Opera Omnia Luigi Einaudi

La società delle nazioni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 28/12/1918

La società delle nazioni

«Corriere della Sera», 28 dicembre 1918[1]

Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari, 1920, pp. 143-156[2]

La guerra e l’unità europea, Edizioni di Comunità, Milano, 1948, pp. 23-33[3]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 603-610

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 964-971[4]

«Nord e Sud», XLVI, n. 5, Torino, 1999, pp. 134-140[5]

 

 

 

 

Anche in Italia, associazioni e congressi cercano di chiarire e diffondere l’idea, bandita dal presidente americano, della società delle nazioni. Affinché tuttavia quell’idea possa attuarsi e, attuata, dar frutti quali si propongono i suoi apostoli, uopo è che ne sia ben chiara la significazione e nitidamente siano esposti i risultati effettivi ai quali essa ci può recare. Vi è un metodo sicuro per saggiare la veracità delle adesioni che oggi si moltiplicano d’ogni parte all’idea della società delle nazioni, anche e forse sovratutto per opera di chi fino a ieri credeva alla invincibilità ed alla missione divina tedesca, ed oggi crede o finge di credere che la social democrazia tedesca, giunta a sostituire il suo stato imperiale, abbia il compito di rinnovare il tessuto sociale e politico dell’Europa: ed è di chiedere fino a qual segno i novissimi neofiti siano disposti a rinunciare al dogma della sovranità assoluta dello stato imperiale, democratico o proletario.

 

 

Fa d’uopo chiedere se essi credano che lo stato goda di una sovranità perfetta ovvero solo di una sovranità relativa, condizionata all’esistenza ed alla cooperazione di altri stati sovrani. Nelle pagine della sua Politica, Trietschke scrisse sarcasmi feroci contro le teorie di coloro i quali pretendevano che dopo il 1871 Baviera e Sassonia, Baden e Wurttemberg fossero ancora veri stati: vero stato essendo ai suoi occhi soltanto quello a cui spetta il diritto della pace e della guerra. L’appellativo “signore della guerra”, che davasi all’imperatore tedesco, significava appunto l’attributo sovrano che egli solo possedeva, a differenza di tutti gli altri principi confederati tedeschi, ed a somiglianza degli altri sovrani o presidenti di stati indipendenti, di dichiarare la guerra e di firmare la pace. Dal quale attributo discendono tutte le altre qualità dello stato sovrano e perfetto: di potere, esso solo, esigere ubbidienza assoluta dai suoi cittadini, far leve e riscuotere tributi, impartire giustizia, senza essere soggetto ad alcuna corte giudiziaria posta al disopra di sé; far leggi obbligatorie per tutti gli enti morali e le persone fisiche viventi entro la cerchia del territorio nazionale; negare la sovranità indipendente di qualsiasi corpo, come la chiesa, vivente entro il territorio suo; stipular trattati con altri stati sovrani e denunciarli.

 

 

Questo, in brevi parole, il dogma della sovranità dello stato, indipendente dagli altri stati, unità perfetta in se stesso, che si ammira nei trattati scolastici e si custodisce gelosamente, come la gemma più preziosa del patrimonio nazionale. Forse appunto perché esso è riuscito a penetrare, quasi inconsapevolmente, nel patrimonio spirituale degli uomini d’Europa, urge dimostrare che esso è in contrasto insanabile con l’idea della società delle nazioni. Poiché, se fu necessario sconfiggere il nemico, se assai ha giovato che l’augurio fatto in altra mia lettera affinché venisse cacciata la dinastia tedesca siasi così rapidamente avverato, sovra ogni altra cosa è necessario distruggere le idee da cui la guerra è stata originata. Tra le quali idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in se stessa è massimamente malefica.

 

 

In un popolo equilibrato e non fantasioso, come l’italiano, quel dogma può restringere forse la sua malefica virtù nel persuadere qualche cultore di diritto pubblico a compiere una costruzione elegante, che sarà imparata con stupefazione dagli studenti e battuta in breccia dallo estensore di una ancor più ardita ed elegante memoria accademica; potrà dare lo spunto, in occasioni solenni, a formarli rivendicazioni della dignità nazionale alla tribuna parlamentare. Ma qui non si ferma la virtù venefica del dogma della sovranità presso i popoli, che sovrani filosofi politici ed economisti hanno fatto persuasi della loro missione divina e rigeneratrice.

 

 

Le razze elette, come quella germanica era stata persuasa di essere dalla letteratura pangermanistica, adoperano quel dogma come uno strumento affilatissimo di conquista e di supremazia, la quale non può aver piena soddisfazione se non quando diventi mondiale. «Poiché – giova spesso seguire il filo del ragionamento che ancor non sappiamo se sia ben morto nello spirito dei nemici – se lo stato germanico doveva essere veramente, e non soltanto per forma, sovrano, doveva avere non la sola potestà, ma anche la capacità a far la guerra. Quindi fu necessità strappare alla Danimarca anche le province danesi dei ducati dello Schleswig – Holstein, affinché con sicurezza potesse costruirsi il canale dell’imperatore che permette alla flotta di passare dal mar Baltico al mare del nord. Fu necessario che Bismarck cedesse a Moltke, il quale nel 1871 volle, oltreché Strasburgo, pure Metz, vitale per la difesa della frontiera. Se fu perdonabile allora, per l’ignoranza tecnica del pregio dei giacimenti di minerali di ferro fosforoso, non impadronirsi del bacino di Briey, sarebbe stata oggi inescusabile la ripetizione del medesimo errore, il quale avrebbe lasciato la Germania fra qualche decennio o secolo priva dei mezzi di condurre la guerra. Chiusa nel mar Baltico, con la breve riva sul mare del nord soggetta a facili sbarramenti, la Germania non ha respiro; e la sua flotta non può uscire in alto mare. Anche la dominazione della costa belga e francese sino a Calais, e l’assorbimento dell’Olanda nell’impero, sono necessità assolute, ove si voglia che questo sia davvero sovrano e libero dalle sopraffazioni britanniche. Troppo è vicino il confine polacco al cuore della Germania, alla capitale, che è sede degli organi sovrani del paese. Nonché quindi restituire la Posnania, urge sottomettere al protettorato tedesco la Polonia russa e rivendicare le province baltiche, le cui classi dirigenti son tedesche e ben atte a trasformare, come già accadde dopo il 1000 nella Prussia occidentale, in germaniche le razze inferiori dei lettoni, estoni e lituani». Ma a questo punto il dogma della piena sovranità politica impone che tratti così estesi di territori non rimangano interclusi da territori di potenze straniere e separati dal mare caldo, navigabile in ogni stagione, che è condizione di vita libera in tempo di pace e di guerra. Quindi si conducano i protettorati tedeschi sovra la Finlandia e la Carelia sino alla costa murmana libera dai ghiacci e sovra la Ucraina sino al mar Nero.

 

 

Né qui si ferma la potenza diabolica dell’idea fissa della sovranità. La quale non può essere politicamente e militarmente se non è altresì economicamente. Lo stato commerciale chiuso non è soltanto una astrazione ideologica del filosofo Fichte. Deve diventare una realtà, se lo stato germanico deve essere veramente sovrano ed indipendente; se non deve rassegnarsi a vivere grazie alla tolleranza degli stati stranieri e principalmente dell’impero britannico. Non solo ferro, ma cotone e grano e rame e gomma elastica e le altre innumeri cose necessarie a condurre la guerra ed a vivere in pace, deve l’impero possedere entro i suoi confini. Come altrimenti potrebbe desso vivere di una vita piena e sicura come si addice ad uno stato sovrano?

 

 

Così, per via di deduzioni impeccabili, il dogma della sovranità aveva condotto i teorici tedeschi, i grandi politici ed economisti del secolo XIX, ad allargare via via il sogno della più grande Germania di Federico List del 1841 fino al disegno dell’Europa centrale del Naumann, sino alla supremazia sull’Austria, sui Balcani, sulla Turchia, infino allo sbocco sul golfo persico, senza che a questo punto potessero fermarsi le aspirazioni di predominio. La pazzia ragionante non ha confini alle sue logiche deduzioni. Sicurezza esige sicurezza. La Mesopotamia non è sicura senza il dominio della Persia e dell’Egitto. Né la Persia e l’Egitto si difendono efficacemente senza la dominazione dell’India e dell’Africa mediterranea e centrale. Sempre fa difetto, pur nel territorio ampliato, qualche materia prima, che si rintraccia soltanto in paesi più lontani: il riso o la seta, il nickel o il cobalto, il manganese o la juta. La sovranità piena ed assoluta si raggiunge solo col dominio del mondo: ed a questo sogno furono spinti, dalla logica ferrea della piena sovranità ed indipendenza, i popoli conquistatori di cui la storia racconta le gesta.

 

 

Il sogno di dominazione dei tedeschi è caduto; ma potrebbe risorgere sott’altra forma, inaspettata e mascherata, ove noi non distruggessimo nei cuori degli uomini le idee ed i sentimenti da cui esso trasse origine. Che altro è lo spirito di propaganda dei comunisti frenetici russi e dei socialisti tedeschi, se non la novella forma dell’idea che nessuno stato possa vivere se la sua potenza – ieri potenza di armi, domani dittatura del proletariato – non sia perfetta e non si estenda perciò a tutto l’orbe terracqueo? Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta, se si vuole che la società delle nazioni nasca vitale. Lo si può e lo si deve, perché esso è falso, irreale, parto della ragion ragionante. La verità è il vincolo, non la sovranità degli stati. La verità è l’indipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta.

 

 

Per mille segni manifestasi la verità che i popoli sono gli uni dagli altri dipendenti, che essi non sono sovrani assoluti ed arbitri, senza limite, delle proprie sorti, che essi non possono far prevalere la loro volontà senza riguardo alla volontà degli altri. Alla verità dell’idea nazionale «noi apparteniamo a noi stessi» bisogna accompagnare la verità della comunanza delle nazioni: «noi apparteniamo anche agli altri». Il motto «Deutschland uber alles», divenuto mortifero per l’interpretazione che ne diedero non i poeti che lo crearono, ma i filosofi che lo teorizzarono, conduce all’autocrazia universale; ma il motto «Sinn fein» – noi soli – che gli irlandesi hanno innalzato come grido di guerra contro la comunità britannica delle nazioni è l’antesignano dell’anarchia; ed i suoi frutti si vedono nello sminuzzamento della sovranità dei soviets russi, preda immancabile al cesarismo dell’avvenire. Lo stato isolato e sovrano, perché bastevole a se stesso, è una finzione dell’immaginazione; non può essere una realtà.

 

 

Come l’individuo isolato non visse mai, salvoché nei quadri idillici di una poetica età dell’oro, come l’uomo primitivo buono e pervertito dalla società fu un parto della fantasia di Rousseau; mentre invece vivono soltanto uomini uniti in società con altri uomini e soltanto l’uomo legato con vincoli strettissimi agli uomini può aspirare ad una vita veramente umana solo l’uomo – servo può diventare l’uomo – Dio; così non esistono stati perfettamente sovrani, ma, unicamente, stati servi gli uni degli altri; eguali ed indipendenti perché consapevoli che la loro vita medesima, che il loro perfezionamento sarebbe impossibile se essi non fossero pronti a prestarsi l’un l’altro servigio.

 

 

Come potrebbero gli uomini, come potrebbero gli stati vivere, senza retrocedere di millenni, senza ritornare a condizioni di miserabile barbarie, se ognuno di essi non chiedesse agli altri derrate alimentari, materie prime, servigi postali, telegrafici, telefonici, pronto a dare in cambio merci e servigi equivalenti? Come, in tanto fervore di progressi scientifici, si può immaginare per un istante una nazione concentrata unicamente nel perfezionare un suo esclusivo “genio nazionale”, senza che ben presto quella nazione vegga le altre, le quali serbarono i mutui rapporti di scambi intellettuali, precederla di gran tratto sulla via delle conoscenze?

 

 

In pace, tutti gli stati avevano diggià dovuto riconoscere limiti e vincoli numerosi alla loro sovranità assoluta; e che cosa sono le convenzioni postali, sanitarie, ferroviarie, sulla proprietà industriale ed intellettuale, sui marchi di fabbrica, se non rinunce alla sovranità piena ed assoluta dei singoli stati, se non abdicazioni sostanziali, seppure mascherate, dei parlamenti al diritto di legiferare a proprio piacimento entro i limiti del territorio statale? A brandelli era già stata fatta quella veste sontuosa di cui gli stati amavano adornarsi; ma la guerra ne ha strappato loro di dosso fin gli ultimi cenci.

 

 

Sappiamo tutti che cosa fossero divenute, per necessità ferrea di vita, le sovranità dell’Austria, della Bulgaria e della Turchia. Ma non riflettiamo abbastanza che anche la sovranità assoluta degli stati dell’intesa è divenuta, persino nell’apparenza, un ricordo di tempi trascorsi, per desiderio nostro, per comando dei popoli, persuasi che la vittoria stava nell’unità delle fronti economica, politica, militare. Se di qualcosa ci lamentiamo, si è di non essere proceduti abbastanza innanzi sulla via dell’abdicazione alla sovranità. Se i parlamenti si sono rapidamente trasformati in camere di registrazione, quella trasformazione, già iniziatasi del resto prima della guerra, fu imposta dalla necessità. Quando le materie soggette a discussione ed a deliberazione hanno carattere internazionale, non possono essere discusse e decise da parlamenti municipali. Sopra agli stati, divenuti piccoli, quasi grandi municipi, ed ai loro organi deliberanti, debbono formarsi, si sono già costituiti idealmente stati più ampi, organi di governo diversi da quelli normali. In Inghilterra accanto al consiglio di guerra britannico sorge il consiglio imperiale di guerra; nell’intesa si crea un comandante supremo degli eserciti; e si convocano conferenze dei primi ministri e dei segretari di stato agli esteri. Oggi Wilson parla da continente a continente, in nome del mondo intero sorto in arme contro un tentativo di sopraffazione mondiale, sgorgato dritto dal dogma della sovranità.

 

 

Già nel 1913 ben 135 congressi internazionali avevano discusso e taluno di essi, avendo carattere ufficiale, aveva regolato, con la riserva puramente formale della sanzione dei poteri deliberanti dei singoli stati cosidetti sovrani, materie internazionali. Ma quanto son cresciute quelle materie durante la guerra! Coloro che, invasati della mania ragionante della sovranità nazionale, avevano nei primi istanti della guerra farneticato di un inabissamento di tutti gli ideali rapporti fra nazioni, di un ritorno allo stato chiuso, ben dovettero ricredersi, poiché subito si vide che la nostra vita medesima, la nostra resistenza alla schiavitù straniera, le nostre vittorie dipendevano esclusivamente dalla nostra capacità a mantenere quei vincoli e quei rapporti con i paesi di là dal mare. Se un tempo ci fu in cui parve si dovesse disperare dell’avvenire, quello non fu dopo la disfatta russa, dopo l’invasione del Friuli, dopo l’offensiva del marzo scorso. Fu nel primo semestre del 1917, quando i sottomarini minacciavano di rompere i vincoli fra il continente e le isole inglesi, fra l’Europa e l’America. A nulla avrebbe valso lo sforzo magnifico degli Stati Uniti, a nulla avrebbe giovato il martirio eroico dei soldati di Francia e d’Italia, se i vincoli fra le diverse parti del mondo fossero stati rotti. «In lotta con le imperiose necessità della guerra disse Lord Robert Cecil le nazioni dell’intesa crearono un organismo economico complesso che permise loro di avere la padronanza del tonnellaggio, delle finanze, degli acquisti, della distribuzione delle materie prime per il bene comune di tutta l’alleanza. Un’organizzazione di questo genere, sovratutto se altre nazioni che non ne fanno parte venissero a riunirvisi, potrebbe servire per costringere tutte le nazioni a far parte della progettata società ed a facilitare la coercizione economica di qualsiasi paese meditasse aggressioni».

 

 

Né, a guerra finita, questo sarà il solo ufficio degli accordi, i quali dovranno moltiplicarsi fra stato e stato. Trattati di lavoro per la tutela dei milioni di lavoratori che le necessità della ricostruzione metteranno in moto, da una contrada all’altra; trattati di commercio per la ripartizione delle materie prime e degli alimenti; trattati coloniali, affinché più non si contempli l’onta di popoli civili intesi allo sfruttamento delle popolazioni nere accorse a difendere in Europa la causa della civiltà; trattati di navigazione sui grandi fiumi, come il Danubio, od attraverso gli stretti; trattati portuali per garantire ai popoli dell’entroterra l’uso dei servigi di quei porti che per ragioni di nazionalità sono collocati entro il territorio del popolo abitante sulla costa; trattati tributari per impedire ai cittadini di uno stato di fuoruscire allo scopo di sottrarsi al pagamento dei tributi imposti dalla guerra.

 

 

Nessuno di questi trattati sarà una vera menomazione dello spirito di nazionalità. Perché solo le nazioni integrate, consapevoli di se stesse, potranno fare rinunce volontarie che siano innalzamenti e non atti costretti di servitù. Soltanto le nazioni libere potranno vincolarsi mutuamente per garantire a se stesse, come parti di un superiore organo statale, la vera sicurezza contro i tentativi di egemonia a cui, nella presente anarchia internazionale, lo stato più forte è invincibilmente tratto dal dogma funesto della sovranità assoluta.

 

 

Junius



[1] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

[2] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

[3] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

[4] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

[5] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

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