La sistemazione dell’«Ansaldo»
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 24/02/1923
La sistemazione dell’«Ansaldo»
«Corriere della Sera», 24 febbraio 1923
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 126-129
La sistemazione dell’«Ansaldo» è uno dei problemi più delicati di cui un pubblicista possa essere chiamato a discorrere. La soluzione più semplice e razionale sarebbe che lo stato si lavasse le mani di tutte le imprese dissestate. Niente interventi per la Banca sconto, niente per l’«Ansaldo» e così per tutti i casi consimili. Perché un’impresa la quale ha amministrato male non deve essere lasciata fallire? Il fallimento è la sanzione legittima, necessaria, vantaggiosa della cattiva condotta economica. Se i megalomani, se gli imprudenti, se i disonesti sono aiutati a salvarsi, chi potrà garantire in avvenire la collettività contro la ripetizione degli atti di megalomania, i depositanti delle banche e gli azionisti di imprese industriali contro gli avventati o i filibustieri? Né il fallimento crea la disoccupazione operaia; la quale deve la sua origine alle perdite che in passato avvennero. Il fallimento altro non fa che mettere in chiaro le cose; far piazza pulita e consentire ad una impresa nuova, fresca e sana di costituirsi, se possibile, sulle rovine dell’antica.
Tuttavia, nonostante i pregi grandissimi del fallimento, sempre si usarono i salvataggi. La teoria del salvataggio, che ha trovato tra gli economisti eleganti espositori è la seguente:
«vale talvolta la pena di salvare un’impresa pericolante, per salvare l’organizzazione. Il fallimento realizza le macchine, le miniere, le scorte, le mura degli stabilimenti, ma lascia perdere l’organizzazione di tutti questi elementi sparsi in una unità economica che vive e lavora e produce. Ora, contrariamente a quanto immaginavano gli invasori delle fabbriche nel settembre del 1920, quello che sovratutto conta e vale in un’impresa non è la materia bruta, non sono le macchine, le scorte, le fabbriche; è la vita, è l’anima, è l’organizzazione che unisce insieme le cose brute e le rende produttive».
Contro il salvataggio eseguito da privati non si può elevare perciò alcuna obbiezione. Il salvatore arrischia nel salvataggio capitale e lavoro, a suo rischio e pericolo. Se un’altra banca privata fosse intervenuta a salvare la Banca sconto, nessuno avrebbe avuto nulla a ridire. La controversia nasce quando salvatore è lo stato. Lo stato rappresenta la collettività. I danari suoi sono danari dei contribuenti e non devono essere azzardati a nessun costo. Inoltre l’esempio del salvataggio in un caso fruttifica altre richieste di salvataggio in casi simili o per cui una somiglianza è possibile ad affermarsi.
Nel caso attuale, della sistemazione dell’«Ansaldo», il problema deve essere guardato da due punti di vista: a favore di chi il salvataggio si opera e quali sono gli oneri che lo stato si assume.
A favore di chi. Da quel che si può intuire da chi sta al di fuori e cerca di ragionare sui nomi e sulle cifre offerte dai comunicati, il salvataggio non è fatto a favore degli antichi dirigenti dell’«Ansaldo», responsabili del dissesto. Avere contatti con questi responsabili non sarebbe stato conveniente per alcun governo e tanto meno per il governo attuale. Oggi, in fondo, sistemare l’«Ansaldo», vuol dire continuare la sistemazione della Banca sconto, principale creditrice dell’«Ansaldo». Una rovina di questa avrebbe potuto significare l’impossibilità di condurre a termine la sistemazione della Banca sconto, cosa la quale oramai, in conseguenza di atti compiuti da governi precedenti, interessa direttamente gli istituti di emissione, ossia indirettamente lo stato stesso.
Per poter giudicare quindi se il salvataggio dell’«Ansaldo» sia stata una operazione conveniente per lo stato bisognerebbe sapere quanto avrebbe lo stato medesimo perso a non sistemare. Probabilmente si trattava di una scelta tra due perdite; ed io spero che il ministro delle finanze possa attestare che egli ha scelto la perdita minore. Sarebbe augurabile che egli potesse dare pubblicamente questa dimostrazione; ma poiché talvolta la riuscita di certe combinazioni finanziarie dipende dalla riservatezza con cui esse sono trattate, potrebbe bastare una dichiarazione di governo che le cose stanno proprio così e che si è scelto il minore dei danni.
Quali oneri lo stato si assume? Parmi di poter escludere dal novero degli oneri il concordato dei 55 milioni per l’imposta e sovrimposta sui sovraprofitti. Contrariamente a quanto si legge in qualche giornale, il «concordato» in materia di imposta mobiliare non è un privilegio. È la norma comunemente seguita con tutti i contribuenti. Il privilegio potrebbe essere nella cifra. Ma a questo riguardo, anche chi non è affetto da mania di curiosità, sa che l’«Ansaldo» era riuscita a farsi ridurre dai governi precedenti la cifra delle imposte dovute per sovraprofitti a 5 milioni meno di quei 55 che oggi De Stefani ha definitivamente ottenuto.
Se, dal punto di vista imposte, la sistemazione odierna rappresenta un vantaggio, c’è un grosso onere ed è quello della partecipazione alle miniere di Cogne. Non mi soffermo sugli altri oneri, per cui occorrerebbe avere particolari tecnici che non posseggo e che ad ogni modo non mi sembrano di gran peso. La grossa partita è quella delle miniere di Cogne. Lo stato entrerebbe come azionista in una società anonima a parte, creata per assumere la proprietà ed il seguito dell’esercizio delle miniere di ferro di Cogne e degli stabilimenti siderurgici di Aosta. Pare che l’apporto statale sarebbe di 70 milioni su un capitale più che doppio.
Le domande ed i dubbi si affollano. Le miniere di Cogne danno un minerale di ferro di primissimo ordine, superiore per purezza e qualità persino a quelli celebri dell’Elba in Italia, di Bilbao in Spagna e di Dannemara in Svezia. Ma qui finiscono forse i suoi pregi. La miniera è situata oltre i 2.000 metri, in un clima rigidissimo, per parecchi mesi dell’anno sepolta dalle nevi. I tecnici sono di pareri diversi sul costo del minerale e, peggio, sulla possibilità di utilizzarlo ad Aosta, in impianti i quali debbono sopportare enormi spese per procurarsi il carbone o utilizzano male l’energia elettrica locale, la quale darebbe in altri usi una resa economica maggiore. Tutto ciò fa dubitare che lo stato azionista possa in questo caso conseguire i brillantissimi risultati ottenuti dallo stato inglese quando divenne azionista del Canale di Suez, e forse nemmeno quelli buoni che lo stesso governo spera dalle sue azioni nella Compagnia del petrolio della Mesopotamia. Forse sono più assimilabili al caso presente i rischi e le perdite dell’azionariato di stato nella Compagnia dei colori, infelice creazione del tempo di guerra.
Si aggiunga: quali responsabilità incontrerà lo stato in caso di perdita totale o parziale del capitale sociale? Dovrà concorrere a reintegrarlo? In caso non vi fosse obbligato, le sue azioni sarebbero svalutate? Chi saranno i suoi delegati nel consiglio di amministrazione? Funzionari od industriali tecnici estranei alla burocrazia? Come voteranno? Ad referendum ai ministri competenti, ossia con grandi perdite di tempo, ovvero secondo il loro criterio tecnico? E come oseranno decidere da sé, quando il loro voto potrà impegnare il bilancio dello stato? Tutte domande spinose, a cui è certo si darà una risposta concreta prima di decidere nei particolari le modalità della nuova forma di intervento dello stato. Non dissimuliamoci però che si tratta di uno sperimento azzardoso, che sarebbe pericolosissimo dovesse ripetersi. Non è ancora possibile escogitar qualche espediente per cui non lo stato, ma qualche altro ente pubblico entri come azionista nella «Cogne»? Il precedente, in tutta questa sistemazione, è quello che più incute timore.