La ricchezza d’Italia distrutta dalla guerra?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/07/1919
La ricchezza d’Italia distrutta dalla guerra?
«Corriere della Sera», 29 luglio[1], 2[2] e 10[3] agosto 1919
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 322-332
I
Il sofisma degli 80 miliardi del debito pubblico
La guerra ha lasciato dietro di sé uno strascico di menzogne convenzionali, già confutate ripetutamente ed altrettanto sfrontatamente ripetute da chi ha voglia ed interesse di creare nella nazione vittoriosa l’atmosfera della sconfitta. Una, forse la più impressionante, di queste menzogne convenzionali è quella della scomparsa di tutta la ricchezza italiana, dell’annichilamento della fortuna del nostro paese a profitto non si sa di chi. Parrebbe, a sentir taluno, che della distruzione si fossero giovati gli alleati fornitori di munizioni, di alimenti e di materie prime. Secondo altri i profittatori sarebbero compatriotti nostri i quali a prezzo di innumeri «delitti» avrebbero lucrato sulle immense sciagure della patria.
Nel quale ultimo caso avremmo almeno la consolazione che la refurtiva essendo rimasta in paese non avrebbe dovuto d’altrettanto scemare la ricchezza paesana.
Prima però di rispondere al quesito: chi ha profittato della rovina economica del paese? – bisogna aver risoluto affermativamente il quesito fondamentale: l’Italia ha visto scomparire la sua ricchezza in conseguenza della guerra?
Badisi, per essere chiari, che se anche si rispondesse negativamente alla domanda, non se ne dovrebbe perciò dedurre la conseguenza affatto diversa che l’Italia non abbia subito alcun sacrificio per fatto della guerra. Noi possiamo avere sacrificato ricchezze maggiori – relativamente – degli alleati; le privazioni subite dalle popolazioni italiane possono essere state più dure di quelle sopportate da americani e da inglesi; il peso dei tributi che noi dovremo sopportare potrà essere doppio o triplo di quello altrui, senza che si debba giungere alla mostruosa conclusione che tutta la ricchezza italiana siasi inabissata nei gorghi della guerra.
Il buon senso medesimo ci dovrebbe insegnare che quanto più grandi furono i sacrifici subiti dagli italiani durante la guerra e maggiori perciò i nostri titoli ad adeguati risarcimenti e conguagli di debiti, tanto minore dovette essere la distruzione della nostra ricchezza preesistente. Se veramente noi avessimo distrutta questa, se l’avessimo consumata, se essa si fosse ridotta a zero, come favoleggiano taluni arrabbiati provocatori di malcontento ciò vorrebbe dire che gli italiani sarebbero vissuti durante i quattro anni di guerra in mezzo ad un’abbondanza mai più veduta, ad orgie di consumi ignote per secoli alle nostre morigerate popolazioni. Consumare la ricchezza accumulata in secoli di lavoro non si può se non a prezzo di baldorie carnevalesche. Delle quali non essendosi vedute tracce, se non presso ceti fortunatamente ristretti, ed essendovi invece prove sicure delle privazioni e delle rinunce valorosamente subite dalla grandissima maggioranza degli italiani, giuocoforza è concludere che la tesi della scomparsa della ricchezza italiana in conseguenza della guerra è una fandonia ridicola ed assurda.
Essa si fonda tutta, del resto, su due cifre inesatte ed interpretate a sproposito. L’una è quella che valutava la ricchezza italiana prima della guerra ad 80 miliardi; l’altra è la cifra del debito pubblico attuale annunciato dall’on. Schanzer per l’appunto in 80 miliardi circa. Siccome le due cifre sono uguali, così si conclude facilmente: ecco che il debito pubblico ha assorbito tutta la ricchezza italiana. Questa non esiste più e si è tramutata in una immensa negazione. La ricchezza italiana è come una casa totalmente coperta da ipoteche. Il suo valore è zero.
Mettere in luce il tessuto di sofismi di cui è composta questa affermazione non è impresa facile.
Innanzitutto non è vero che la ricchezza italiana ammontasse prima della guerra ad 80 miliardi di lire. Questa è una valutazione che rimonta a 20 o 30 anni fa. La valutazione più probabile del 1914 si aggirava, secondo il Gini, l’indagatore più accreditato in materia, a 100-110 miliardi.
In secondo luogo gli 80 miliardi di debito pubblico odierno comprendono i 15 preesistenti prima del 1914. Il debito di guerra avrebbe trangugiato, al massimo, il 60% della ricchezza italiana esistente nel 1914.
In terzo luogo le cifre di 110 miliardi di ricchezza e di 80 miliardi di debito non sono paragonabili tra di loro. I primi 110 miliardi sono composti di lire antiche, prima della guerra; i secondi 80 di lire nuove attuali. C’è tra le due specie di lire una differenza come dal giorno alla notte. Tant’è vero che se oggi si rifacesse la valutazione della ricchezza italiana in lire attuali, rimpicciolite di valore, la si troverebbe enormemente aumentata. Le valutazioni in proposito variano da 160 a 400 miliardi. Probabilmente la ricchezza italiana in lire attuali non può essere valutata in una cifra inferiore a 200-250 miliardi. Con ciò non si vuole affatto asserire che essa sia realmente raddoppiata. No. È raddoppiato solo il suo nome in lire, ognuna delle quali si è ridotta alla metà di prima. Ma la cifra nuova di 200-250 miliardi ha un’importanza notabile rispetto al peso del debito pubblico. Anche questo, di 80 miliardi, è espresso in lire nuove. Lo stato non è debitore di lire antiche, ma di lire correnti oggi, aventi un piccolo potere di acquisto. Ecco perciò che, se fosse esatta l’immagine della casa coperta di ipoteche, l’Italia avrebbe ipotecato solo un terzo circa della sua casa, 80 miliardi su 200.
Ma nemmeno così abbiamo una immagine erronea della realtà. Quegli 80 miliardi a chi sono dovuti? Per 20 miliardi a stranieri e questa è vera passività controbilanciata solo dal nostro eventuale credito per indennità dovuteci dai nemici. Degli altri 60 miliardi i creditori sono italiani. Epperciò per quanto possa essere spiacevole l’esistenza del debito pubblico, essa in realtà ha questo significato: che una parte notevole, 60 miliardi, della ricchezza nazionale è rappresentata da titoli di credito di italiani verso altri italiani. La ricchezza italiana non deve essere diminuita di questi 60 miliardi. Essa è soltanto spostata per questo ammontare da certi italiani a certi altri italiani. Ma esiste sempre ed è sempre di proprietà nostra.
Si può ancora aggiungere che, se verrà creato un buon sistema tributario, simile a quello delineato nel progetto Meda, che tassi anche i portatori di titoli di debito pubblico, sarà anche falso asserire che l’esistenza di un debito interno di 60 miliardi significhi asservimento dei poveri a vantaggio dei ricchi. Perché le imposte necessarie a pagare gli interessi del debito pubblico saranno pagate suppergiù dalle medesime classi che possiedono i titoli di debito pubblico. Non dalle stesse persone nella precisa misura del loro possesso; ma certamente dalle medesime classi. Sicché mancherà l’ultimo pretesto dell’Italia, almeno delle sue masse lavoratrici.
Frattanto è certo fin d’ora che la ricchezza italiana non è scomparsa; che la vera passività gravante sulla ricchezza italiana è solo uguale alla differenza fra il debito estero di 20 miliardi e l’ammontare realizzabile dei crediti verso i nemici; che il debito interno è solo uno spostamento interno di fortune da italiani ad italiani; che esso non tocca se non un terzo della ricchezza privata italiana; e che dipende intieramente dalla nostra buona volontà di far sì che lo spostamento si operi nel senso della medesima classe sociale.
Nonostante la evidenza delle quali osservazioni, i propagandisti della sconfitta e della dissoluzione sociale seguiteranno a ripetere all’infinito la fandonia della scomparsa della ricchezza italiana. E troveranno gente pronta a credere a questa, come ad ogni altra frottola, sebbene tutti possano vedere e toccar con mano che le terre coltivate, le piantagioni, le fabbriche, le case, le ferrovie, i porti ecc. ecc. esistono tuttavia e danno pur sempre da vivere ai 38 milioni di italiani.
II
I sacrifici non furono vani
Uno scrittore dell’«Avanti!» pretende di dimostrare ridicolo ed assurdo il ragionamento in base al quale noi abbiamo cercato di mettere in evidenza che il debito pubblico di 80 miliardi, di cui 65 dovuti alla guerra, non ha distrutto la ricchezza nazionale. Ma poiché il ragionamento era inconfutabile, rimane quello che era, sicché lo stesso scrittore del giornale socialista è costretto ad ammettere: che gli 80 miliardi di debito sono appena un terzo dei 240 miliardi della ricchezza nazionale; e che 60 su 80 sono inoltre un semplice spostamento interno di ricchezza. Questa è la nostra tesi ed essa rimane incrollabile contro gli svalutatori della vittoria i quali vorrebbero far credere al buon pubblico che gli 80 miliardi di debito pubblico hanno ingoiato tutta la ricchezza d’Italia e che improvvisamente e misteriosamente non esiste più la penisola e che terreni, case, fabbriche, miniere, scorte sono scomparsi, lasciando i 38 milioni d’italiani sospesi in aria a vivere non si sa di che.
Ma l’«Avanti!» pretende di farci dire cose che noi non abbiamo pensato mai e vuole risposte categoriche a domande che non riguardano la nostra tesi.
Il debito di guerra non impone forse, ci si chiede, la necessità di forti imposte e l’impossibilità di adempiere a fini urgenti di pubblico interesse? E noi replichiamo chiedendo qual mai giornale italiano abbia predicato, con insistenza uguale alla nostra, la necessità di forti imposte gravanti su tutti coloro i quali le possono pagare, non importa quale sia il loro nome, capitalisti, industriali, proprietari di terre, professionisti, operai, ecc., i quali abbiano un reddito che la coscienza civica italiana non consideri meritevole di esenzione. Il sacrificio in misura progressiva deve essere sopportato da tutti coloro i quali sono atti al sacrificio. Aggiungiamo che esso sarà sopportato tanto più volentieri in quanto i fini raggiunti – sicurezza dei confini, distruzione dell’impero austroungarico, elevamento della coscienza nazionale, – sono tali da legittimare il pagamento delle relative imposte. Se ci saranno altri fini, sociali o di ricostruzione economica, veramente degni e fecondi da raggiungere, i mezzi si dovranno trovare e sarà sempre conveniente pagare imposte per attuarli. Ed in ogni caso, le imposte a pagarsi non saranno distruzione di ricchezza, ma semplice spostamento.
Forse che dal 1915 al 1919 la ricchezza italiana sostanziale, non quella monetaria, che è pura forma, non diminuì per effetto delle distruzioni della guerra?
E chi mai, è agevole rispondere a quest’altra interrogazione, ha sostenuto la tesi strampalata che una guerra si faccia per arricchire? Noi dicemmo soltanto e ripetiamo, contro le sfrontate menzogne dei creatori della convinzione della disfatta, che la guerra ora finita non ha distrutto la ricchezza nazionale. Se essa sia sostanzialmente maggiore o minore di prima confessiamo di non saperlo. Non ignoriamo le controversie che in argomento si combattono tra statistici ed economisti; e preferiamo di astenerci da una espressione di opinione recisa, che non avrebbe per ora bastevoli fondamenti di fatto. Sappiamo che il popolo italiano sopportò grandi sacrifici, dovette ridursi ad un tenor di vita spartano, specialmente nelle classi del medio ceto ed in alcune categorie agricole. Grazie a questi sacrifici gran parte della ricchezza preesistente alla guerra fu potuta conservare. Non sappiamo se fu potuta conservare tutta; e se i nuovi impianti, le nuove strade, le nuove ferrovie, il nuovo spirito di operosità dei rimasti a casa, il tecnicismo imparato dalle nuove maestranze compensino a sufficienza le scorte consumate, i terreni devastati nel Veneto, gli impianti vecchi logorati, le ferrovie invecchiate e non rinnovate. Forse no. E di ciò sarebbero indice i 20 miliardi di debito estero, che rappresentano merci consumate e non ancora pagate. Ma non ci cambi le carte in tavola lo scrittore avversario e non ci attribuisca tesi che non furono mai nostre. Sovratutto non cerchi di far passare per una sconfitta e per un disastro quella che fu una grande vittoria del popolo italiano: i sacrifici sopportati durante la guerra, grazie a cui esso non alienò agli stranieri se non una piccola parte della sua fortuna e serbò alle venture generazioni la massima parte della ricchezza accumulata nei secoli. Gli italiani non sono disposti a lasciarsi defraudare del vanto di che è segno della nobiltà della loro stirpe morigerata e perseverante.
III
Rimborsare il debito con l’imposta patrimoniale?
Nell’articolo di fondo pubblicato sul numero del 29 luglio di questo giornale La ricchezza d’Italia distrutta dalla guerra? È stata sostenuta la tesi che, mentre la ricchezza italiana valutavasi prima della guerra in 80 miliardi di lire, non sarebbe giusto contrapporvi l’odierno debito pubblico di 80 miliardi. Le due quantità non sono comparabili, perché non omogenee. Trattasi nel primo caso di lire vecchie apprezzate, nel secondo caso di lire nuove deprezzate. Volendo fare un paragone esatto occorre paragonare il debito odierno alla ricchezza nazionale odierna, la quale non può essere stimata a meno di 200-250 miliardi di lire. Se si fa il paragone corretto, il debito pubblico uguaglia solo un terzo della ricchezza nazionale.
La tesi del «Corriere» è esatta e parmi inconfutabile. Naturalmente, quella tesi non voleva dire né che il debito pubblico facesse parte o diminuisse la ricchezza nazionale, né che le perdite di guerra si identificassero con il debito dello stato. La tesi non voleva risolvere nessuna delle sottili controversie relative al costo della guerra; ma solo mettere in luce la scempiaggine assurda di certe affermazioni dissolventi. Naturalmente ancora, la esposizione della tesi, costretta nei limiti ferrei di un articolo, non ha potuto tener conto di tutte quelle considerazioni complesse, le quali illuminano il problema sotto i suoi vari aspetti e giovano ad integrare la conclusione fondamentale.
Su uno di questi aspetti particolari del problema mi sia consentito di interloquire; riassumendo in poche parole i ragionamenti sottili e le dotte controversie, le quali in vari paesi, e specialmente in Inghilterra, fioriscono intorno alle proposte di riduzione della circolazione cartacea e di rimborso del debito di guerra per mezzo di un’imposta straordinaria patrimoniale.
Sta bene, si può osservare, che il debito odierno di 80 miliardi è solo un terzo della ricchezza nazionale odierna, di 200-250 miliardi, supponiamo di 240 miliardi. Ciò sarebbe di grande conforto se noi potessimo rimborsare subito il debito finché la ricchezza rimane elevata a causa del deprezzamento della lira. Ma se il debito non si rimborsa subito, e nel frattempo la lira, per la riduzione nella massa dei biglietti circolanti, torna ad essere apprezzata, ecco che i terreni, le case, gli impianti industriali torneranno a valer di meno in lire buone, per esempio solo 150 miliardi. Essendo il debito rimasto fermo sugli 80 miliardi, esso sarà di nuovo una metà e più della ricchezza nazionale.
La deduzione logica di questo ragionamento parrebbe la seguente: dato che il debito pubblico ammonta oggi ad 80 miliardi su 240 di ricchezza nazionale; dato che si voglia per ora mantenere il rapporto attuale di 1 a 3 fra debito pubblico e ricchezza nazionale, bisogna ridurre proporzionatamente il debito di tanto quanto si ridurrà in avvenire, per effetto della rivalutazione della lira, la ricchezza del paese.
Oggi si hanno 80 miliardi di debito in lire piccole contro 240 di ricchezza nazionale pure valutata in lire piccole. Domani, fra 5 anni, quando la ricchezza nazionale fosse ridotta a 150 miliardi in lire grosse, in lire nuovamente apprezzate, bisognerebbe che il debito pubblico non sorpassasse i 50 miliardi, per non eccedere la proporzione di un terzo. Poiché il debito di 80 miliardi si divide all’ingrosso in 15 miliardi di debito antico, 20 di debito nuovo estero, 35 di debito nuovo interno ad interesse e 10 miliardi di debito in biglietti eccedenti la circolazione antica, si dovrebbero rimborsare i 10 miliardi di debito in biglietti ed almeno 20 sui 35 miliardi di debito interno nuovo ad interesse. Rimarrebbero in vita solo i 15 miliardi di debito antico, i 20 miliardi di debito nuovo estero, diminuiti delle indennità ricevute dal nemico, e 15 miliardi di debito nuovo interno; in totale 50. Ecco, perciò, la opportunità di un’imposta straordinaria sul patrimonio-fruttifera da 20 a 25 secondo le dichiarazioni dell’on. Nitti al «Matin» – la quale permetta di ritirare tutti i 10 miliardi di circolazione eccedente ed una buona parte del debito fruttifero interno di guerra.
In fondo, è questa la argomentazione più valida che si può finora adottare a favore dell’imposta straordinaria sul patrimonio. Le altre valgono pochissimo. Quella che più comunemente si adduce, essere la leva sul patrimonio necessaria per togliere di dosso al paese la camicia di Nesso di un enorme debito pubblico non vale pressoché nulla. È evidente infatti che, se i contribuenti sono i medesimi, come possono essere, classe per classe, è indifferente rimborsare il debito pagando d’un colpo 80 miliardi di imposta patrimoniale, ovvero conservare il debito e pagare 4 miliardi annui d’imposta sul reddito. Chi paga 80 miliardi subito, non ha più i 4 miliardi del relativo reddito; o chi paga i 4 miliardi di imposte annue, è come fosse privato degli 80 miliardi del relativo patrimonio. Ci si può girare attorno quanto si vuole, ma questo resta il fatto fondamentale, il nucleo essenziale di verità: da cui si deduce che l’imposta patrimoniale straordinaria è la stessa precisa cosa di un’imposta annua sul reddito. Le differenze sono nei particolari, nelle modalità, negli effetti sul risparmio e sulla produzione; e da questo punto di vista pare a me che l’imposta patrimoniale straordinaria sia decisamente e notevolmente, specie in Italia, inferiore all’imposta annua sul reddito.
Il vero argomento a favore della imposta patrimoniale straordinaria è quello tratto dalla opportunità di rimborsare subito il debito. Bisogna affrettarsi a rimborsare il debito di guerra, almeno in parte, finché siamo in tempo a rimborsarlo in lire svalutate. Se si mette un’imposta straordinaria patrimoniale da pagarsi subito, i contribuenti sentiranno minor sacrificio perché la pagheranno in lire svalutate prelevandola da un patrimonio artificialmente ingrossato in moneta; e lo stato rimborserà il debito in moneta svilita, ossia nella stessa moneta in cui ha ricevuto l’ammontare del prestito. Se invece si attende molto tempo a rimborsare, e si rimborsa in piccolissime frazioni annue, i contribuenti saranno maggiormente gravati, perché pagheranno l’imposta annua sul reddito in moneta gradatamente crescente di valore, prelevandola da un reddito e da un patrimonio scemato in moneta. Lo stato dal canto suo pagherà interessi e rate d’ammortamento ai suoi creditori in moneta buona, mentre ha ricevuto il prestito in moneta cattiva.
L’argomento, sebbene grave, non ha però una portata decisiva. In primo luogo, è pura illusione sperare che una imposta straordinaria di 20 o 25 miliardi possa essere pagata d’un colpo. Ho già spiegato che se si volesse farla pagare subito, lo stato dovrebbe rassegnarsi a ricevere un bric-a-brac di pezzi di terra, di appartamenti, di macchine, di scorte, di titoli buoni e cattivi. Una confusione ed uno sconquasso indicibili e senza costrutto per il tesoro. Bisogna consentire ai contribuenti di pagare a rate, in un numero sufficiente di anni. Ed è perciò inevitabile che lo stato rimborsi il debito di guerra non nella moneta d’oggi, ma nella moneta che correrà fra due, fra cinque, fra dieci anni.
In secondo luogo, il pericolo di dovere rimborsare il debito pubblico in moneta buona, mentre lo stato ne ha ricevuto il valsente in moneta gradatamente peggiore, non deve forse consigliare una grande prudenza nella rivalutazione della lira?
Il problema è grave e si può qui di scorcio a mala pena porlo. La massa di biglietti di banca e di stato in 14 miliardi in confronto dei 3,5 di prima della guerra è eccessiva ed è la maggiore responsabile degli alti prezzi, del caro-viveri e del disagio in cui si trovano parecchie categorie di italiani. Qualunque ulteriore aumento è deprecabile, direi delittuoso. D’altro canto un’improvvisa diminuzione della massa circolante dei biglietti da 14 a 3,5 produrrebbe dissesti e malanni ugualmente perniciosi come quelli che produsse l’aumento. Molte imprese rimarrebbero senza capitale circolante, i fallimenti si moltiplicherebbero, i prezzi andrebbero giù, le mercedi dovrebbero essere violentemente ridotte, attraverso a resistenze ostinate. Un nuovo periodo di agitazioni si aprirebbe per il paese. Fu dannoso e pericoloso il rialzo dei prezzi; ma il ribasso rapido sarebbe ugualmente pericoloso e minaccioso. Sarebbe inoltre sommamente ingiusto per lo stato e per i contribuenti. Questi oggi possono pagare in lire svalutate i 4 miliardi di interessi sugli 80 miliardi di debito; domani dovrebbero pagarli in lire rivalutate, con loro gravissimo sacrificio. I creditori dello stato che ora assorbono 4 miliardi sui 30 o 40 del reddito nazionale, domani ne assorbirebbero 4 su 15 o 20. Essi diverrebbero una classe davvero privilegiata in confronto alle altre.
La conclusione forse più ragionevole a cui si può arrivare è questa: che nel rivalutare la lira si debba procedere con prudenza. Forse basterebbe ritirare per ora, in un anno o due, quattro sui 14 miliardi dei biglietti circolanti. Ciò basterebbe probabilmente, insieme con la riapertura dei traffici, con la libertà del commercio, con la ripristinata concorrenza estera ed interna a togliere il troppo aspro nel rialzo dei prezzi, quella parte del rialzo a cui non ci siamo ancora adattati. Se i prezzi che ora sono il triplo e più di quelli antichi, si riducessero al doppio, si tirerebbe il fiato. A prezzi doppi la grandissima maggioranza della popolazione ha oramai fatto l’abitudine; né , avendo redditi doppi, ne risentirebbe alcun vero danno. Molti starebbero anzi meglio di prima; e quelle classi che ancora sarebbero danneggiate non avrebbero una strada troppo lunga da fare per ritrovare l’equilibrio.
Si aggiunga che è assai più facile trovare i mezzi, con l’annunciata imposta straordinaria sul patrimonio, di rimborsare 4 miliardi di biglietti e 10 miliardi di debito interno fruttifero che non 10 miliardi di biglietti e 20 di debito. Temo che l’on. Nitti, il quale ama tanto guardare la realtà nel bianco degli occhi, si sia fatta qualche illusione su ciò che può rendere un’imposta sul patrimonio. A meno di usare metodi terroristici alla russa ed all’ungherese – ed in tal caso il provento dell’imposta sfumerebbe per altri motivi – ove non si voglia rovinare il medio ceto e deprimere lo spirito di risparmio, fa d’uopo tenersi moderati nelle aliquote, larghi nelle esenzioni e nelle detrazioni per carichi di famiglia, ragionevoli nella rateazione.
Osservazioni queste, le quali corroborano la conclusione raggiunta dianzi, essere opportuna una grande prudenza nell’opera, che pure deve con risolutezza essere iniziata, della rivalutazione della lira. Lo consigliano l’interesse dei cittadini, il vantaggio dell’erario e la necessità di non ostacolare la ripresa dell’economia nazionale e di non provocare nuovi conflitti di classe.