile pensare senza un senso di spavento ad una eventualità di questo genere: ed è qui che si palesa con quanta attenzione debba essere seguito il nostro movimento emigratorio.
Nel quale ci troviamo alla testa di tutti i paesi d’Europa. Secondo una tabella dell’emigrazione comparata di alcuni Stati d’Europa verso i paesi d’oltremare nel 1901; gli italiani vengono primi con 279 mila emigrati oltremare. Segue poi l’Inghilterra con 171 mila (111 mila inglesi, 21 mila scozzesi e 39 mila irlandesi), l’Ungheria con 71 mila, l’Austria con 65, la Spagna con 53, la Russia con 46, la Germania e il Portogallo con 20 ciascuna, la Svezia con 18, la Norvegia con 12 mila. Siamo davvero il popolo migrante per eccellenza dei tempi moderni; nell’ultimo ventennio l’Inghilterra sola ci superò una volta nel 1883 con 320 mila emigranti nei paesi d’oltremare. A noi spetta ora il vanto incontrastato di colonizzare i paesi ancora vergini d’America; ma è vanto non scevro da tristezze profonde. Poiché, a differenza degli inglesi, gli italiani varcano gli oceani colla sola ricchezza delle loro braccia; e perciò diventano non i padroni della terra, ma gli umili servi di popoli più ricchi e forti.