La riforma del metodo di tassazione delle società per azioni
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1926
La riforma del metodo di tassazione delle società per azioni
«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1926, pp. 30-51
Da quando il disegno di legge Meda per la riforma delle imposte dirette accolse il principio della tassazione dei redditi delle società per azioni, non sulla base del concetto del reddito prodotto usato per tutti gli altri contribuenti ma del reddito distribuito ad azionisti, soci, amministratori e dirigenti, il principio non ha fatto alcun passo verso la sua, sia pure parziale, attuazione.
“La esenzione del sopraprezzo delle azioni è problema diverso ed indipendente”. – La esenzione concessa dal regio decreto-legge 15 ottobre 1925, n. 1.802, ai sopraprezzi delle azioni sebbene provvedimento lodevole in sé medesimo, non ha invero rapporti necessari con il problema della tassazione del reddito distribuito invece che di quello prodotto.
Il problema della tassazione del sopraprezzo delle azioni è di sostanza; quello della sostituzione del concetto del reddito distribuito a quello tradizionale del reddito prodotto è di forma. È bensì vero che la questione di forma, nel caso presente, ha un’importanza grandissima, probabilmente superiore alla importanza dell’altro problema che pure ho detto di sostanza; ma l’essere il problema di forma altrettanto se non più importante di quello di sostanza non autorizza a confondere l’uno con l’altro.
Furono esentati dall’imposta di ricchezza mobile, ed esentati correttamente, i sopraprezzi delle azioni perché si riconobbe che i sopraprezzi medesimi non sono reddito e manca perciò il fondamento della imponibilità. Non volendo qui ritornare sulla vessata disputa, basti riaffermare il concetto, oramai pacifico fra gli studiosi, non essere una somma versata dall’azionista in più del valore nominale dell’azione – allo scopo di parificare la sua posizione a quella del vecchio azionista, che già possedeva nell’azione un’entità patrimoniale corrispondente oltreché al capitale versato anche alle riserve palesi ed a quelle occulte ed all’avviamento – reddito per la contraddizione che non consente di reputare reddito ciò che si dà quando l’indole del reddito è connaturato con l’idea di “ricevere”.
Né giova, come fu fatto recentemente da qualche critico del decreto-legge di esenzione, notare che il sopraprezzo pagato dai nuovi azionisti corrisponde ad un realizzo parziale dell’avviamento e delle riserve nascoste (di quelle palesi non si parla perché avevano assolto l’onere delle imposte) da parte dei vecchi azionisti. Sta di fatto che non esiste realizzo da parte delle società, le quali non alienano nulla, né impianti, né scorte, né avviamento; e non c’è neppure realizzo da parte degli azionisti poiché il vecchio azionista possedeva già un’azione, la quale, per ipotesi, aveva un prezzo corrente di borsa di L. 1.500 corrispondenti a 1.000 lire versate ed a 500 lire costituite da riserve nascoste ed avviamento. Il versamento da parte del nuovo azionista di 1.500 lire in contanti, di cui 1.000 sono capitale nominale e 500 sopraprezzo, non muta affatto il prezzo di borsa delle vecchie azioni. Queste valevano prima della emissione di nuova serie 1.500 lire ed uguale somma continuano a valere dopo. È mutata soltanto un’appostazione nell’attivo dell’inventario sociale, nel quale sono entrate L. 1.500 in contanti. La quota ideologica del contante, delle attività investite, dell’avviamento scritto o da iscriversi nelle attività d’inventario, la quale spetta ad ogni azione componente il capitale sociale scritto al passivo del medesimo inventario, è mutata nella sua composizione, ma la mutazione nella sua composizione non equivale a realizzo e non dà quindi gli estremi per la tassazione del realizzo medesimo a carico dei nuovi azionisti. Realizzo si ha quando l’azionista commuta l’azione in denaro; non si ha quando l’azionista conserva l’azione e soltanto accade che, per fatto da lui indipendente, il valore “invariato” della sua azione è determinato nel suo ammontare da attività parzialmente diverse da quelle originarie. La mutata composizione della quota ideologica di attività spettanti ad ogni azione non muta il valore, la negoziabilità, la facilità di smercio dell’azione; e nemmeno per questo verso si può sostenere che si sia verificato un qualche avvenimento il quale sia affine, per quanto non identico, al realizzo.
Se si volesse accogliere per le azioni il medesimo criterio usato per la tassazione dei prezzi di avviamento delle aziende industriali e commerciali, per le quali l’avviamento è tassato quando effettivamente si verifica passaggio dell’azienda da cedente a cessionario ed il cedente incassa effettivamente il prezzo dell’avviamento, farebbe d’uopo tassare le azioni al momento del loro passaggio da un possessore ad un altro per la differenza tra il prezzo originario di acquisto ed il prezzo di vendita.
Il disegno di legge Meda aveva tentato di conseguire lo scopo con la tassazione di tutti i prezzi di avviamento, della plusvalenza di immobili, azioni, obbligazioni e simili, ai fini dell’imposta complementare progressiva sul reddito. La soluzione era generale, poiché tutti i lucri o incrementi patrimoniali erano, per tal modo, tassati senza riguardo all’origine loro commerciale, senza, cioè, fare alcuna indagine sullo scopo di lucro fin dall’origine concepito dall’acquirente dell’immobile, azienda, o azione. (Art. 76 a 78 del disegno di legge Meda).
Ma la tassazione degli incrementi patrimoniali fu abbandonata dall’onorevole De Stefani quando istituì la imposta complementare sul reddito oggi vigente e l’abbandono fu motivato da ragioni di carattere permanente, che qui non importa esaminare[1], e da una ragione di carattere transitorio quale è l’impossibilità, in tempo di moneta variabile, di valutare esattamente gli incrementi patrimoniali.
Ove si faccia astrazione da questi tentativi di dare una soluzione generale al problema degli incrementi patrimoniali, non si può non riconoscere senz’altro che la esistenza di casi pacifici, a norma della giurisprudenza italiana, di tassazione dell’avviamento di aziende, di plusvalenza di immobili e di azioni acquistate a scopo di rivendita non è un argomento valido per giustificare la tassazione dei sopraprezzi delle azioni ossia la tassazione di una somma che certamente non costituisce reddito né incremento patrimoniale; ma tutt’al più potrebbe essere considerata come l’indice grossolano ed indiretto della esistenza, “presso le vecchie azioni”, di un incremento di valore, tuttora “non realizzato”, il quale in determinate circostanze, secondo la giurisprudenza vigente, o in generale secondo taluni disegni non tradotti in legge, potrebbe essere oggetto di tassazione. Se reddito c’è, presso gli antichi azionisti, e se essi lo realizzano, e se il realizzo a norma del diritto vigente è tassabile, lo si tassi. Ma si tassi “quel” realizzo e non un altro fatto tutto diverso, quale è il sovraprezzo sulle “nuove” azioni, versato dai nuovi azionisti.
Ciò disse il decreto-legge Volpi; ed è principio corretto, indipendente dal problema che qui si vuole discutere.
“Fondamento e natura del metodo di tassazione del reddito distribuito”. – Oggetto della presente ricerca è dunque esclusivamente il problema di metodo nella tassazione delle società per azioni e si può formulare così: Le società per azioni si lagnano da gran tempo di essere tassate sul reddito prodotto accertato per mezzo dei bilanci. Per giungere a determinare il reddito prodotto è necessario che la finanza compia indagini sottili e talvolta inquisitorie intorno alle appostazioni dei bilanci sociali. Pare semplice accertare il reddito prodotto, il quale è semplicemente, dal punto di vista contabile delle società, il saldo del conto profitto e perdite che si deve compilare alla fine dell’esercizio finanziario. Ma quante dispute possono sorgere su quasi ogni voce tanto del dare quanto dell’avere del conto profitti e perdite! Come si valuteranno le quote di ammortamento o deperimento degli edifizi, del macchinario? Come le perdite per insolvenza verificatasi o anche soltanto temuta? Come si valuteranno le scorte di magazzino, le merci in viaggio al principio ed alla fine dell’anno?
Ognuna di queste questioni può dare luogo a divergenze di opinione fondatissime non solo tra i dirigenti delle società e la finanza, ma tra gli stessi dirigenti delle società; sicché il dirigente prudente vorrà stabilire forti quote di ammortamento e fare valutazioni basse delle coesistenze di merci, laddove quello più ottimista si contenta di quote basse e valuta le merci ad un prezzo più elevato.
Diceva la relazione del disegno di legge Meda:
«È inutile e pernicioso affannarsi a scoprire l’”utile” vero, quale “deve” essere se si valutano le attività secondo le norme stabilite dalla giurisprudenza e se si ammettono solo quelle spese e quegli ammortamenti che le commissioni delle imposte dirette e l’autorità giudiziaria hanno ritenuto ammissibili. Questa cifra di “utile”, che oggi si intende di accertare e di colpire con un lavoro amministrativo intenso e delicatissimo, è una cifra irreale. Il solo utile “realmente” esistente è quello che è giudicato tale dagli amministratori e dalle assemblee generali dei soci.
Variano le ragioni prudenziali che possono indurre a valutare le merci di scorta a un prezzo piuttosto che ad un altro; a fare ammortamenti del 5 per cento, del 10 per cento o del 20 per cento a seconda dei tempi, dei luoghi e delle industrie; mentre le norme necessariamente uniformi adottate dalla finanza e dalle commissioni delle imposte dirette finiscono per creare una figura teorica di reddito netto il più delle volte difforme dalla realtà».
Per queste ragioni il disegno di legge Meda aveva accolto il principio della tassazione delle società per azioni sulla base del reddito distribuito.
«Ottimi giudici – diceva la relazione -, dell’effettivo utile ottenuto da una società sono gli amministratori della società medesima, i quali, ogni cosa ponderata, fatta ragione ai pericoli di svalutazione delle merci esistenti, alla necessità di provvedere al rinnovamento del macchinario e degli impianti, si persuadono che tale e non altra possa essere la somma da distribuirsi agli azionisti, ai partecipanti a qualunque titolo alla vita sociale (amministratori, alti impiegati, ecc.). Né vi è pericolo che la finanza venga ad essere alla lunga pregiudicata dalla tassazione del reddito distribuito invece che di quello prodotto, poiché, seppure per qualche anno producendo un reddito di 2 milioni gli amministratori prudenti ne distribuiranno soltanto 1, verrà il giorno che, non essendosi eventualmente verificati i rischi cui l’accantonamento di parte del reddito prodotto doveva provvedere, la società avrà compiuto i suoi impianti e le sue attività e sarà cresciuto quindi il suo reddito; né gli azionisti vorranno in perpetuo contemplare il reddito che si va producendo sempre in maggiore copia senza parteciparvi e quindi più presto il reddito distribuito crescerà e tanto più crescerà quanto maggiore sarà stata la quota che dapprima era stata accantonata».
La finanza può essere danneggiata soltanto dalla frode degli amministratori, i quali sottomano ripartiscano le somme di reddito prodotto, occultato e non distribuito apertamente, ma contro queste ed altrettanti frodi è possibile trovare rimedio, così come nel disegno di legge Meda si era fatto negli articoli 21, 23, 24 e 26 che qui di seguito si riproducono, poiché costituiscono il punto di partenza di ogni eventuale futura elaborazione legislativa.
Art. 21. – Salvo il disposto dell’articolo 26, l’imposta dovuta dalle società anonime ed in accomandita per azioni sui redditi loro propri, è commisurata sull’ammontare dell’utile effettivamente distribuito od erogato come interesse sul capitale, come dividendo, od a qualunque altro titolo o denominazione, tra i soci, gli amministratori od i terzi.
Questi redditi sono classificati nella categoria A – 1.
Non sono soggette ad imposta le somme, tuttoché distribuite od erogate, le quali:
- 1) abbiano sopportata l’imposta normale[2] sui redditi in qualsiasi categoria, o, comunque, le preesistenti imposte sui terreni, sui fabbricati, o di ricchezza mobile;
- 2) siano costituite da redditi per legge esenti;
- 3) siano pagate a titolo di rimborso delle somme effettivamente versate dagli azionisti a qualsiasi titolo.
Quando una società per azioni, riconoscendo esuberante il capitale sociale versato, ne deliberi la riduzione, con parziale rimborso dell’importo versato, il consiglio di amministrazione deve presentare all’assemblea, con la proposta motivata di riduzione, un conto certificato del collegio sindacale, il quale metta in evidenza che il rimborso non si compie né con utili di esercizio, né con somme provenienti da accantonamenti o da riserve, ma con effettiva corrispondente diminuzione del capitale versato, o con somme le quali rientrino tra quelle indicate ai numeri 1, 2 e 3 del presente articolo.
Sono soggetti ad imposta, salvo il disposto dei preindicati articoli 1, 2 e 3, le quote di utili destinate ad aumento di capitali, sotto forma di aumento del valore nominale delle azioni o di distribuzione di azioni nuove gratuite.
Art. 23. – Quando si verifichi, per qualsiasi causa, lo scioglimento di una società per azioni, o questa si ponga in istato di liquidazione, o venga assorbita per fusione da altra società, deve determinarsi: da una parte, il ricavo delle attività liquidate o il valore corrente al netto di debiti nel momento della liquidazione o fusione delle attività stesse, distribuite in natura tra i soci o assegnate ad altri per cessione o fusione; dall’altra, la somma effettivamente versata dai soci, a qualunque titolo, e non ancora ad essi rimborsata, con l’aggiunta dell’utile mandato ad aumento del capitale od accantonato a riserva, o destinato a svalutazione di attività sociali, che abbia già in precedenza sopportata l’imposta o che sia, per legge, esente.
La differenza tra l’una e l’altra somma costituisce reddito soggetto ad imposta per una volta tanto, con le cautele e garanzie cui al quarto titolo.
Art. 24. – Il reddito….. delle società italiane le quali non abbiano ripartito per tre anni consecutivi alcun utile o lo abbiano ripartito, in ragione del capitale versato, in misura inferiore al tasso legale dell’interesse civile, è determinato sulla base del bilancio annuale, deducendo dal ricavo lordo di esercizio tutte le spese e perdite di cui agli articoli 18 e 19, ed è classificato nella categoria A – 1.
Nella determinazione di questo reddito, si tiene conto anche delle somme portate in aumento del capitale o del fondo di riserva o di ammortizzazione od altrimenti impiegate anche in estinzione di debiti.
Art. 26. – Per la esatta valutazione del reddito soggetto ad imposta secondo le norme degli articoli 21 e 25, è sempre in facoltà dell’amministrazione finanziaria di prescindere dai risultati dei bilanci prodotti, quando le voci attive e passive dei bilanci stessi si dimostrino non rispondenti a verità.
«L’obbiezione della perdita ha valore provvisorio». – Se nei quasi sei anni, oramai trascorsi dalla presentazione avvenuta nel marzo 1919 del disegno di legge Meda alla camera dei deputati, la promessa riforma del metodo di tassazione dei redditi delle società per azioni non ha fatto alcun passo verso la sua attuazione, giocoforza è riconoscere che la mancata attuazione deve avere avuto qualche fondamento.
Scopo del presente articolo è di esaminare quali possano essere state le ragioni che hanno ritardato finora l’esaudimento di così antichi ed unanimi voti delle rappresentanze industriali e commerciali.
Sarebbe esagerato il ritenere che il solo motivo del ritardo sia stato il pericolo delle gravi perdite che la mutazione del metodo avrebbe arrecato alla finanza.
Certamente gli scandagli che devono essere stati fatti dalla amministrazione delle imposte dirette devono aver portato a conclusioni di qualche gravità.
È probabile che la tassazione del reddito distribuito invece di quello prodotto debba far diminuire nel primo momento la materia imponibile di una percentuale, la quale forse non discende al di sotto del 25 per cento e può andare anche al 40 per cento della materia imponibile attuale. Il disegno di legge Meda aveva preveduto l’effetto di una diminuzione della materia imponibile e aveva cercato di ovviare alle sue tristi conseguenze per l’erario facendo giocare un’aliquota più alta ed ottenendo da una massa di reddito minore il medesimo gettito tributario che con un’aliquota più bassa si sarebbe ricavato da una massa di reddito imponibile maggiore.
Se, del resto, gli scopi che la riforma si proponeva sussistono ancora, l’obbiezione del minor gettito avrebbe una portata puramente provvisoria.
È vero che se oggi una società produce un reddito di 100 ed accantona 40, la finanza, a parità di aliquota della imposta, scapiterebbe in conseguenza della riforma, poiché il sistema vigente di tassazione del reddito prodotto tassa 100, laddove il metodo proposto della tassazione del reddito distribuito tassa 60, con una perdita quindi del 40 per cento; ma se ciò è vero, è altrettanto vero che il nuovo metodo ha per effetto di eccitare le società a fare accantonamenti, esentandole dalla imposta su tutte le somme mandate a riserva ed è vero anche che, dopo qualche tempo, le riserve così accumulate, insieme col capitale originario, saranno sufficienti a produrre un reddito di 150 invece che 100 e se anche la società vorrà continuare ad accantonare ogni anno l’usata somma di 40 rimarrà un reddito distribuito di 110, maggiore dell’intero reddito prodotto di una volta.
Sicché la finanza con una temporanea rinunzia si sarà apparecchiata una più larga materia imponibile.
Tratterebbesi adunque soltanto di escogitare qualche espediente diretto a temperare gli effetti per la finanza del periodo transitorio in cui, improvvisamente, la materia imponibile scende da 100 reddito prodotto a 60 reddito distribuito e non ha avuto ancora tempo d’incrementarsi a 150 e 110 rispettivamente.
«Scopi della riforma raggiungibili solo in parte: eliminazione dei calcoli di integrazione del reddito». – Riservandomi di dire poi di questi espedienti transitori, occorre frattanto esaminare se l’attesa ad attuare la riforma già scritta in testi legislativi, taluno dei quali promulgato per decreto-legge (regio decreto-legge Tedesco del 24 novembre 1919) non abbia qualche fondamento più grave del timore di una provvisoria perdita tributaria.
Lo scrivente, il quale ebbe occasione di redigere le pagine della relazione Meda che si riferiscono alla riforma del regime delle società per azioni, deve confessare che gli anni intervenuti lo hanno indotto ad una più cauta conclusione, sicché, pur rimanendo favorevole alla mutazione del metodo, deve riconoscere che questa non è atta a produrre tutti quei risultati che dapprima erano immaginati.
Giova eliminare gli scopi che non sono raggiungibili, ridurre al loro vero contenuto quegli che invece siano seriamente fondati e mettere in evidenza qualche scopo finora non abbastanza considerato.
Non è certamente raggiungibile un risultato che un po’ ingenuamente ritenevasi dovesse essere la conseguenza prima del nuovo metodo di tassazione. Non vi è cosa che più irriti gli amministratori delle società per azioni quanto il vedersi messo sossopra il bilancio da essi presentato e fatto approvare dall’assemblea degli azionisti. Il procuratore alle imposte, al saldo attivo risultante dal conto profitti e perdite subito aggiunge le imposte non deducibili, fra cui la medesima imposta di ricchezza mobile. Gridano gli amministratori: «Ma voi, in tal modo, ci costringete a pagare l’imposta su l’imposta. Utile non è forse la differenza tra le entrate e le spese? Non siamo d’accordo che il bilancio è sincero e che le cifre non soffrono discussioni per quanto tocca il loro ammontare? Non abbiamo forse noi effettivamente versato all’esattore delle imposte 180.000 lire per imposta di ricchezza mobile? Per quale ragione voi volete considerare come utile questa somma che sappiamo di avere speso? Non esiste contraddizione stridente fra utile e spese?».
Eppure, se gli amministratori delle società per azioni volessero per un istante studiare i più elementari principi della distribuzione delle imposte essi subito riconoscerebbero la validità della correzione fatta dal procuratore alle imposte. La imposta che colpisce un reddito è un fatto posteriore al reddito medesimo; posteriore per ragione cronologica e per ragione logica. Prima si ottiene il reddito e dopo si paga sul reddito già ottenuto. Ciò è pacifico per i contribuenti alle imposte sui terreni e sui fabbricati, per gli impiegati pubblici, per i pensionati, ecc., ecc. L’impiegato con lo stipendio di 100 lire paga l’imposta sulle 100 lire e non sulle 90 che gli rimangono dopo aver pagata l’imposta del 10 per cento. Per quale ragione le società per azioni dovrebbero essere poste in una situazione di privilegio? Se l’imposta dovesse essere pagata sul reddito al netto dell’imposta medesima, l’aliquota dovrebbe essere aumentata percentualmente in modo da ottenere il medesimo risultato che si otterrebbe con l’aliquota normale sul lordo. Poiché il fabbisogno dello Stato non varia in ragione del modo di calcolar l’imponibile al lordo od al netto, l’aliquota dovrebbe essere proporzionatamente maggiore per i redditi al lordo dell’imposta che per quelli al netto, ove non si vogliano favorire gli uni a danno degli altri.
La tassazione del reddito distribuito non può avere dunque per effetto di eliminare le operazioni più o meno complicate, che ora si fanno per integrare il reddito prodotto, con l’aggiunta delle partite non deducibili.
Converrà pur sempre aggiungere alla cifra del reddito distribuito tutte quelle somme, le quali, secondo lo spirito e la lettera della legge tributaria, debbono essere considerati come redditi, sia pure ripartiti a favore di persone diverse dagli azionisti, soci ed amministratori. Lo Stato, le provincie e i comuni dovranno anche in avvenire essere considerati come partecipanti agli utili distribuiti e le somme pagate all’ente pubblico dovranno pur sempre essere aggiunte alle somme dei dividendi agli azionisti e delle quote di utili assegnate agli amministratori. Deve ancora essere inventato un metodo di calcolo del reddito imponibile, il quale sia così semplice da evitare qualunque fatica a funzionari ed a contribuenti, ed è probabile anche che le complicazioni crescenti dell’organizzazione economica moderna crescano vieppiù le fatali complicazioni dell’assetto delle imposte.
Si può pretendere soltanto che la legge sia chiara; che si sappia con precisione che cosa si debba comprendere nel concetto di reddito distribuito, ma la fatica di aggiungere o di togliere alla cifra grezza del dividendo non può essere assolutamente evitata.
«Del pari non si raggiunge se non in piccola parte lo scopo della veridicità dei bilanci». – Sembra altresì che possa essere raggiunto soltanto in parte, probabilmente piccola, uno degli altri scopi che la riforma si proponeva: restituire chiarezza e veridicità ai bilanci delle società per azioni.
Dicevasi che gli amministratori delle società per azioni, – persuasi che la tassazione dell’intero reddito prodotto fosse ingiusta e che i criteri restrittivi della finanza nell’ammissione delle quote di ammortamento e nella valutazione delle attività e delle passività sociali conducessero a tassare bene spesso come reddito somme che, in realtà, erano spese, – tentassero sfuggire all’ingiustizia, costituendo, accanto alle riserve palesi, ridotte al minimo imposto dal codice di commercio e dallo statuto sociale, ben più ampie riserve nascoste, alle quali attingere in caso di perdite o di annate sfavorevoli. I bilanci presentati all’assemblea degli azionisti avevano perciò aspetto di artificio o, come dicevasi nella relazione Meda, «erano redatti in forma sibillina riassuntiva, assolutamente disadatta a servire di guida ai risparmiatori, sicché questi si trovavano nella impossibilità di distinguere fra bilanci di società buone che volevano solo sottrarre gli ammortamenti all’imposta di ricchezza mobile e bilanci di società cattive che volevano sul serio frodare la finanza o nascondere le malefatte compiute a danno degli azionisti, ed al fenomeno stesso è forse imputabile, almeno in parte, la ripugnanza del capitale verso gli investimenti mobiliari».
Non si vuole negare la verità di queste osservazioni, ma è opportuno riflettere che la necessità di sottrarsi a ingiuste tassazioni non è la sola causa per la quale si presentano agli azionisti bilanci non perfettamente chiari e non si denunziano tutte le somme effettivamente
mandate a riserva.
Ragionando secondo la lettera del codice di commercio, gli amministratori debbono denunziare alle assemblee degli azionisti i redditi effettivamente prodotti, affinché le assemblee sovrane possano decidere liberamente sull’uso da farsi dei redditi medesimi. Ed argomentasi essere scorretto che gli amministratori mandino una qualsiasi somma a riserva nascosta sottraendola ai veri domini di essa, i quali sono gli azionisti dell’anno in cui il reddito si è prodotto, non quelli, che possono essere altri, dell’anno in cui si attingerà alla riserva nascosta, sia per far fronte a perdite sia per uguagliare i dividendi in un anno sfavorevole.
Sebbene siffatte ragioni non siano prive d’importanza, quasi tutti gli amministratori provvedono alla costituzione di riserve nascoste e così operando fanno il bene della società, non potendo questa prosperare se ogni anno non tutto il reddito prodotto viene distribuito agli azionisti; e per non distribuirlo tutto è giocoforza nascondere l’esistenza, bastando una piccola minoranza di azionisti dissenzienti ed ingordi ad impedire talvolta accantonamenti provvisori, i quali in industrie rischiose possono essere assolutamente necessari per salvare, negli anni avversi, la società dall’ultima rovina. La formazione di riserve nascoste s’impone non solo rispetto alla finanza ma, e forse più, rispetto alle società concorrenti a cui non giova far conoscere il vero ammontare di utili eccezionalmente elevati ottenuti in un anno, e rispetto agli impiegati ed agli operai, che non si vogliono incoraggiare ad avanzare richieste di aumento di stipendio o di salario, le quali, concesse negli anni buoni, non potrebbero essere ritolte negli anni cattivi.
La formazione di riserve nascoste è preferibile a quelle di riserve palesi, anche perché il prelievo di un milione di lire da una riserva pubblica per colmar perdite o per ripartire dividendi in anni non buoni, dimostra senz’altro che la perdita ci fu e l’anno fu cattivo e scuote perciò il credito sociale e fa diminuire il corso di borsa delle azioni; laddove il prelievo della stessa somma da una riserva nascosta non è reso notorio e rafforza il credito della società, la quale anche in anni sfavorevoli si chiarisce capace di distribuire un dividendo e si sottrae a perdite.
Si può ritenere perciò che, anche quando sarà accolto il sistema della tassazione dei dividendi, non verrà meno la necessità di presentare alle assemblee degli azionisti bilanci formalmente oscuri ed intrinsecamente corretti e di formare riserve nascoste.
«Rimane intiera l’importanza dello scopo: eliminazione delle controversie valutative fra società e finanza». – Conserva invece importanza lo scopo di eliminare una parte delle controversie ognora insorgenti tra società e finanza e precisamente quelle già ricordate relative alla determinazione delle quote di ammortamento o deperimento, alle valutazioni del monte merci e delle varie attività opinabili risultanti dall’inventario di fine d’anno.
Utile non sarà il semplice saldo di bilancio, bensì la somma dei dividendi agli azionisti, delle partecipazioni agli utili dei soci, degli amministratori, impiegati e dirigenti e delle imposte non deducibili, detratti i redditi esenti da imposte o già tassati altrimenti con altre imposte o colla imposta medesima di ricchezza mobile.
Il calcolo, come si osservò sopra, sarà pur sempre di qualche complicazione; ma, e ciò unicamente monta, la complicazione deriva dalla difficoltà d’interpretare elementi oggettivi non da quella, di gran lunga maggiore, di sostituire il criterio soggettivo del funzionario delle imposte a quello pur soggettivo dell’amministratore della società rispetto alle valutazioni delle partite opinabili.
«Così pure si promuove la formazione di fondi di uguagliamento di dividendi». – Resta invariato lo scopo di incoraggiare la formazione di un fondo di eguagliamento dei dividendi, poiché dovrà pur essere sancita una norma simile a quella del sopra riprodotto art. 24 del disegno di legge Meda, secondo cui i redditi delle società, le quali non abbiano ripartito per tre anni consecutivi qualche utile o lo abbiano ripartito in ragione del capitale versato, in misura inferiore al saggio legale dell’interesse civile, dovrà essere determinato in base alla situazione di bilancio ossia in ragione del reddito prodotto. Tuttavia le società ansiose di non ricadere nei vizi dell’attuale sistema «si sforzeranno – come osserva la relazione al disegno di legge Meda – nelle annate buone di costituire, astenendosi da ripartizioni di dividendi troppo larghi, un fondo di eguagliamento dei dividendi; invece cioè di ripartire il 10 per cento ripartiranno, nei periodi favorevoli, solo il 5 o il 6 per cento e così avranno modo di distribuire almeno il 4 per cento anche negli anni in cui non si ottengono utili o si ebbero esigui. Le società le quali avranno potuto così rafforzare la loro compagine finanziaria più facilmente sormonteranno le crisi ed il corso dei loro titoli sarà avvantaggiato dalla maggiore costanza dei dividendi. I capitali saranno attratti più largamente verso le imprese industriali, poiché nulla teme tanto il risparmiatore il quale, pur desidera l’alea degli aumenti di reddito, quanto la cessazione dei dividendi. Ed anche la finanza avrà motivo di compiacersi per la maggiore stabilità e quindi per il graduale progredire della materia imponibile».
«Si contribuisce all’affermarsi della tendenza verso forme collettive di risparmio». – Ai quali vantaggi, elencati nella relazione al disegno di legge Meda, giova aggiungerne un altro che pare non sia stato sinora abbastanza apprezzato: ed è la crescente importanza che va acquistando, nei tempi moderni, la formazione collettiva del risparmio in aggiunta alla formazione individuale. Laddove, in tempi di imprese a tipo individuale, il risparmio nuovo era opera quasi esclusiva del singolo, la trasformazione di un gran numero di intraprese individuali in collettive ha messo in evidenza due momenti di formazione del risparmio: il primo momento è quello che si verifica nell’interno dell’intrapresa medesima ed è quasi parte del processo produttivo; il secondo momento è l’antico risparmio individuale successivo alla distribuzione del reddito.
Nelle società per azioni è tipica la tendenza degli amministratori di non distribuire, come si è osservato sopra, e di occultare persino la esistenza del reddito agli azionisti. La impresa sociale acquista quasi una personalità propria che gli amministratori hanno desiderio e ambizione di veder affermarsi; perciò essi ritengono che la società abbia diritto a conservare una parte del reddito prodotto, anche astrazione fatta dalla necessità di accantonamenti per copertura di rischi o per uguagliamento dei dividendi nel tempo. Qui si tratta di un vero risparmio a tipo collettivo, risparmio che nasce durante il processo produttivo e procede da sentimenti e da scopi diversi dai sentimenti e dagli scopi che si propone poi l’azionista quando, avendo ricevuto una parte del reddito prodotto, a titolo di dividendo, a sua volta delibera di risparmiarne una frazione.
L’amministratore nel risparmiare una parte del reddito prodotto è mosso da sentimenti che non si possono chiamare di previdenza individuale o famigliare ma dal desiderio di crescere la potenzialità produttiva e combattiva dell’azienda di cui egli è a capo.
Un sistema, il quale riesce a mettere in azione non solo i motivi che spingono al risparmio individuale, ma anche quelli, sotto un certo aspetto di ordine più elevato, che spingono al risparmio collettivo, merita di essere preferito a un altro sistema che non tiene conto di questa categoria importantissima dei fattori di formazione del capitale.
Gioverebbe fare indagini intorno alla importanza dei risparmi collettivi in confronto ai risparmi individuali, dei quali risparmi collettivi quelli delle società per azioni sono soltanto una parte, sebbene forse la più rilevante. Trattasi di un fenomeno nuovo probabilmente destinato a crescere di peso nell’economia moderna.
«Pretesa impossibilità di raggiungere lo scopo». – «Come debba essere interpretato il diritto della finanza di prescrizione dai bilanci non veridici». – Alcune obbiezioni al nuovo metodo di tassazione meritano tuttavia di essere esaminate. Una prima dice che lo scopo non potrà essere raggiunto e dimostra la impossibilità richiamandosi non tanto all’art. 24 quanto all’art. 26 del disegno di legge Meda. Non all’art. 24, che è quello sopra ricordato, per cui la finanza ha facoltà di abbandonare il metodo del reddito distribuito per riattaccarsi all’altro del reddito prodotto ogni qual volta le società non abbiano ripartito per tre anni consecutivi alcun utile o lo abbiano ripartito in misura inferiore al tasso legale dell’interesse civile in ragione del capitale versato. Qui ci troviamo bensì di fronte all’abbandono del metodo, ma l’abbandono è determinato da una ragione di fatto non arbitraria, alla quale le società ben amministrate avranno agio di sottrarsi con l’accantonamento negli anni favorevoli di una somma sufficiente ad elevare il dividendo alla minima misura del 4 per cento anche negli anni sfavorevoli. Il diritto della finanza di ritornare al metodo del reddito prodotto deve considerarsi fondato nei riguardi delle società, le quali, pur producendo un reddito largamente sufficiente a dare il 4 per cento, nulla o poco distribuiscono.
Ed invero per quanto si voglia riconoscere agli amministratori una larga libertà di giudizio intorno al modo di impiegare gli utili prodotti e per quanto debbano incoraggiarsi i risparmi a tipo collettivo, vi è un minimo di tassazione a cui, se un reddito fu prodotto, le società non possono rifiutarsi. Esse invero con la loro attività fanno richiesta di servizi pubblici allo Stato e devono allo Stato un minimo di tributo. La mancata distribuzione di quel minimo può essere reputato indice di una volontà di frode. Se poi le società effettivamente traversano momenti sfavorevoli, agevolmente potranno dimostrare, producendo i bilanci ed i libri sociali, che non si produssero utili bastevoli a pagare il dividendo minimo agli azionisti; né la finanza avrà ragione di inferocire contro di esse.
Il vero pericolo all’attuazione del metodo del reddito distribuito nasce dall’art. 26, secondo il quale l’amministrazione finanziaria ha sempre facoltà di prescindere dai risultati dei bilanci prodotti quando le voci attive e passive dei bilanci medesimi si dimostrino non rispondenti a verità.
L’articolo in parola, dicesi, spalanca la via alla finanza per mettere in non cale il metodo ordinario della tassazione dei dividendi distribuiti; basterà che la finanza ritenga inattendibile il bilancio affinché essa si ritenga autorizzata a ricostruire il bilancio medesimo sulla base di apprezzamenti suoi arbitrari.
Osservano i critici che già ora, in molti casi, l’amministrazione finanziaria rifiuta di prendere atto dei risultati dei bilanci e procede in via che dicesi presuntiva alla ricostruzione della somma di reddito ottenuto dalla società. Per lo più la ricostruzione è fatta sulla base, consueta per i contribuenti privati, di una percentuale sulla cifra degli affari fatti. Oggi che la tassa generale di scambio, sulla base delle fatture, offre agevole il mezzo per poter valutare la cifra degli affari fatti dal contribuente, è grande la tentazione della finanza di abbandonare il bilancio ogni qualvolta l’applicazione della percentuale d’uso alla cifra degli affari dia luogo a un risultato maggiore di quello che si ottiene dall’esame dei bilanci. Se così si opera sin d’ora, quanto più frequente non sarà l’uso del prescindere dai bilanci ogni qualvolta la valutazione presuntiva dia luogo a risultati più favorevoli per la finanza di quello che si otterrebbe dalla considerazione dei redditi distribuiti?
L’obbiezione è importante e merita di essere presa in attenta considerazione; ma giova subito avvertire che non pare che la pratica di prescindere dai bilanci e di attenersi a valutazioni presuntive sia oggi così universalmente seguita come da taluno si pretende. Non consta che la finanza prescinda dai bilanci ogni qualvolta essi presentano caratteristiche intrinseche di sufficiente veridicità. La valutazione presuntiva indipendente dai bilanci pare che si restringa a quei casi nei quali dal bilancio stesso risultano impostazioni illogiche o nettamente contrastanti con le correlative impostazioni in cifre già risultanti da altri bilanci.
Se da un bilancio risulta, ad esempio, che una società ha pagato un milione di interessi passivi, in un determinato esercizio, a una banca o cassa di risparmio o ad altra ditta commerciale o finanziaria, ed esaminati i bilanci della banca o cassa o ditta corrispondente riscontrasi che gli interessi passivi sono stati nel medesimo periodo di tempo soltanto di 500.000 lire; e se a questa sconcordanza altre ugualmente rilevanti si aggiungono, che fanno fondatamente giudicare essere stato il bilancio artefatto allo scopo di trarre in inganno la finanza, pare che questa abbia ragione di prescindere dal bilancio stesso e di attenersi a valutazioni presuntive tratte, fra l’altro, anche dalla cifra di affari.
Sarebbe assai utile che l’amministrazione finanziaria pubblicasse in occasione delle sue lodate statistiche sulle imposte dirette, anche qualche dato il quale chiarisse l’importanza relativa delle valutazioni presuntive dei redditi degli enti collettivi in confronto alle valutazioni legali in base al bilancio. Si vedrebbe così quale sia il peso da darsi alle critiche che troppo spesso si sentono contro l’arbitrio dei funzionari nel prescindere dalla base di tassazione dovuta dalla legge.
Ad ogni modo, la pratica attuale non è ragione sufficiente per dedurne che uguale sarà la pratica dell’avvenire quando il criterio di tassazione sia mutato, poiché l’art. 26 dà diritto alla finanza di prescindere dai risultati dei bilanci soltanto quando le voci attive e passive dei bilanci stessi si dimostrino non rispondenti a verità. Il momento risolutivo del problema sta in ciò che si deve badare alle voci attive e passive le quali interessano la finanza a “norma del metodo nuovo di tassazione”. Dovendo invero essere tassati soltanto i redditi distribuiti, è chiaro che importerà soltanto la eventuale falsità delle voci attinenti alla distribuzione del reddito. La finanza, cioè, non potrà indagare se sia stato “prodotto” un reddito maggiore di quello risultante dal bilancio, ma soltanto se sia stato “distribuito” un reddito maggiore di quello che il bilancio stesso denunzi come tale. Può darsi cioè che la finanza abbia argomento per ritenere che gli azionisti, a cui il bilancio dichiara di dare 10 lire per azione, abbiano ricevuto nascostamente altre 10 lire e che similmente clandestine ripartizioni siano state fatte agli amministratori.
In tal caso l’amministrazione avrà facoltà di prescindere dal bilancio per ricercare quali siano state le “vere” in confronto alle “dichiarate” distribuzioni di utili. Non avrà cioè essa facoltà di andare ricercando fatti attinenti alla produzione del reddito, i quali non la interessano né punto né poco.
Se si ritiene che l’art. 26 non sia sufficientemente perspicuo, esso dovrà essere chiarito in modo che risulti in maniera ineccepibile quale sia il suo esatto significato; e questo non può logicamente essere altro che quello che ora è stato esposto.
«Il preteso privilegio delle società a redditi misti». – Una obbiezione al criterio di tassare il reddito distribuito invece di quello prodotto deriva dalla circostanza che non tutte le società distribuiscono esclusivamente redditi da esse medesime prodotti. Se così fosse, l’obbiezione – e lo si vedrà subito senz’altro dal contesto del discorso – non sorgerebbe. Non sorgerebbe neppure nel caso di quelle società a tipo finanziario, che in Inghilterra sono chiamate “Holding Companies”, società le quali non esercitano direttamente una qualsiasi attività industriale ma si giovano del loro credito per raccogliere capitali ed investirli in azioni o partecipazioni di altre società; i cui dividendi, sotto deduzione delle spese e perdite di gestione, esse a loro volta redistribuiscono ai propri azionisti. Il reddito che essi ottengono è tutto reddito derivato ed avendo perciò già assolto l’imposta quando il reddito medesimo fu distribuito dalle società che si potrebbero chiamare di primo grado, esso deve necessariamente essere esente quando venga una seconda volta distribuito dalle società di secondo grado, cosidette finanziarie. Lo stesso si dica per le società immobiliari, le quali ricavano redditi esclusivamente dal possesso di terreni o di fabbricati. Avendo i loro redditi assolto rispettivamente le imposte sui terreni e sui fabbricati civili, le società non possono essere tenute a pagare alcunché a titolo d’imposta di ricchezza mobile nel momento della distribuzione che esse facciano di un reddito già altrimenti tassato. Ed è finalmente chiaro che se esistesse una società, il cui reddito derivasse unicamente dal possesso di titoli di Stato od altri esenti da imposta di ricchezza mobile, la società non potrebbe essere tassata con la imposta stessa sol perché essa distribuisse tra i propri azionisti un reddito in sé medesimo esente.
Pare invece che sorga un problema nel caso di figure miste di società, le quali esercitino attività industriali e da questo esercizio ricavino direttamente redditi e riscuotano, d’altro canto, dividendi di azioni che hanno già assolto l’imposta di ricchezza mobile, redditi immobiliari che hanno già assolto l’imposta sui terreni e sui fabbricati o redditi di titoli esenti dall’imposta.
Potrebbe darsi che una società producesse un reddito che chiameremo industriale diretto di 5 milioni di lire e riscuotesse, dai valori di portafoglio, altri 5 milioni di lire già tassate o esenti dall’imposta di ricchezza mobile.
La società, la quale non volesse pagare nulla a titolo di imposta di ricchezza mobile, potrebbe distribuire un dividendo complessivo di soli 5 milioni di lire imputandolo totalmente ai redditi già tassati o esenti ed affermare di non dover essere affatto colpita dall’imposta di ricchezza mobile sul reddito distribuito.
Pare che la finanza possa opporsi a questo ragionamento osservando che se furono distribuiti soltanto 5 milioni di lire di dividendo, nulla dimostra che i 5 milioni debbano imputarsi soltanto ai 5 milioni di redditi già tassati o esenti o non piuttosto ai 5 milioni di reddito diretto industriale. E potrebbe anche sostenersi che l’imputazione debba essere fatta un poco all’una e un po’ all’altra categoria di redditi. La qual tesi, se fosse accolta, condurrebbe dritti alla necessità di dovere valutare il reddito industriale diretto per poter calcolare quale sia il suo ammontare in rapporto al reddito di secondo grado tassato o esente, e per poter appurare quanta parte dei 5 milioni di lire di dividendo distribuito sia tassabile e quanta debba essere immune dall’imposta.
Ecco, a questo punto, rovinare senz’altro tutto il laborioso edificio creato con la costruzione del concetto di reddito distribuito; concetto che era stato elaborato esclusivamente allo scopo di sottrarsi alla necessità di valutare il reddito prodotto. Le società avevano invero invocato e ripetuti disegni di legge avevano ordinato che si dovesse tassare il reddito distribuito appunto allo scopo di evitare le irritanti discussioni intorno al “quantum” del reddito prodotto. Se le discussioni non possono evitarsi a che giova la riforma del metodo di tassazione?
Né si dica che l’obbiezione riguarderebbe un minimo numero di società, e precisamente quelle soltanto le quali riscuotano redditi già tassati o esenti ed insieme producano redditi industriali diretti; poiché trattasi appunto di sapere se ciò accade e la certezza si ottiene se non esaminando a fondo tutti i bilanci, ossia ricadendo nel vizio della inquisizione nella formazione dei bilanci che si voleva appunto evitare. D’altro canto con l’intricarsi progressivo dei rapporti economici, diventano sempre più numerose quelle società, le quali debbono necessariamente interessarsi in altre imprese o posseggono case o terreni o hanno dovuto sottoscrivere a prestiti pubblici o sono state consigliate ad investire riserve in titoli di Stato.
«Si dimostra che il privilegio è insussistente». – La obbiezione, se calzante, riguarderebbe un così gran numero di società da fare considerare, senz’altro, vana la riforma, per la impossibilità di conseguire il fine principale che essa si proponeva. Se la riforma dovesse approdare a niente altro che a costringere a valutare due redditi, quello prodotto e quello distribuito, invece di uno solo, quello prodotto, essa non diminuirebbe ma crescerebbe le complicazioni presenti e perciò sarebbe da respingere.
Tuttavia dopo meditazione non breve e non aliena di momenti di incertezza, la conclusione a cui sarei arrivato sarebbe quella di tenere fermo all’opinione antica della preferibilità del nuovo metodo. Perché invero sarebbe, nel caso di società a reddito misto, necessario di valutare il reddito prodotto?
La necessità sorgerebbe se le società a reddito misto ottenessero qualche favore per il fatto solo che esse imputassero fino a concorrenza, come evidentemente farebbero tutte, ai redditi già tassati o esenti il dividendo distribuito. Affermo invece che esse, così operando, userebbero di un loro buon diritto e non godrebbero di alcun favore in confronto alle altre società.
La società, che sopra si è immaginato, la quale ha un reddito industriale di 5 milioni e un reddito di secondo grado, già tassato o esente, di altri 5 milioni e distribuisce 5 milioni di dividendo, ha ben diritto a non pagare l’imposta su questi 5 milioni.
Non ha forse essa già assolto il debito tributario in altra sede (per tassazione di ricchezza mobile a carico della società di primo grado o tassazione di imposta sui terreni o sui fabbricati a suo carico) o non ha forse diritto di giovarsi delle esenzioni che, esplicitamente, sono state concesse dal legislatore ai titoli esenti? Essa, è vero, non paga nulla per gli altri 5 milioni di reddito industriale diretto che pure ha incassato, ma paga forse l’altra società che, avendo guadagnato 10 milioni di reddito industriale diretto, ne distribuisca soltanto 5? Anche qui la finanza non può nulla percepire dai 5 milioni guadagnati e non ripartiti e può tassare soltanto i 5 milioni ripartiti, somma uguale a quella che è tassata, sebbene in altra sede, a carico della società a redditi misti. Non esiste alcuna disuguaglianza di trattamento ed è invece perfetta la rispondenza dell’applicazione al concetto da cui muove la riforma.
«L’obbiezione di sperequazione rivolta dalle società al rimedio di aumento di aliquota per passaggio di categoria, proposto a titolo di indennizzo all’erario». – Se bene si guarda, la sola obbiezione fondamentale rimane quella della possibile perdita per la finanza. E qui furono messi innanzi diversi rimedi che importa discutere.
Il disegno di legge Meda aveva ricercato il rimedio nel passaggio dei redditi delle società per azioni dalla Cat. “B” tassate con 15 per cento alla categoria “A – 1” tassate con l’aliquota del 18 per cento. Se il medesimo concetto fosse applicato con le aliquote vigenti in virtù del decreto – legge 16 ottobre 1924, n. 1.613, i redditi delle società sarebbero tassati per il biennio 1925-1926 con l’aliquota del 24 invece che con quella del 18 per cento, per il biennio 1927-1928 con l’aliquota del 22 invece che con quella del 16 per cento; e dopo l’1 gennaio 1929 con l’aliquota del 20 invece che con quella del 14 per cento.
Probabilmente l’aumento ivi contemplato di un terzo nell’aliquota non sarebbe sufficiente a compensare del tutto la finanza della perdita immediata, ma si potrebbe passare oltre per la innegabile forza di ricupero che sopra fu chiarita.
Le società muovono tuttavia al sistema un’obbiezione. Esse dicono che, aumentando ora l’aliquota, per esempio, dal 18 al 24 per cento, la finanza può bensì ricuperare la perdita sofferta per il passaggio dalla tassazione di una quantità maggiore – reddito prodotto – alla tassazione di una quantità minore – reddito distribuito -; ma si offende la giustizia tributaria, perché l’aumento di aliquota graverebbe su tutte le società mentre la riforma nel metodo di tassazione andrebbe a favore, in particolar modo, delle società, le quali potessero astenersi dal distribuire tutto il reddito prodotto e tanto più le favorirebbe quanto più alta fosse la percentuale del reddito mandato a riserva sul reddito totale.
La constatazione è esatta; non pare esatta la obbiezione che le società ne traggono contro l’aumento dell’aliquota. Il reclamo contro la ingiustizia avrebbe fondamento se talune società fossero forzate a distribuire tutto il reddito mentre altre fossero libere di mandarne una quota notevole a riserva, sottraendosi così all’imposta cresciuta; ma così non è. Gli amministratori delle società sono liberi di ripartire il reddito prodotto nel modo che ritengono più opportuno ed il legislatore ha appunto voluto premiare quegli amministratori che sono più prudenti e si astengono da ripartizioni eccessivamente pronte e larghe. In media, si deve ammettere che la proporzione fra la somma attribuita a dividendo e quella attribuita a riserva non sia del tutto arbitraria ma dipenda dalle particolari circostanze in cui ogni società deve muoversi sia rispetto ai rischi industriali e commerciali che essa corre sia rispetto alla sua età, alla forza già acquisita o all’avviamento ancora da conquistare. Paga maggior copia proporzionale di dividendi quella società che è già forte, che già possiede larghe riserve, che ha un’organizzazione amministrativa e tecnica grazie a cui è in grado di resistere alle bufere economiche; mentre devono mandare una quota maggiore del reddito prodotto a riserva le società, le quali si trovano nella loro infanzia, che hanno dovuto subire vicissitudini amministrative o superare traversie commerciali.
L’imposta sul reddito distribuito si adatta elasticamente alle condizioni in cui si trovano le società, colpisce i forti e risparmia i deboli; laddove invece la tassazione sul reddito prodotto colpisce alla stessa stregua cifre di reddito aritmeticamente uguali ma economicamente ben diverse rispetto alla loro capacità di sopportare l’imposta.
Pare adunque che l’obbiezione mossa al rimedio dell’aumento dell’aliquota sia contraria al principio fondamentale da cui muove la riforma medesima.
«È invece inattuabile il rimedio della sovrapposizione di una imposta generale sul capitale sociale più le riserve». – Non ugualmente favorevole è il giudizio che si deve dare ad un altro rimedio, messo innanzi per indennizzare la finanza. Il rimedio consisterebbe nel conservare al livello attuale l’imposta sul reddito distribuito in categoria “B” e nell’aggiungere all’imposta di ricchezza mobile un’imposta, ad esempio, del 0,50 per cento sull’ammontare del capitale versato, più le riserve. Il rimedio avrebbe lo scopo di assoggettare a tassazione anche le società, le quali non ripartissero dividendi o li ripartissero in una misura inferiore all’ammontare del reddito prodotto. L’imposta del 0,50 per cento del capitale versato più le riserve si converte, al saggio di frutto dei capitali e riserve medesime del 5 per cento, in un’imposta del 10 per cento sul reddito.
Coloro che hanno fatto la proposta si illudono che essa possa essere applicata senza complicazioni. Ed invece è evidente che, ove non si vogliano procurare doppie tassazioni, sarebbe necessario dedurre dalla somma del capitale più le riserve, il valore capitale dei terreni, delle case, dei titoli già tassati e dei titoli esenti che fossero posseduti dalle società per investimento del capitale e delle riserve.
Ciò imporrebbe la necessità di fare, anno per anno, valutazioni di valori capitali non solo dei titoli tassati e dei titoli esenti, per cui potrebbe trovarsi qualche fonte di informazione nelle contrattazioni di borsa e nei valori accertati ai fini della imposta di negoziazione, ma altresì dei terreni e delle case, per cui, a quanto si sappia, non esistono periodiche valutazioni legali.
Sormontato questo ostacolo gravissimo, rimarrebbe ancora da calcolare in qual misura il capitale e le riserve si siano investite nei terreni, nelle case e nei titoli sopradetti; perché volendosi evitare duplici tassazioni bisognerebbe conoscere in qual misura il capitale e le riserve si siano investiti in altre attività industriali o commerciali. Non esiste corrispondenza esatta tra capitale e riserve da una parte e valore delle attività patrimoniali dall’altra, ben potendo queste essere coperte da conti correnti passivi, obbligazioni, debiti cambiari o chirografari, ecc., ecc. Ricadremmo perciò, in pieno ed in maniera ancora più intricata, nel problema della valutazione delle partite di bilancio, che era l’ostacolo da cui il metodo della tassazione dei redditi distribuiti ci aveva voluti trarre.
Se si vuole dunque indennizzare la finanza, nel periodo di tempo transitorio, per la perdita che essa dovrà subire, l’unico sistema corretto pare sia quello dell’aumento di aliquota su tutto il reddito e soltanto sul reddito distribuito che non sia esente o non sia già stato in altra sede tassato. Tale rimedio è conforme al principio a cui la riforma si ispira, non produce alcuna ingiustizia ed avvantaggia precisamente quelle intraprese le quali meritano favore.
[1] Fra cui va ricordata la tesi sostenuta ripetutamente dallo scrivente che la tassazione degli incrementi di valore patrimoniale (avviamenti, plusvalenza, aumenti di valore delle aree fabbricabili, ecc.) sia un duplicato della tassazione degli incrementi di reddito, senza di cui non si concepisce incremento di valore patrimoniale. Il duplicato, per essere accolto, deve essere giustificato con ragioni diverse da quella erronea che l’incremento patrimoniale meriti per sé medesimo di essere tassato.
[2] Come è noto, nel disegno di legge Meda chiamavasi “normale” la unica imposta sostituita alle preesistenti (e rimaste in vita) imposte sui terreni, sui fabbricati e sui redditi di ricchezza mobile.