La situazione economica
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 17/04/1946
La situazione economica
«L’Opinione», 17 aprile 1946
Una frase della relazione sul bilancio al 31 dicembre 1945 della Banca d’Italia diceva che fra le parecchie possibili, sembrava «meno improbabile la ipotesi che i prezzi italiani abbiano a stabilizzarsi ad un livello compreso tra 20 e 25 volte quello d’anteguerra». L’ipotesi, presentata da me in base ad accurati sondaggi compiuti dal dott. Baffi e dai valenti suoi collaboratori dell’ufficio studi della Banca, è una ipotesi assunta, al pari di ogni promessa scientifica, allo scopo di giungere a talune conclusioni pure ipotetiche in materia di politica economica. In particolare si voleva porre il problema del modo da tenere per rispondere alla domanda quotidiana: quale è il saggio di cambio della lira sul dollaro che può essere considerato d’equilibrio? Naturalmente, nessuna risposta precisa fu data; né poteva darsi, perché occorrerebbe all’uopo – e fu detto – fare altre ipotesi sull’andamento futuro dei prezzi negli Stati Uniti e nel mondo. Le relazioni delle banche non sono fatte per usurpare l’ufficio proprio dei compilatori di almanacchi del barbanera, ma di fornire dati, porre ipotesi ragionate e fornire orientamenti, i quali dovranno poi essere utilizzati da uomini politici, industriali, commercianti, lavoratori e loro organizzatori, tenendo conto, giorno per giorno, dei nuovi dati e delle nuove esperienze che valgano a correggere le ipotesi, le premesse ed i dati, posti a base dei ragionamenti. Purtroppo, non si può pretendere che gli ascoltatori ed i lettori vadano molto per il sottile ed accettino le ipotesi e le premesse come tali, secondo il loro valore necessariamente connesso con tutte le altre ipotesi e premesse delle quali si deve tener conto prima di giungere ad una conclusione che possa essere considerata norma di politica economica pratica. Perciò taluno subito dedusse: «se è vero che i prezzi sono destinati a stabilizzarsi in media sulle 20-25 volte il livello d’anteguerra, anche i salari e gli stipendi dovrebbero fissarsi allo stesso livello; laddove oggi essi, come si legge parimenti nella mia relazione citata della Banca d’Italia, si aggirano intorno a 13 volte soltanto il livello del 1938. È ingiusto che salari e stipendi rimangano sulle 13 volte, quando i prezzi sono destinati a stabilizzarsi sulle 20-25 e dicasi, in media, sulle 22 volte. Se non si vuole provocare un immiserimento dei lavoratori occorre riportare anche salari e stipendi al livello 22».
Purtroppo l’aspirazione al trapasso dal moltiplico 13 per i salari e gli stipendi a quello 22 dei prezzi incontra taluni ostacoli, i quali debbono essere eliminati se si vuole che il trapasso abbia luogo senza cagionare miserie e patimenti maggiori di quelli che giustamente si vogliono toglier di mezzo.
Che cosa vuol dire il fatto che i prezzi tendono, ove l’ipotesi da noi fatta sia corretta, a stabilirsi sulle 22 volte i prezzi del 1938? Quel fatto vuol dire tante cose; e, fra l’altro, è certamente l’indice di una scarsità dei beni e dei servigi ai quali quei prezzi si riferiscono. Non che oggi si produca solo una ventiduesima parte dei beni prodotti nel 1938; che sarebbe una esagerazione enorme. L’aumento dei prezzi è il frutto di fattori svariati; tra cui, forse i principali per quanto ha tratto il livello «medio» dei prezzi, si devono ricordare la diminuzione dei beni prodotti da un lato e l’aumento dei mezzi di pagamento dall’altro. In quale proporzione i due fattori abbiano contribuito a produrre l’effetto, sarebbe ben bravo chi lo sapesse dire. Per conto mio non mi azzardo neppure a fare un’ipotesi, tante sono le cose che si ignorano e pur sarebbe necessario sapere prima di azzardare una affermazione.
Una verità si può enunciare: che quel livello di prezzi moltiplicato per 22 in confronto al 1938 vive in un paese dove, come è detto in un’altra pagina della mia relazione, «il reddito reale nazionale, secondo i risultati quasi concordati di vari autori, si sarebbe ridotto del 40 per cento tra il 1938 ed il 1945». È chiaro il significato di questa constatazione. Il reddito «reale» nazionale che cosa è se non la somma di tutti i beni e servigi prodotti nel paese? Esso è la torta che si tratta di dividere tra i 45 milioni di italiani, e finché la torta rimane quella che è la somma delle parti spettanti a ciascun individuo non può superare il tutto. Con questa verità fondamentale contrasta la richiesta che l’aumento dei salari e stipendi sia uguale all’aumento dei prezzi. Se, essendo moltiplicati i prezzi per 22, i salari e stipendi fossero moltiplicati anche per 22, ciò vorrebbe dire che ognuno si troverebbe oggi nella medesima situazione, godrebbe cioè della medesima massa di beni e di servigi di cui godeva nel 1938. Il che è assurdo, il che non può accadere perché il reddito «reale» nazionale, ossia la massa dei beni e dei servigi da distribuire è scemata del 40 per cento. Togliamo il 40 per cento al livello 22 a cui si vorrebbero spingere salari e stipendi e si arriva suppergiù al livello 13 a cui essi si sono adeguati.
Noi tutti desideriamo, anzi vogliamo che i salari e gli stipendi, ossia il reddito reale della quasi totalità della popolazione produttiva, ritorni almeno al livello del 1938. Ma la condizione inderogabile alle quale l’avverarsi dell’auspicio e subordinato è il ritorno della produzione, ridotta da 100 nel 1938 a 60 nel 1945, all’antico livello di 100. Se a questa condizione non si soddisfa, noi potremo invelenirci l’un contro l’altro, accusando ognuno ogni altro di arraffare una porzione troppo grossa della torta diminuita di volume; ma non otterremo dalla zuffa intestina altro risultato se non quello di ridurre sempre più il volume della torta; di diventare ogni giorno maggiormente miseri ed inveleniti. Dall’invelenimento reciproco nessuno trarrà profitto. Non so di quanto siano diminuiti i valori «reali» – non quelli «nominali» che paiono dappertutto cresciuti – dei terreni e delle case; ma cosa certa è che se il valore reale dei salari e degli stipendi è scemato in realtà del 40 per cento fra il 1938 e il 1945, il valore «reale» delle azioni delle società anonime è scemato dell’80 per cento; e non oso dire, tanto è grande, quale sia la riduzione «reale» dei redditi dei titoli ad interesse fisso. Quanto la produzione scema, tutti stanno male, redditi di lavoro e redditi di capitale; e questi più di quelli. Trionfano i redditi dei mezzani, degli imbroglioni, delle donne perdute, della gente la quale trionfa e si ingrassa ognora quando risparmiatori, lavoratori e imprenditori litigano tra loro, incitati a dilaniarsi da chi profitta della loro discordia. Produrre di più non basta. Per qualche anno occorrerà, inesorabilmente, rassegnarci a produrre di più, rinunciando a consumare di più. Siamo al 60% del reddito reale nazionale del 1938. Ritorneremo, volendo, al 70, all’80, al 90, al 100 per cento; ma vi ritorneremo a condizione che per qualche anno quel 10, quel 20, quel 30, quel 40 per cento in più non consista in maggior copia di cibi, di vestiti, di scarpe; ma prenda la forma di ferrovie, di ponti, di porti, di strade, di macchine, di misura di case, di piantamenti, di sminamenti: ossia di cose che serviranno domani e non oggi. Vita dura dunque ancora, per qualche anno. Per far entrare nella testa dei Rossi l’idea della necessità del risparmio, quegli uomini di governo hanno inventato la formula dei piani: quadriennali, quinquennali, decennali. Ma si tratta sempre della vecchia antica storia: quando si è in basso, per tirarci su, non serve fare appello a formule miracolose; fa d’uopo ricorrere all’antico metodo, antico ed accettato, dello stringerci la cintola e lavorare sodo. Aggiungevo nella relazione per la Banca d’Italia a guisa di conclusione e ripeto ora: se noi sapremo dar prova di voler produrre di più, di lavorare e risparmiare, non avremo bisogno di elemosinare all’estero. Chi lavora sul serio non ha mai bisogno di «chiedere» prestiti. Nei paesi altamente produttivi, il capitale è merce che val poco ed è forzata ad offrirsi a poco prezzo, a chi la sa far fruttare. Diventa cara, e giustamente cara, per chi pretenda di impadronirsene colla forza e coll’inganno e di non restituirla.