Le confessioni di un economista
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/10/1917
Le confessioni di un economista
«La Riforma Sociale», ottobre 1917, pp. 563-578
Le lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino 1924, pp. pp. 221-253
Second Thoughts of an Economist by William Smart, D. Phil., L.L.D., Professor of Political Economy in the University of Glasgow, with a biographical sketch by Thomas Jones, M.A. – Macmillan and Co. St Martins Street, London 1916. (Un vol. di pagine LXXIX-189, con ritratto, 5 s. net).
Pensieri che vengono dopo o L’esame di coscienza di un economista potrebbe essere intitolato in italiano questo piccolo libretto postumo del professor Smart.[1] L’ho riletto, a distanza di un anno, col medesimo diletto intellettuale e con l’uguale compiacimento morale provato alla prima lettura.
Le pagine dello Smart sono personali e rivelatrici, come osserva il suo biografo Jones; in esse si legge la confessione dei suoi dubbi scientifici, delle sue inquietudini umane, del suo sforzo di guardare oltre la siepe del giardino riservato all’economista, di vedere che cosa succede nel vasto mondo e come i problemi economici si connettano con i problemi morali, religiosi, dei fini per cui la vita è degna di essere vissuta.
Nato il 10 aprile 1853, da un industriale, a Barrhead, nelle vicinanze di Glasgow, visse i primi anni in una casa situata, all’usanza antica, entro le mura dello stabilimento paterno. Entrato nel 1867 all’Università, fu richiamato alla fabbrica del padre nel 1870; ed all’età di 17 anni interruppe gli studi, che non riprese se non assai più tardi, ottenendo solo nel 1882 il grado di M. A. (magister artium).
Quando il padre si ritirò, nel 1882, dalla ditta, egli ne prese il posto come socio e fece le sue prove come organizzatore del lavoro nella fabbrica e come uomo d’affari. Nel 1884 i soci vendettero lo stabilimento, e lo Smart poté dedicarsi agli studi, salvo, alcuni anni dopo, una lunga permanenza che egli fu costretto a fare negli Stati Uniti per rimettere in assetto una fabbrica, in cui egli era rimasto interessato.
L’essere stato industriale nei suoi anni giovani, dai 17 ai 31, fu da lui sempre considerato come «il più prezioso fra i tirocinii» per un economista; e spiega in notevole parte l’interesse vivo ed umano che egli sempre sentì per i problemi del lavoro. Accanto a questa influenza della sua vita operante, la giovinezza sua sentì quella intellettuale e religiosa della propaganda ruskiniana. Il decennio dal 1870 al 1880 vide il trionfo delle correnti d’idee impersonate da un lato in Giovanni Stuart Mill e dall’altro lato da Carlyle ed in Ruskin. Il giovane Smart leggeva avidamente, nelle horae subsecivae lasciate libere dal lavoro nello stabilimento paterno, le lettere mensili ai lavoratori ed operai della Gran Brettagna pubblicate dal Ruskin sotto il titolo di Fors Clavigera; conobbe personalmente e fu preso di gran riverenza per Ruskin, e, fondatosi a Glasgow una branca della Ghilda di San Giorgio, vi si associò, pronunciando il giuramento che Ruskin aveva dettato per i compagni della Ghilda:
«Io ho fede nella nobiltà della natura umana, nella maestà delle sue doti, nella pienezza della sua misericordia e nella gioia del suo amore. Ed io mi sforzerò di amare il mio vicino come me stesso ed, anche quando non lo potrò, agirò come se lo potessi.
«Io lavorerò, con quella vigoria e con quei mezzi che Dio mi dà, per procacciarmi il mio pane quotidiano e compirò con tutto il mio potere ciò che la mia mano dovrà fare.
«Io non ingannerò né farò ingannare alcun essere umano per lucro o piacere mio; né per lucro o piacere mio danneggerò o farò danneggiare alcun essere umano, né per lucro o piacere mio ruberò o farò rubare alcun essere umano.
«Io non ucciderò o danneggerò alcuna creatura vivente, né distruggerò alcuna cosa bella, ma mi sforzerò di serbare e confortare ogni vita gentile e di salvaguardare e perfezionare ogni bellezza naturale, che sia sulla terra».
Fu grande la meraviglia di Ruskin, quando seppe che il suo discepolo, – il quale il 28 ottobre 1880 aveva pronunciato il discorso inaugurale della Società Ruskiniana di Glasgow su Ruskin, his life and world, e nel 1883 aveva scritto A disciple of Plato, a Critical Study of John Ruskin, – era diventato un economista. Lo Smart era stato spinto allo studio della scienza economica da Edoardo Caird, – professore di filosofia morale nell’Università di Glasgow e perciò successore nella cattedra di Adamo Smith, – il quale era sovratutto considerato in Scozia il più grande insegnante della sua generazione ed il dominatore del pensiero filosofico scozzese dal 1866 al 1893. Ed all’esclamazione di RusKin: Voi!, egli poteva rispondere nei suoi Second Thoughts che Ruskin aveva condannato la economia politica «piuttosto per ciò che egli supponeva fosse che per conoscenza diretta». Ruskin, senza saperlo, vide in fondo a molti problemi economici. Egli insisteva nel dire che la sostanza della ricchezza stava nel potere che essa conferisce sugli uomini, e che la prepotenza e lo sfruttamento sono un tradimento sociale. Egli fu un precursore della teoria degli alti salari. Egli continuamente s’intratteneva sul compito onorevole e pieno di responsabilità, sul compito professionale dell’imprenditore. Egli era un libero scambista senza timori e senza scrupoli; ma non ebbe né la pazienza né il tempo necessari per studiare quello che, almeno almeno, è una difficile teoria, fornita di una difficile storia dottrinale. Messosi a studiarla sul serio, lo Smart vide subito (pag. 5) che «l’Economia politica era una scienza il cui scopo principale non è di difendere alcun sistema particolare, ma di spiegare come gli uomini, consapevolmente od inconsapevolmente, collaborano gli uni con gli altri e ricevono e danno a vicenda il proprio pane quotidiano. Io la vidi analizzare ciò che noi uomini facciamo nella vita giornaliera dedicata a procacciarci un reddito ed a spenderlo; raccogliere fatti in categorie e generalizzazioni; trarre deduzioni intorno a ciò che gli uomini faranno in avvenire da ciò che essi hanno fatto in passato. Tutto ciò parve a me così impersonale come l’anatomia, come lo scrivere storia, come l’osservazione delle maree, ed altrettanto necessario. Io cominciai a pensare che Ruskin aveva attaccato a torto la scienza economica; aveva scritto come se gli economisti approvassero ciò che essi spiegavano e applaudissero a ciò che essi descrivevano».
Una spiegazione parziale dell’attacco e della condanna ruskiniana si può trovare nell’atteggiamento alquanto superbo degli economisti dell’epoca post – classica. Essi avevano assistito a così grandi trionfi della loro scienza dopo Adamo Smith e dopo Ricardo, l’avevano vista, ed a ragione, ammirata, come la scienza che aveva fugato tanti errori dei secoli scorsi, aveva creato il libero scambio inglese, ed aveva rinnovato la vita economica del paese, che si erano persuasi tutto essere destinato ad andar bene se si fosse consentito libero corso alle «leggi economiche».
Da questa superbia lo Smart fu immune. Egli scrisse: «Nessun uomo cominciò mai lo studio di una scienza senza persuadersi in brevissimo tempo che anche la più lunga vita non basta per impadronirsi a fondo neppure di un piccolissimo capitolo di essa»; ed a lui la posa dell’«uomo dotto» fu sempre antipatica, mentre si addiceva al suo temperamento essere considerato «un ricercatore ansioso» di conoscere la verità. Lettore di economia politica nel Queen Margaret College di Glasgow dal 1886 al 1896 e nell’University College di Dundee nel 1886-87, supplì Edoardo Caird dal 1887 al 1892 nell’insegnamento dell’economia politica nell’Università di Glasgow. Nel 1892 fu nominato «lettore» in proprio titolo; e nel 1896, quando un grande industriale del ferro, il signor Andrea Stewart, fondò la cattedra Adamo Smith di economia politica nell’Università di Glasgow, lo Smart fu il primo chiamato a coprire quella cattedra, che tenne sino alla morte, avvenuta la notte del 19 marzo 1915.
Da quel giorno egli attese unicamente agli studi ed alla scuola. Interrogato nel 1910 se avrebbe consentito a lasciar porre la sua candidatura in un collegio universitario (in Inghilterra alcune antiche Università hanno il diritto di mandare deputati alla Camera dei Comuni), ringraziò per l’onore fattogli, ma rispose (pag. XLII): «Io sono un economista. Detesto la politica di partito. Io non potrei mai “votare decisamente” nel modo come ogni collegio elettorale penserebbe in decisamente ed avrebbe diritto di chiedere che il suo rappresentante votasse. Io sono più che contento della mia quieta vita di pensiero. Io non vorrei cambiarla per diventare un Primo Ministro ed un Andrea Carnegie riuniti in una sola persona».
Consentì ad abbandonare temporaneamente la vita di studioso solo per far parte della famosa commissione reale sulle leggi dei poveri per cinque anni, dal 1905 al 1910. Infaticabile e laboriosissimo, divise durante quegli anni il suo tempo fra la cattedra ed il lavoro della commissione; e scrisse parte notevole del testo del rapporto della maggioranza e parecchie memorie allegate al rapporto.
Prima di entrare a far parte della storica commissione, lo Smart, oltre a traduzioni, da lui curate o sorvegliate, di parecchi libri della scuola austriaca, ed oltre ad opuscoli ed articoli occasionali, aveva pubblicato An Introduction to the Theory of Value (Macmillan, 1891, 1910 e 1914), Studies in Economics (Macmillan, 1895). The Distribution of Income (Macmillan, 1899 e 1912), Taxation of Land Values and the Single Tax (Mac Lehose,1900) e The Return to Protection (Macmillan, 1904 e 1906). Dopo, il grande compito della sua vita furono gli Economic Annals of the Nineteenth Century, che sono una storia cronologica, anno per anno, del pensiero e dei fatti economici in Inghilterra a partire dal 1801. Il primo volume (Macmillan, 1910) fu pubblicato nel novembre 1909 ed abbraccia il periodo 1801-20; il secondo (1821-30) era in stampa, totalmente cortetto dall’autore una prima volta e per la più gran parte anche una seconda volta, quando la morte colpì lo Smart nel principio di quella che doveva diventare una delle maggiori imprese storiche dei tempi nostri. Anche ristretta ai due primi volumi (il secondo uscì, coi tipi del Macmillan, alla luce nel giugno 1917), l’opera dello Smart terrà un gran posto nella letteratura storico – economica e dovrà essere citata come classica da quanti si occuperanno della storia di quel periodo interessantissimo e fecondo, che volge dal 1801 al 1830.
Riformatore sociale nel primo periodo della sua vita intellettuale, del tipo religioso e morale dei Carlyle, dei Ruskin e dei Caird – economista psicologo, alla maniera degli austriaci e dei marshalliani, in un secondo periodo – ritornò nel terzo ed ultimo periodo della sua vita all’interessamento vivo per le questioni del lavoro, quando i lavori della commissione sulle leggi dei poveri lo rimisero in contatto con le miserie dei disoccupati e dei componenti il residuo sociale. «Gli Studies in Economics, – come nota efficacemente lo Jones, – col loro apprezzamento etico della situazione economica, sono le espressioni caratteristiche del primo periodo; la più strettamente teorica Distribution of Income del secondo; ed i Second Thoughts del terzo periodo, ed in essi lo slancio morale del primo periodo e le conoscenze teoriche del secondo sono fuse in un giudizio maturo e deciso sulle tendenze fondamentali della nostra civiltà industriale». «Lo Smart – aggiunge il suo biografo, che lo conosceva intimamente – era un uomo di una grandissima laboriosità e di abilità non ordinarie. Egli non possedeva la maniera audace e fiduciosa dei pensatori ed insegnanti i quali fanno discepoli e fondano scuole. Egli non parlava mai come un perito il quale godesse autorità, ma sempre come un semplice scolaro. Non pensava rapidamente e perciò non amava le discussioni. Amava rendere le idee complesse chiare alla sua mente, ripensandole a suo modo per iscritto. Ciò lo rese un buon insegnante, perché non tentò mai di spiegare ad altri ciò che egli stesso non era riuscito a comprendere. Egli dipinge se stesso quando in una delle sue prefazioni dice che l’economista si fa conoscere facilmente come colui che pone domande e pronuncia giudizi sulle questioni del lavoro molto tempo dopo che esse si sono risolute. Non vi è traccia in lui del dogmatismo dell’economista di cento anni fa. La sua umiltà e la sua sincerità risplendevano in tutte le sue lezioni come in tutti i suoi libri».
Le «confessioni di un economista» traggono la loro origine, a parer mio, dal confronto che lo Smart fu indotto a fare tra la vita di industriale condotta dal 1870 al 1884 e quella di insegnante universitario da lui intrapresa pochi anni dopo. Quest’ultima dovette parergli così grandemente superiore alla prima che involontariamente egli finì di chiedersi: perché?
Della profonda gioia con la quale egli viveva e sentiva la missione dell’insegnamento universitario si leggono numerose testimonianze nel libro. Volendo citare un tipo delle classi superiori ed agiate egli ricorda spontaneamente il caso suo (pag. 35): «Supponete, ad esempio, di essere un favorito della fortuna, un professore di università in Iscozia. In tal caso voi conducete, in verità, una vita assai fine. Voi avete una buona posizione sociale che non vi siete guadagnata con appoggi, bensì con l’intelligenza. Voi avete dinanzi a voi più lavoro – lavoro simpatico – lavoro felice – di quanto voi riusciate mai a compiere, anche se voi limitaste le vostre ore di sonno a sei ed il vostro divertimento ad una partita al giuoco del calcio al sabato». Ed altrove (pag. 85): «Pensate ad un mestiere, il mestiere che conosco meglio, quello dell’insegnante, di quasi ogni categoria, perché l’insegnare è la più sacra delle professioni e quasi altrettanto sacra e piena di responsabilità in una scuola elementare come in una università. Un insegnante, io dico, qualunque sia il suo grado, vive dal mattino a sera. Egli impara sempre. Ogni giorno è un poco più ricco di nozioni intellettuali. Ogni giorno disciplina meglio se stesso. Egli pensa degli e per gli altri. Tutta la sua mente e il suo cuore sono col suo lavoro. Anche gli insuccessi gli tornano utili. In una parola: egli deve compiere per la società un lavoro che tiene in esercizio tutte le sue energie. In guiderdone ed in prova di ciò egli è un uomo felice. Quando egli abbia mezzi sufficienti per fornire a sé ed al suo piccolo gruppo famigliare una alimentazione sana, vestiti decorosi ed una casa comoda e per provvedere alle spese necessarie del suo lavoro, che cosa potrebbe offrirgli di più la vita? Senza dubbio, egli potrebbe spender di più e spenderlo altrettanto bene; ma non è questo il punto. Io dico, senza esitazione, che egli possiede le cose essenziali per condurre una vita finita, una vita fine. E qual è il fattore essenziale di questa felicità? Di nuovo senza esitazione, io dico che è il suo lavoro. Nessuno creda che non si tratti di una vita dura. Probabilmente le ore di lavoro sono più lunghe che in qualunque mestiere manuale. Molto del suo lavoro, moltissimo, è monotono e perciò penoso. Ma ha sempre un fine da raggiungere, una meta che a sua volta è solo il punto di partenza per altro lavoro, per altri arricchimenti intellettuali, per altre conquiste».
Lo Smart fu dunque supremamente felice di essere professore e non ebbe mai ambizioni fuori della sua cattedra. Con 600 lire sterline all’anno (15.000 lire italiane) e sei mesi di vacanze, con una scienza in formazione e con molti studenti, che cosa dovrebbe desiderare di più un insegnante? «Quando io paragono il campo dei miei studi con quello di quasi ogni altra scienza, io ogni giorno ringrazio Iddio di avermi fatto diventare un economista. Vi è in questo campo un passato più profondo da scavare, un presente più ricco da comprendere ed un futuro più grande da preparare di quanto abbiano tutti i nostri colleghi» (pag. XXXI).
Il suo non era un compiacimento egoistico. La bellezza della sua vita lo spinse a riflettere sulle condizioni e sui mali della vita altrui, della vita delle masse; e dal confronto nacque l’idea fondamentale delle sue «confessioni». Il problema economico, il problema sociale principe dell’epoca presente non è un problema di produzione, non è un problema di distribuzione della ricchezza, ma è il problema di rendere il lavoro degno di essere vissuto, di identificare nel lavoro lo scopo della vita. Smart richiama l’autore della sua giovinezza, Ruskin, il quale diceva: «Non vi è altra ricchezza che la vita». Ed una vecchia proposizione teologica: «Quale vantaggio l’uomo ritrae dal conquistare il mondo intiero se egli perde la sua anima?», che Smart traduce in linguaggio moderno: «Quale vantaggio ritrae l’uomo dall’accumulare ricchezza sufficiente per soddisfare ogni bisogno, se nell’arricchire egli smarrisce la meta della sua vita?». L’uomo cioè, secondo lo Smart, «può sapere che cosa sia la vita fine, la vita bella soltanto in quelle occupazioni in cui la cosa da lui fatta od il servizio reso, e non la mera remunerazione che ne ottiene, sono la meta e lo scopo consapevole del suo lavoro» (pag. 91).
Il problema principe non è quello di produrre maggior copia di ricchezza. L’Inghilterra moderna, con i suoi 50 miliardi di reddito annuo, produce abbastanza ricchezza per soddisfare i bisogni veramente essenziali alla vita di tutti i suoi 45 milioni di abitanti. Neppure è, fondamentalmente, un problema di distribuzione. In confronto a cent’anni fa le masse inglesi stanno oggi due volte meglio. «Nemmeno durante le peggiori depressioni economiche moderne si vide nulla di simile all’atroce miseria, ad esempio, del 1841-1842. Dire che i ricchi diventano sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri, è pura rettorica ed è rettorica perniciosa» (pag. 30).
Il problema vero è di ottenere che tutti gli uomini riescano a condurre una vita simigliante a quella che oggi è il privilegio degli insegnanti, dei professionisti, dei funzionari pubblici. Smart parla di public servants e sembra identificarli con quelli che hanno funzioni direttive, sia elettive che burocratiche, nella vita pubblica – di tutti coloro i quali hanno uno scopo nella vita. «La realtà – diceva ancora Ruskin (pag. 88) – non è il reddito e neppure l’uso che si fa del reddito; la realtà è la vita che noi conduciamo nel produrre il reddito».
Purtroppo, agli occhi dello Smart, le condizioni della vita economica odierna e le previsioni che si possono fare per l’avvenire non giustificano la speranza che le grandi masse umane possano raggiungere siffatta meta ideale.
Non vi è speranza per i lavoratori manuali che la macchina sostituisce. Se oggi non si adattano e non diventano servitori della macchina, i loro salari sono destinati a ribassare sempre più ed a rendere le condizioni loro di vita sempre peggiori.
Non vi è speranza per i lavoratori «ordinari» buoni a trasportare pesi, a condurre carri, a far lavoro da terrazzieri e da badilanti. La macchina, anche qui, tende a sostituirli ed a ridurne il valore di mercato; sicché da questa e dalla precedente classe si alimentano i disoccupati, i poveri, i reietti dell’alcoolismo e dell’imprevidenza.
Non vi è speranza per i lavoratori che attendono alla sorveglianza delle macchine. Sono i più ed in parte godono di una situazione economica buona e che diventa sempre migliore. A mano a mano che si diffonde l’istruzione, diventa maggiore il numero degli uomini scelti, dei picked men che vendono abilità ed attitudini personali apprezzate e ben pagate. Ma neppure per essi vi è speranza di condurre una vita degna (pag. 96): «Dal mattino presto, quando gli altri dormono ancora, a tarda sera, essi devono lavorare in una fabbrica, lavorare per un imprenditore che essi conoscono solo come “colui che li paga”; fare un lavoro faticoso, talvolta penoso, sempre penoso quando è lungo, lavoro ad alta pressione. E tutto ciò per un salario che è bastevole appena a sostenerli fisicamente. La loro vita non sta nel loro lavoro. Essi vivono solo quando tornano a casa a prendere il tè ed hanno tempo per fare un po’ di chiasso con i bambini ed una passeggiata nelle strade, fino al cinematografo. Dopo viene il sonno, necessario desiderato sonno, fecondo di oblio; finché la sirena a vapore, alle cinque e mezza del mattino, li sveglia per un’altra giornata della stessa fatica. Questa è la loro vita; salvoché nel pomeriggio del sabato e nella domenica, spesso, io penso, la giornata più stracca della settimana, in città».
Col tempo i milioni di operai di nuovo staranno meglio dei milioni d’oggi; forse la loro sorte migliorerà del doppio, come accade oggi in confronto a cent’anni fa. Col crescere della produttività delle macchine, le ore di lavoro scemeranno sempre più; e poiché non si può dare al lavoratore di meglio, si riuscirà a concedergli una giornata di lavoro tanto breve da potersi ricreare nelle ore di riposo. Ma (pag. 97) «io vedo pochissima probabilità di un mutamento nel lavoro. Sarà sempre un sorvegliare monotono e non creativo delle macchine. Solo la dura necessità od un ideale più alto può indurre l’uomo a lavorare in tal guisa… E poiché l’uomo agli altri uomini non chiede tanto un salario più alto quanto un lavoro che di lui faccia un uomo, è chiaro che la futura evoluzione della vita economica, se compiuta nella stessa direzione che in passato, ci riserba pochissime speranze di una vita creatrice, libera, felice per tutti». QuaIunque sia la soluzione che si voglia dare al problema della vita – la soluzione religiosa, per cui la vita è una preparazione per l’al di là, ovvero la soluzione puramente umana per cui la vita è fine a se stessa e deve essere giudicata dalla sua condotta e dagli scopi ottenuti – la vita è destinata purtroppo ad essere, per la grande maggioranza degli uomini, un insuccesso.
Reconstruction è intitolata la parte seconda delle «confessioni» dell’economista scozzese. Non «distruzione», come quella che vi è pericolo si verifichi se si lascia ingigantire la lotta fra istruiti ed ignoranti, ricchi e poveri, egoisti ed altruisti per impadronirsi della ricchezza. Poiché le possibilità della società economica attuale, sia rispetto alla produzione che alla distribuzione, sono grandi, quasi illimitate, l’opera di quelli che sono già giunti in vista della «visione celestiale» deve essere diretta a realizzare per ogni essere umano «la vita fine che alcuni pochi conoscono e vivono». Non è chiedere troppo alla vita desiderare che la condizione dell’uomo nel ventesimo secolo sostenga vantaggiosamente il confronto con quella dei suoi fratelli animali. Non ha forse l’animale un diritto innato ad un lavoro gioioso? egli non chiede salario ma lavoro. Non è forse l’esistenza di ogni essere selvaggio vivente sulla terra o nell’aria un’esistenza di continuo esercizio? Essi lavorano, vivono, perché vi sono costretti. Nessuno dà loro il cibo, se essi medesimi non se lo procurano; non posseggono capitali a cui attingere; non hanno ospizi presso cui cercare ricovero quando cadono ammalati o diventano vecchi. Ma durante il corso della loro vita, essi godono della più gloriosa salute. La morte giunge, senza che essi ne abbiano spavento. Essi godono intimamente il gioco di vivere; sono, come noi diciamo, felici» (pag. 107).
Lo Smart non ha grandi pretese quando cerca i mezzi per dare agli uomini un po’ di questa gioia di vivere. Poiché la vita economica si riduce a «guadagnarsi il pane comprando dagli altri ciò che altri ha da vendere e vendendo agli altri ciò che essi desiderano comprare»; egli si contenta di chiedere che gli uomini comprino e vendano proponendosi consapevolmente uno scopo. Da una inconsapevole cooperazione di vicendevoli servizi, la vita economica deve trasformarsi in una cooperazione consapevole. Nulla di più è necessario per far sì che la fatica diventi una gioia, il lavoro noioso e non interessante una missione simile a quella dell’insegnante, del professionista, del pastore d’anime, dell’uomo pubblico.
In primo luogo deve essere resa consapevole, lo Smart dice «responsabile», l’azione del compratore. Oggi si compra ciò che si vede esposto in vendita, ciò che tutti comprano, ciò che la moda e l’abitudine impongono. Se viene un rovescio di fortuna, se la guerra costringe l’agiato od il ricco a fare economia, egli scopre (pagg. 133-35) «che i piatti usualmente portati in tavola sono quattro volte più abbondanti del necessario; e quantunque gli si assicuri che tutto l’avanzo è utilizzato in cucina, dubita fortemente che i suoi domestici mangino sul serio il pesce freddo, le patate fredde, il pasticcio freddo, e bevano il tè freddo, o l’acqua Apollinaris nella bottiglia sturata. La sua attenzione è attirata dal carbone che brucia nel caminetto per riscaldare le stanze vuote durante la notte. Reso curioso di queste scoperte, egli rovista i libri dei conti, scopre che potrebbe con metà spesa vivere altrettanto bene e rende stupefatta e seccata la moglie suggerendole di guardare a fondo nelle spese. La signora pazientemente gli fa osservare che tutte queste piccole economie darebbero maggior disturbo a lei ed ai figli che vantaggio a lui e gli fa cenno della convenienza di rovistare dentro al suo taccuino delle spese personali. L’abbonamento al club, ad esempio; quando fu l’ultima volta che vi mise i piedi? C’è proprio bisogno di pagar le quote per tre abbonamenti al golf? Quella tale edizione di lusso del suo poeta favorito gli era davvero indispensabile per lavorare?». Prima che egli abbia fatto molto cammino su questa via, egli naturalmente scopre che i capitoli grossi del suo bilancio di spesa sono precisamente quelli che egli non può ridurre: quelli dovuti al feticcio che egli adora, alla posizione che egli gode nella vita. Egli si accorge che un andamento di casa largo pesa fortemente sulla vita e sulla felicità di sua moglie. Ma, se anche desiderasse di ritornare ad una camera ed una cucina, non «può far ciarlare la gente». Forti somme se ne vanno in ispese che potrebbero essere risparmiate, quando egli avesse il coraggio di dire: «non posso sostenerle». Per non avere questo coraggio, egli a furia di piccole economie infastidisce se stesso e la famiglia; e lo spreco grosso continua. Finalmente però egli ha veduto che cosa vuol dire la parola spreco.
Egli ha qualche scrupolo morale quando pensa a mettere un po’ di freno alle sue spese. Certamente è inutile far l’elemosina, quando lo spreco è già avvenuto. Un vestito da ballo, che è stato portato una notte, serve a poco alla povera donna che soffre di reumatismi; ed il licenziamento del povero giardiniere non giova a raggiungere alcun fine più elevato. Il vero momento di reprimere lo spreco si ha prima di spendere, si ha quando il reddito ha ancora la forma di denaro in tasca e può prendere qualsiasi direzione meglio piaccia al possessore. Vi è forse un uomo, il quale avendo deliberato di ridurre la sua spesa di 1.000 lire, non sappia come spenderle a beneficio altrui, senza recar danno ai beneficati col pauperizzarli? Non hanno tutti una volta pensato: «se il signor Carnegie volesse seguire i miei consigli!»; volendo dire che essi ben conoscono le persone a cui vantaggio essere larghi sarebbe un bene e non un danno? Alla peggio, se proprio non si ha alcuna idea, si porti il denaro alla cassa di risparmio od alla banca. Penserà necessariamente questa ad impiegarlo nell’industria o nel commercio, contribuendo ad abbassare il costo del capitale. «Ora che la guerra ha distrutto tanti milioni di capitale e rialzato il tasso dell’interesse per tanti anni, l’uomo che risparmia non è di nuovo, secondo l’antica concezione, un benefattore pubblico ?».
Un secondo scrupolo è più serio: la paura di condannar alla disoccupazione gli operai che producono le cose superflue che la sua coscienza gli ordina di non consumare più. Vi è qualcosa di vero nello scrupolo, misto a molta scoria. Se vi fosse dato ascolto, nessun mutamento nei gusti umani sarebbe mai stato possibile; né oggi potremmo augurarci la scomparsa dell’alcoolismo, perché ciò danneggerebbe i viticultori ed i fabbricanti di birra e di liquori. Bisognerebbe continuare la guerra solo per dar da fare ai generali ed ai soldati. Bisognerebbe avvelenare i pozzi per dar lavoro ai dottori ed agli infermieri. «Ciò non va, Hajji. Il vaiolo è sempre stato una buona fonte di reddito per me. Io non posso perderlo solo perché ad un infedele è piaciuto venire qui a trattarci come bestie. Non possiamo permettergli di portar via il pane di bocca a noi, Hajji Baba di Ispahan» (pag. 140). Del resto coloro che ascolteranno il vangelo dell’economista, osserva lo Smart, saranno pochi ed il loro numero crescerà lentamente. Non vi è alcun pericolo che di fatto la loro azione possa aumentare il numero dei disoccupati.
Ciò che si chiede al consumatore è poco: pensare alle conseguenze del suo consumo (pag. 135): «Pensare che il mondo è ancora povero, che ciò che egli spensieratamente butta via potrebbe mantenere in vita altri; che ciò che essi spendono in cose da nulla potrebbe soddisfare bisogni urgenti. Un uomo morale a stento riuscirebbe a chiudere occhio di notte se sapesse che il figlio suo trema di freddo all’aperto; non potrebbe godere il suo pranzo se occhi affamati lo guardassero spalancati attraverso la finestra. Date ad un uomo un nobile scopo nell’economizzare ed egli andrà più oltre di quanto sia necessario. Il lusso, diceva il vecchio mio maestro, può essere goduto solo dall’ignorante; l’uomo più crudele non potrebbe sedere a banchetto a meno che egli fosse accecato».
All’imprenditore, al datore di lavoro, lo Smart chiede altresì qualcosa. Egli non spera o crede ritornino i tempi nei quali i proprietari riconoscevano di essere affittavoli pro tempore dei loro fondi, usufruttuari a vita per una concessione di Dio onnipotente, obbligati a trasmettere le loro terre al susseguente affittavolo a vita nella stessa condizione in cui le avevano ricevute. Il proprietario dei vecchi tempi non era felice quando gli stracci dei suoi dipendenti erano per lui un muto rimprovero. L’industriale del secolo passato conosceva i suoi operai, non solo per il numero ed il nome, ma anche nelle loro case; era un dolore personale per lui doverli ridurre a mezza giornata, e generalmente lavorava per magazzino od a perdita piuttosto che licenziarli. Oggi i rapporti personali sono rotti, coll’avvento e col progresso della grande industria (pag. 148): «Un insegnante non potrebbe godere il suo lavoro giornaliero se il suo uditorio fosse composto di studenti svogliati e privi di interesse per ciò che egli dice. Invece colui che impiega migliaia di operai non trova dinanzi a sé alcuna scolaresca che gli sia di rimprovero. Necessariamente, egli delega la sovraintendenza agli amministratori ed ai sovrastanti, e si limita a sorvegliare questi». Anche l’operaio è oramai persuaso che non vi sia nulla da guadagnare a serbare rapporti personali coll’imprenditore. La predilezione da lui nudrita per ciò che egli chiama «Socialismo» e che si riduce a «lavoro fornito da un ufficio» è una prova della morte di ogni idea di questo genere nell’animo dei lavoratori.
Tuttavia, se i vecchi rapporti patriarcali o di patronato sono morti, se nessuno li può far rivivere, non è men vero che il capitale ha bisogno del lavoro e che il lavoro non può far senza del capitale. Essendo ognuno impotente senza dell’altro, ove non si voglia lasciar decidere il conflitto dalla forza, il futuro della società dipende dalla possibilità di risolverlo colla coscienza. Una grande responsabilità spetta agli imprenditori, a coloro che combinano insieme i fattori capitale e lavoro (pag. 153) «Personalmente io considero la professione dell’imprenditore come la più nobile di tutte, quantunque di regola non sia intrapresa per motivi nobili; ed io chiedo soltanto, precisamente questo e non più, che le tradizioni con cui sono esercitate le professioni siano trasmesse anche alla professione dell’imprenditore; il noblesse oblige di vivere per il lavoro compiuto e, se necessario, morire per esso. Se l’imprenditore ha fede nell’usata analogia dell’”esercito dell’industria”, egli deve essere convinto che i capitani dell’industria prima devono pensare al proprio paese ed ai proprii operai, e solo in secondo luogo alla propria paga».
L’imprenditore moderno deve avere altri interessi, altre aspirazioni più larghe ed alte di quelle di ottenere soltanto un profitto. Egli deve considerare sé stesso come un conduttore di uomini, a cui deve assicurare lavoro e vita. Forse non si può ancora andare sino al punto di sicurezza e di continuità nel lavoro che è assicurata agli insegnanti universitari in Scozia, i quali sono nominati ad vitam aut culpam. L’esercito del lavoro non ha redditi di fondazioni, non ha imposte a cui attingere. Giorno per giorno imprenditori, capitalisti ed operai debbono guadagnare il proprio profitto, interesse o salario producendo qualcosa che sia desiderato dalla collettività.
Tuttavia, mentre organizzano l’industrie per produrre cose utili, gli imprenditori debbono sempre più considerare il benessere dei lavoratori come egualmente importante del benessere del pubblico. Se l’imprenditore fornisce al pubblico merci che sono buone, deve fornire al lavoratore una vita degna di essere vissuta.
«Chiedendo questo, io chiedo all’imprenditore di considerarsi come un servitore della comunità, come un professionista. Precisamente, e perché no? Una squadra di alcune centinaia di lavoratori o di lavoratrici non è forse una clientela più numerosa di quella servita da qualsiasi dottore, od insegnante o ministro del culto? Se il paese può ottenere il servizio dei migliori ingegni in cambio di un onorario professionale, perché non può chiedere lo stesso all’imprenditore?» (pag. 171).
Ciò che lo Smart chiede, un gruppo di industriali moderni si sforza da tempo di fare in Inghilterra. Dal 1820 al 1830 lo stabilimento di New Lanark condotto da Roberto Owen collo scopo di ottenere sovratutto il benessere degli operai, fu un esempio per tutti. In un tempo in cui gli industriali sfruttavano il lavoro dei fanciulli, in cui la legislazione sulle fabbriche era vivamente contrastata, New Lanark fu un grande successo, anche finanziario. Oggi gli stabilimenti condotti da industriali che si chiamano Cadbury, Rowntree, Lever, i quali non hanno timore di applicare quello che essi chiamano Welfare Work – lavoro per il benessere – sono redditizi e prosperi. Che regola seguono questi imprenditori moderni?
- «Assumere in servizio soltanto gli aspiranti iscritti alla locale borsa del lavoro, e richiedere che essi abbiano compiuto qualche studio;
- «Dare agli operai ogni agevolezza e talvolta costringerli a seguire i corsi di scuole complementari e tecniche, sia durante le ore di lavoro che dopo, collaborando a tal uopo con le autorità scolastiche;
- «Assumere gli operai in servizio solo dopo che i soci e talvolta persino, cosa più strana, persone estranee alla ditta, abbiano potuto intrattenersi personalmente con essi;
- «Assicurare loro praticamente continuità di impiego finché essi adempiono il loro dovere, sospenderli piuttostoché licenziarli e licenziarli solo dopo la più seria riflessione;
- «Determinare i tassi dei salari a tempo ed a cottimo secondo regole comunicate agli operai e rivedute dai loro proprii rappresentanti;
- «Pensionarli in una età relativamente buona dopo un certo numero di anni di servizio;
- «Introdurre una settimana di lavoro breve ed un lun go riposo notturno, concedere giorni festivi, eliminare quasi intieramente, col lavorare per il magazzino, le ore supplementari e l’orario ridotto;
- «Incitare gli operai, con opportuni premi, a suggerire perfezionamenti
tecnici o di organizzazione del lavoro;
- «Stipendiare dottori, dentisti addetti intieramente agli stabilimenti; impiantare sale di ambulanze e di chirurgia;
- «Impiegare “lavoratrici sociali” professioniste, ossia donne specialmente istruite per consigliare le operaie, riferire sui loro bisogni, seguirle nelle loro case, assisterle durante le malattie, stimolare ed avvertire gli inerti, cercare se non vi sia un altro lavoro più adatto alle loro attitudini;
- «Costringere gli operai ad un tirocinio e ad esercizi fisici, incoraggiare i circoli ricreativi, provvedere ristoranti con pasti a prezzi di costo, librerie, bagni di ogni specie, terreni da ricreazione, palestre ginnastiche, giardini, appezzamenti di terreno per orto, case a buon mercato, case di convalescenza, ecc., ecc. – attuare, quando le circostanze lo consentano, l’idea della in fabbrica posta in mezzo ad un giardino e rendere l’ambiente, in cui gli operai spendono cinquanta ore nella settimana, piacevole, sano ed eccitante» (pagg. 123-125).
Nel far ciò, gli imprenditori del gruppo del «Welfare Work» non si atteggiano a patroni degli operai. Insistendo sull’istruzione e sul tirocinio, sull’adattamento alle singole attitudini, curandosi della salute fisica, diminuendo le ore di lavoro, essi hanno visto che aumentano la produzione od almeno riescono ad impedirne la diminuzione col ricorrere a macchine migliori e ad una organizzazione del lavoro più perfetta. Essi pagano il tasso dei salari convenuto con le leghe operaie, e discutono con queste tutte le variazioni sui tassi del cottimo, volendo che gli operai non abbiano alcun sospetto sugli scopi per cui essi propongono di variare le basi dei cottimi. Sovratutto essi hanno compreso di dover fare ogni sforzo per garantire agli operai continuità di impiego e reputano il licenziamento di un operaio di una responsabilità troppo grande per essere affidata ad altri.
Il nuovo sistema «paga», come dicono gli anglosassoni, perché, riconosce candidamente lo Smart, se esso non facesse le sue spese, vi sarebbe poca speranza di vederlo adottato su ampia scala.
Teoricamente, egli risponde, dovrebbe pagare, perché si tratta di spese in gran parte strettamente riproduttive (pag. 176):
1) «Il sistema adottato con il fattore umano della produzione è lo stesso che si applica alle macchine: metterlo nelle condizioni soggettive ed oggettive necessarie per conservarlo in istato di lavorare. Da un lato, è impossibile ottenere il lavoro meglio fatto da un operaio denutrito, anemico, disattento. Se ancora non si riesce a trasformare il lavoro in gioco, si tenti di concedere all’operaio il più possibile tempo e comodità per divertirsi. Dall’altro canto, al meno nella grande industria, la quale offre modo a così grande varietà di occupazioni, il costo di produzione può essere ridotto trovando per ogni operaio il genere di lavoro per cui è più adatto, e, laddove non vi sono contrasti all’introduzione del macchinario, dandogli da collaborare con istrumenti in cui la sua abilità è più redditizia.
2) «Si ristabiliscano le antiche relazioni umane fra le due classi, con effetti più larghi di quelli puramente immediati. È appena appena concepibile che coloro i quali si trovano in contatto quotidiano con i Caldbury, i Rowntree ed i Lever, per ricordare solo alcuni pochi nomi, possano considerare il capitale come un nemico o pensare che il primo dovere dell’operaio è di “lottare con il principale”. Date queste relazioni, è poco o niente probabile che scioperi interrompano la continuità del lavoro, la quale è così importante quando le spese generali fisse dell’industria sono gravi.
3) «Si pongano le basi per quella che io ritengo condizione essenziale della pace sociale, ossia che gli operai abbiano una qualche conoscenza delle difficoltà dell’opera dell’imprenditore. L’idea che i prezzi, la vendita, l’economia, la concorrenza sono argomenti di cui l’operaio non si deve occupare, che i salari sono pagati da qualche fondo privato di cui gli imprenditori dispongono, invece di essere il compenso di ciò che essi stessi contribuiscono a dare alla borsa comune, quest’idea sparirebbe se gli imprenditori riponessero un po’ più di fiducia negli operai».
La riuscita dell’esperimento non è puramente teorica. Le ditte, le quali hanno dato l’esempio della nuova condotta verso gli operai, sono ditte le quali hanno raggiunto il successo economico; sia che il successo si giudichi dalla qualità o dal prezzo delle loro merci o dal loro costante sviluppo o dai loro dividendi. Né si tratta di industrie monopolistiche, per cui si possa sospettare che esse carichino sul pubblico, con aumenti di prezzo, i maggiori costi della loro politica operaia; bensì di imprese la cui solidità è posta alla prova della più vivace concorrenza, sia all’interno che all’estero. Come ha osservato acutamente il professore Ashley, la notorietà del fatto che si tratta di merci fabbricate in condizioni simili è uno splendido richiamo per l’articolo.
Lo Smart, a raggiungere meglio lo scopo di dare al lavoratore un maggior interesse nel lavoro compiuto, sarebbe tentato persino di ritornare a qualche schema di partecipazione ai profitti. Malgrado i suoi insuccessi, dovuti sovratutto al fatto delle «perdite», ogni tanto inevitabili nell’impresa, a cui l’operaio ritiene ingiusto doversi sottomettere, perché non ne vede il rapporto con il suo cresciuto zelo nel lavoro ed alla difficoltà di proporzionare la partecipazione alla diligenza diversa degli operai singoli, vale la pena di ritentare l’esperimento.
«Gli imprenditori desiderosi di creare una vita per i loro operai, considerino se la partecipazione ai profitti non introduca nella fabbrica l’elemento così penosamente mancante nella maggior parte dei casi, dando all’operaio un interesse, una speranza ed uno stimolo nella sua vita di lavoro, al di fuori ed al disopra del compenso del lavoro! Non siamo noi d’accordo nel ritenere che la vita di un imprenditore offre modo, nella guisa più ampia, di rendere il proprio lavoro una professione? Dando all’operaio una qualche partecipazione nella stessa vita, non facciamo noi il meglio che possiamo per lui?» (pag. 189).
Il problema che lo Smart si propone non è tutto il problema sociale; né l’ideale della vita che trova la sua gioia e la sua ragion d’essere nel lavoro è l’unico ideale che si possono proporre gli uomini. Ma quello è senza dubbio uno degli aspetti più profondi e reali del problema sociale; e se gli uomini potessero, anche solo in parte, raggiungere la meta da lui indicata, la vita sarebbe per essi assai più bella di quanto non sia. Le pagine delle «confessioni di un economista» meritavano di essere riassunte per far vedere in qual modo largo ed umano un economista, innamorato della sua scienza, concepisse sin da prima della guerra l’essenza della questione economica e sociale contemporanea. Le riflessioni dello Smart non sono invero le riflessioni di chi fu un tempo economista e vide in seguito l’errore del suo pensiero. No; sono le riflessioni di chi entrò nella scienza attraverso la predicazione di un avversario della scienza economica, e, studiando, si persuase che nemici suoi possono essere solo quelli che non hanno voluto o potuto conoscerla a fondo.
Sarebbe un errore invero credere che la simpatia ardente verso gli altri uomini, lo sforzo di elevarli sino alla nobiltà di vita di cui lo scienziato si allieta, il senso dell’al di là delle considerazioni puramente materiali, di salari e di profitti, la persuasione che se la scienza economica è in se stessa una cosa bella, per il suo tecnicismo perfezionato, in confronto alle altre scienze morali, è altresì bella perché i suoi problemi sono nel loro perché gli stessi problemi che assillano il giurista, il filosofo, il moralista, il politico – sarebbe un errore credere che questo atteggiamento spirituale sia una singolarità dello Smart. No. Esso è una tradizione antica della scienza economica, specialmente inglese. Non a caso uno dei maggiori economisti inglesi viventi, il professor Nicholson, a chiusa di un suo libro, scrive un capitolo sui rapporti fra l’economia politica e la moralità ed il cristianesimo. Non a caso il più grande economista inglese della generazione presente, Alfredo Marshall, scrive su «la cavalleria economica» e spiega quanto la figura del moderno imprenditore, del capitano dell’industria si avvicini a quella del cavaliere del medioevo. Non è un caso se si ricorda che il padre della nostra scienza, Adamo Smith, venne all’economia dalla filosofia morale ed espresse in modo lapidario il principio che l’interesse economico è subordinato ai più alti interessi umani con la celebre frase: «Defence is of more importance than opulence» – «Per una nazione importa più essere indipendente che ricca». Nulla di più lontano dallo spirito degli economisti del materialismo storico od economico e delle spiegazioni economiche dei fatti e della storia. Essi, od astraggono, come Ricardo, tutto intento a porre i problemi economici puri ed a risolverli logicamente, dagli altri aspetti della vita; o sono propensi a subordinare il fatto ed il problema economico, che, come è loro compito, investigano severamente e seriamente, ai fatti ed ai problemi morali.
Oggi, a cagion d’esempio, quando investigano le conseguenze «economiche» della guerra, quasi si scusano di trattare il problema: tutti, da Edgeworth a Scott, da Scott a Pigou, avvertono prima che il costo economico o finanziario o materiale è un nulla, è secondario in confronto al costo «umano» di vite distrutte o guaste. E se parlano di vantaggi economici, che possono essere conseguenza della guerra o di risultati economici che la guerra, volontariamente od inconsapevolmente, ci farà ottenere, ne parlano dopo avere avvertito che i risultati e gli scopi della guerra sono e devono essere sopratutto politici ed ideali, anzi quelli voluti non possono essere altri. Il triste vanto di aver concepito la guerra come uno sforzo condotto per ottenere vantaggi economici o come lo strumento per raggiungere risultati di arricchimento a danno di altri popoli, noi lo lasciamo volentieri ai denigratori della scienza economica, a coloro che ci accusano di essere dei fabbricatori di astrazioni, forse perché noi vogliamo guardare in faccia tutta la realtà, e vogliamo vedere i rapporti fra la realtà economica e quella politica e quella morale, analizzandole tutte separatamente, per meglio vederne i nessi e meglio ricomporne l’unità, mentre essi si tengono stretti, per non fare astrazioni, ad una sola realtà, quella più bassa e volgare, la realtà del profittare di ogni momento e di ogni circostanza, anche dell’avvenimento più solenne dei tempi moderni, della guerra, per crescere furtivamente i proprii guadagni.
Abbandoniamo i rettili alla loro miseria morale ed alla loro oscurità intellettuale, ed ascoltiamo la parola con cui il discepolo più innovatore di Alfredo Marshall, il continuatore della gloriosa tradizione di Cambridge, il professore A. C. Pigou, spiega l’atteggiamento spirituale nel tempo stesso umile ed entusiasta, e giustifica la compilazione delle analisi e dei ragionamenti con cui gli economisti cercano di avvicinarsi alla soluzione dei problemi sociali. Nella conclusione del suo Wealth and Welfare, il tentativo senza forse più profondo uscito negli ultimi anni per analizzare i rapporti fra ricchezza e benessere, il Pigou scrive (pag. 487): «É un errore popolare ritenere che, mentre la scienza economica è in se stessa difficile, la discussione dei problemi pratici, in cui le forze economiche hanno una parte importante, possa essere intrapresa con sicurezza senza una preparazione speciale. Nulla giustifica una siffatta opinione. Lo studio della teoria economica è in verità difficile; ma l’applicazione delle conoscenze ottenute con tale studio alla soluzione dei problemi pratici è un compito ancora più arduo; perché essa richiede, non soltanto una compiuta comprensione della teoria, bensì anche un raziocinio sperimentato che possa bilanciare, l’una contro l’altra, numerosissime considerazioni limitatrici. Ciò sarebbe vero anche se la vita umana fosse tale che benessere economico e benessere in generale fossero sinonimi. In realtà, invece, l’uomo non vive di solo pane; epperciò, quando valuta le probabili conseguenze economiche della sua azione, il riformatore deve, nel suo ardore di procacciare un beneficio economico, ben guardarsi dal sacrificare inavvertitamente qualche bene più alto e sfuggevole. Il raziocinio capace di far ciò non è il privilegio innato dei dilettanti non esercitati allo studio. Il libro dell’arte di governo non è e non sarà mai un libro che possa essere letto da coloro che corrono velocemente attraverso le pagine… Tuttavia il compito pratico a cui l’economista può avere l’ambizione di dedicarsi, è un compito, arduo bensì, ma anche grande. Le complicate analisi, che essi si sforzano di elaborare, sono strumenti per migliorare la vita umana. La miseria e lo squallore che ci circondano, il lusso ingiurioso di alcune famiglie ricche, la terribile incertezza che gitta un’ombra triste su molte famiglie povere, questi sono pericoli troppo evidenti per poter essere ignorati. Sia che la vita dell’uomo finisca con la sua morte fisica, ovvero sia destinata ad attraversare illesa la porta dell’eternità, il bene ed il male che egli qui sperimenta sono realtà; ed è un dovere impellente crescere l’uno e scemare l’altra. Sarebbe agevole, volendo, prendere le difficoltà dell’impresa a scusa del lasciarla intentata. Ma le difficoltà che allontanano i deboli sono lo stimolo ed il pungolo dei forti. Spiegarle e non nasconderle è il mezzo per raccogliere degne reclute. Le sommità delle alte montagne non sono toccate dai timorosi che guardano da lontano né dal selvaggio impeto degli ardimentosi indisciplinati. Prima noi dobbiamo comprendere la nostra missione e prepararci ad essa; dopo, nello splendore del sole nascente, riusciremo forse, con lo sforzo concorde di tutti, a compierla».
Guglielmo Smart apparteneva alla schiera degli economisti i quali concepiscono la vita come uno sforzo continuo per raggiungere la verità e come una missione religiosa per rivolgere la verità conosciuta a servizio degli altri uomini. La pagina di Pigou, così classicamente superba, raffigura in modo scultorio le difficoltà e le attrattive della missione che, una generazione dopo l’altra, schiere di studiosi, grandi e modesti, maestri e discepoli hanno tentato e tentano di assolvere. Lo Smart non fu uno dei maestri; ma, come l’opera sua di storico scrupolosissimo non morrà, così le sue confessioni saranno per lunghi anni ricordate per l’insistenza con cui egli ha chiamato l’attenzione sulla massima ruskiniana: «The real thing is not the income, or even the use of it, but the life we lead in the making of it. – La vera realtà non è il reddito e neppure l’uso che ne facciamo; è la vita che noi conduciamo nel produrre il reddito». In questa massima non sta tutto il problema del benessere; ma il problema del benessere non può ritenersi risoluto se non si rende bello, attraente e consapevole il lavoro con cui sosteniamo la nostra vita.
[1] Ora è stato tradotto in italiano dal professor A. Garino Canina e pubblicato col titolo Il testamento spirituale di un economista, dall’editore G. Laterza e figli di Bari.