Opera Omnia Luigi Einaudi

La seconda camera. La rappresentanza degli interessi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 24/12/1946

La seconda camera. La rappresentanza degli interessi

«Corriere della Sera», 24 dicembre 1946

 

 

 

Nelle sedute della sottocommissione per la Costituzione è stato a lungo discusso il problema se il futuro Senato debba trarre le sue origini esclusivamente dagli elettori indifferenziati, considerati cioè come unità-uomini, ovvero dagli elettori distribuiti per ceti professionali o produttivi, considerati come unità-agricoltori, unità-contadini, unità-professionisti ecc. ecc., ovvero ancora da una combinazione dei due tipi. Naturalmente, la discussione suppone deciso, come invero, a torto od a ragione, era stato deciso, che il Senato dovesse interamente reclutarsi per elezioni popolari con esclusione di qualsiasi altra maniera; per scelta dal Capo dello Stato, per cooptazione ecc. ecc.

 

 

Si ripresenta cioè la vecchia questione della rappresentanza professionale o corporativa. Nonostante la pessima prova fatta con la Camera dei fasci e delle corporazioni, persistono tenaci, particolarmente nella parte democristiana, gli affetti per la rappresentanza professionale. Ricordi romantici di un’epoca felice medievale, nella quale maestri (padroni), operai ed apprendisti lavorano affratellati entro l’unica corporazione; ammaestramenti di celebri encicliche papali contribuiscono a mantener viva nei parlamentari di parte democristiana la propensione verso i tipi professionali di Camere legislative.

 

 

La rappresentanza degli interessi si contrappone a quella degli individui, come l’organismo si contrappone all’atomo. Esistono bensì gli uomini-individui, variamente raggruppati in partiti ed associazioni volontarie; ed essi trovano la loro rappresentanza naturale nella Camera dei deputati. Ma gli uomini non vivono soli; bensì raggruppati in comunità di lavoro: sono agricoltori proprietari lavoratori diretti od affittuari o coloni mezzadri o conducenti terreni propri; sono operai od industriali, artigiani, commercianti all’ingrosso ed al minuto; esercitano professioni liberali od attendono ad impieghi, pubblici o privati, militari o civili. Gli uomini non sono soltanto foggiati in maniere diverse dal mestiere esercitato: ma sono aggregati in unità naturali dal lavoro esercitato. Perché non dare agli uomini, raggruppati secondo gli ordini in cui essi si compongono naturalmente per le loro esigenze di vita, una seconda rappresentanza nel Senato?

 

 

La fonte della rappresentanza, che nella Camera è l’uomo, nel Senato diventa così il produttore. Ambedue gli aspetti hanno ragione di essere rappresentati nel Parlamento: l’uomo, come tale, perché ogni essere umano ha diritto di far sentire la sua voce nel governo della cosa pubblica, e l’uomo come produttore, perché chi lavora o contribuisce col risparmio alla produzione acquista una ragione ulteriore di far valere i propri interessi: alla Camera la rappresentanza degli interessi generali attraverso la voce dei singoli; al Senato quella dei medesimi interessi attraverso il cozzo degli interessi particolari.

 

 

Aggiungasi che nella società contemporanea i compiti dello Stato divengono sempre più complessi ed imponenti, sicché fa d’uopo che alla discussione ed alla elaborazione delle leggi partecipino ognora più uomini periti nelle diverse branche dell’attività umana. Oggi le Camere sono popolate da generici avvocati, professori, propagandisti, organizzatori. È necessario un Senato composto di competenti, di industriali, di agricoltori, di operai, di contadini, i quali possano dire una parola dettata da una matura esperienza di vita pratica. Il malanno dei decreti d’urgenza deriva in parte dal carattere specifico di molte leggi le quali richiederebbero per essere convenientemente discusse una competenza specifica che nelle Camere generiche non esiste; sicché alla fine le leggi non sono discusse affatto, ma abbandonate alla mercé dei decreti d’urgenza dei governi e della burocrazia.

 

 

I Parlamenti debbono essere lo specchio fedele della Nazione. Ma le Nazioni non sono composte di atomi vacanti nel vuoto; bensì di ceti, di gruppi sociali, posti fuori dai partiti, i quali fanno appello ad ideali comuni a molti ceti e gruppi. Accanto agli ideali è bene siano rappresentate separatamente le differenziate energie sociali; anche le minori, anche le più deboli, le quali hanno una ben piccola probabilità di essere rappresentate dai partiti e particolarmente da quelli di massa. Finalmente, con la rappresentanza degli interessi si dà un peso maggiore nella vita politica ai produttori, in confronto a coloro i quali non contribuiscono alla produzione. Agli oziosi e agli improduttivi non si può negare la qualità di uomo e quindi il diritto di voto per la elezione dei deputati alla Camera; si può negare invece il diritto di eleggere i senatori.

 

 

Contro la tesi della rappresentanza degli interessi è stato fatto valere, in modo particolare dai membri comunisti e socialisti della sottocommissione, il principio della sovranità popolare. Tutti i poteri dello Stato derivano unicamente dal popolo. Questo esprime nei comizi popolari la sua volontà sovrana. Ammettere che la seconda Camera o Senato derivi i propri poteri da un’altra fonte, dagli elettori distinti per ceti e professioni, equivale a falsare la volontà popolare, a porre l’una Camera contro l’altra, ambedue fornite dei medesimi poteri e compiti, rendendo impossibile la formazione di qualsiasi Governo stabile. A chi dovrebbe ubbidire, da chi dovrebbe essere costituito il Governo? Dalla Camera uscita dal suffragio universale uguale segreto e diretto, ovvero dal Senato, inevitabilmente uscito da un suffragio disuguale? I mille industriali rappresentati dalla loro corporazione manderebbero al Senato tanti Senatori quanti la corporazione dei due milioni di operai da loro dipendenti? Ecco instaurato il voto disuguale o plurimo; ecco introdotto nella Costituzione un principio di disuguaglianza in stridente contrasto con quello, unico nazionale e fondamentale, della sovranità o volontà popolare.

 

 

L’argomentazione tratta dal principio della sovranità o volontà popolare mi lascia, debbo confessarlo, indifferente. Quel principio, del quale l’enunciazione più nota fu fatta dal Rousseau, non appartiene alla categoria delle verità scientifiche, dimostrabili con il ragionamento o con l’evidenza. Il ragionamento e l’esperienza dimostrano invece che in tutti i tempi e in tutti i Paesi, in qualunque ordinamento politico e sociale, la legge la quale governa il reggimento dei popoli è quella definita nei celebri versi del Giusti, secondo cui i meno tirano i più. Una legge scientifica è tale se esprime il comportamento reale dei fenomeni che accadono. Il principio della sovranità o volontà popolare appartiene ad un altro ordine di massima, importantissimo nel governo dei popoli quanto e forse più delle leggi scientifiche, ma diverso: all’ordine dei miti delle formule politiche. Dopo i libri di Mosca, di Ostrogorski, di Michels, di Pareto non si può dubitare che quello della sovranità popolare appartenga al novero dei miti. Utilissimo mito, dal quale nessun ceto politico governante in Paese se libero può fare a meno. Che cosa potremmo sostituire alla formula politica della volontà o sovranità popolare? Forse il mito della volontà di uno solo, o dei pochi?

 

 

Se il principio della volontà popolare è una formula politica, è cioè un principio utile politicamente, una regola che dobbiamo tener ferma semplicemente perché nelle condizioni moderne della civiltà umana è impensabile un’altra formula più conveniente, dobbiamo tuttavia riconoscere che essa non è una di quelle verità dalle quali col ragionamento puro si possono trarre deduzioni sicure. Noi siamo liberi di trarre da quella formula le illazioni che ci sembreranno più utili per il buon ordinamento politico del Paese. Se quel principio fosse una verità razionale, sarebbe logico ragionare così:

 

 

– il popolo è l’unico depositario del potere;

 

 

– i Deputati nominati dal popolo hanno tutto il potere che è stato ad essi conferito dal popolo;

 

 

– il Capo dello Stato deve essere scelto dai Deputati, perché il popolo non può manifestare la sua volontà in due maniere diverse;

 

 

– il Governo deve avere la fiducia della Camera nella quale si incarna la volontà popolare;

 

 

– i Magistrati, l’esercito, la pubblica amministrazione, gli enti locali sono tutti emanazione dell’Assemblea Nazionale;

 

 

– questa può fare tutto ciò che vuole, perché essa ha il diritto e il dovere di attuare la volontà del popolo.

 

 

Eppure l’esperienza ha insegnato, in modo irrefragabile che un ordinamento congegnato in maniera siffatta conduce inevitabilmente ad una tirannia spaventevole. La sovranità popolare non è un principio razionale; bensì una formula politica empirica. Essa è utile e deve essere adoperata solo in quanto giovi a costruire un Governo atto a governare, a garantire le libertà fondamentali dell’uomo, a tutelare le minoranze contro le sopraffazioni delle maggioranze, grazie alla libertà illimitata di discussione e di stampa, ad assicurare, con la indipendenza della magistratura dal potere politico, la giustizia per tutti. Se a tal fine giova la coesistenza delle due Camere e se giova che esse siano composte diversamente, la formula politica della volontà popolare non può essere d’ostacolo alla conclusione reputata utile alla collettività. Né quella formula, né un’altra formula qualsiasi. Il problema dell’ottimo governo dei popoli non si risolve argomentando da miti e da formule.

 

 

Il quesito della fonte del potere del Senato rimane dunque aperto.

 

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