La reazione contro l’imperialismo
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 08/07/1901
La reazione contro l’imperialismo
«La Stampa», 8 luglio 1901
Da qualche anno gli amici, che le idee inglesi di libertà politica ed economica, di iniziativa individuale, di ossequio e di difesa delle cause nobili e giuste, contano nel mondo, codesti amici disinteressati e fedeli, tra cui non sono poco numerosi gli italiani, avevano ragione di cordoglio e tristezza.
Un vento di follia pareva essere passato sulla nazione che aveva pure offerto nel secolo XIX l’esempio più insigne di operosità e di espansione pacifica e meritatamente gloriosa. L’inglese appariva non più sotto le sembianze del mercante intraprendente del coloro ardimentoso moventi alla vittoria sulla via dell’onesto lavoro, ma sotto le spoglie del soldato anelante a conquistare imperi colla forza delle armi, brutalmente ed ingiustamente.
E con dolore si vedeva che in questo orgoglioso tentativo la gloriosa imperatrice dei mari si appigliava agli strumenti più condannati dalla filosofia politica liberale che forma la gloria del pensiero britanno. Era uno spettacolo triste per molti; e fu quindi con un vero e profondo sentimento di sollievo che negli ultimi mesi si videro i primi segni di una reazione contro la follia imperialista, militarista e protezionista che pareva dovesse travolgere l’Inghilterra contemporanea. La reazione cominciò nel giornalismo.
Il Daily News, il magno organo liberale londinese, dopo avere per un anno ceduto alle tendenze imperialiste ed aver visto scendere enormemente la sua circolazione, ritornò all’antico indirizzo, propugnando una politica remissiva verso i boeri e facendo appello agli istinti liberali del popolo per opporsi al trionfo del più brutale giingoismo.
Dopo riacquistarono la voce, da mesi perduta, anche i deputati dell’Opposizione liberale alla Camera; e mentre prima il Campebell-Bannermann non osava quasi opporsi alle proposte governative per ragione di patriottismo, si moltiplicarono i discorsi, e con energia raddoppiata si contrastò il terreno al Governo.
È vero che alcuni dei liberali colsero l’occasione delle dichiarazioni anti-imperialiste dei capi del partito per affermare che essi al contrario ritenevano la guerra contro i boeri giusta e doverosa; ma la secessione di Asquith sembra avere infuso nuovo vigore nelle file del partito liberale fedele alle sue tradizioni; sicché il Campebell-Bannermann ancora ieri proclamava alla Camera dei Comuni che il Governo era colpevole quando voleva distruggere qualsiasi vestigio della nazionalità boera.
Dai giornali e dal Parlamento la reazione si estende nelle masse. Chiamati a pagare le spese delle imprese imperialiste, i ricchi ed i borghesi mormorano contro il rialzo dell’income tax, i commercianti ed il popolo minuto contro il rincaro dello zucchero, i minatori minacciano di scioperare, in segno di protesta, contro il dazio di un scellino sul carbone.
Sono mormorii e minacce per ora; e sono rimpianti dei bei tempi in cui sir Robert Peel e Gladstone riducevano l’income tax, abolivano il dazio sul carbone e dichiaravano che lo zucchero, il dolce cibo delle donne e dei bambini, non doveva essere tassato. Ma se le elezioni si rifacessero oggi, i mormorii ed i rimpianti salirebbero tanto alto da abbattere forse la potenza del Gabinetto unionista, che mesi fa sembrava incrollabile, e da dare la vittoria a quei Little-Englanders, che negli anni scorsi non osavano quasi più parlare, per la paura di essere creduti contrari all’imperialismo trionfante.
Ma che cosa è codesto imperialismo inglese di cui siamo andati ricercando i sintomi di decadenza? Ce lo dice Olindo Malagodi, un italiano geniale che, in alcuni anni di dimora a Londra, come corrispondente di giornali, ebbe campo di studiare a fondo le trasformazioni recenti dell’animo inglese e di descriverle in un libro acuto e brillante su l’Imperialismo – La civiltà industriale e le sue conquiste. (Milano, Fratelli Treves). È un libro che fu finito di scrivere il 26 gennaio di quest’anno, quando il fenomeno imperialista era ancora al suo apogeo; ma è un libro degno di essere letto e meditato anche ora, che di quella follia già si additano nell’Inghilterra medesima disastrosi effetti.
Che cosa dice in sostanza il Malagodi?
L’imperialismo per lui è il segno della decadenza di quei popoli che hanno saputo essere creatori di imperi. Per anni e per secoli un popolo lavora ad un’opera grandiosa; e lavora, senza accorgersene, per sentimento profondo del proprio dovere, per accrescere il benessere dei figli e per l’ambizione onesta di vedere ampliarsi a poco a poco sotto i propri occhi l’impresa che dal lavoro nacque e col lavoro si ingigantì.
Un po’ per volta il popolo laborioso si arricchisce, acquista novelle energie intellettuali e novelle forze materiali, utilizza ogni parte del territorio patrio e si espande pacificamente all’estero. I suoi figli colonizzano i terreni deserti, si impiantano stabilmente nelle colonie, drizzano emporii commerciali sulle rive dei mari lontani e dei fiumi giganteschi dei tripici, scavano metalli preziosi, slanciano ferrovie attraverso i continenti.
E l’impero è sorto ed è giunto alla sua gloria più fulgente senza che gli artefici dell’opera gigantesca abbiano dubitato mai che essi stavano innalzando, pietra a pietra un edificio così maestoso. Essi l’hanno creato quest’impero lavorando serenamente e spargendo dappertutto nel mondo i principii del lavoro e della libertà che sono anche i principii dell’indipendenza dei popoli e dell’autonomia dei coloni. Ma nel momento in che l’impero è sorto a tanta grandezza, si manifestano i primi germi di un fenomeno nuovo. I figli di coloro che hanno creato l’opera geniale, più non vogliono faticare come i padri; e nel tempo stesso si esaltano per l’orgoglio soddisfatto e si impaurano per la tema che l’egemonia venga tolta al paese imperiale.
Sorge allora l’Imperialismo, che è la degenerazione dello spirito creatore dell’impero, degenerazione fatta di orgoglio smisurato, di credenza in una missione storica da compiere anche a dispetto del volere degli altri popoli, e ad esaltazione perenne del popolo imperiale. Sorgono allora Chamberlain, lo statista dell’imperialismo, che sogna di federare le vaste parti dell’impero, divenute rigogliose nell’aria ossigenata della libertà per lanciarle alla conquista delle terre straniere e per difendere i mercati contro le minacce nascoste di vicini laboriosi; Cecil Rhodes, il conquistatore di territori deserti ed il suscitatore di guerre contro un popolo di contadini, che si oppone colla tenacia rustica ai progressi trionfali del capitalismo colonizzatore; e Rudyard Kipling, il poeta della passione imperialista.
Ma quando l’imperialismo sorge, l’impero volge al tramonto. Accanto al popolo che si esalta nella gloria imperiale raggiunta e si arresta sulla via del progresso assorto nella contemplazione di se stesso, altri popoli sono sorti, i quali, oscuramente e tacitamente lavorano e tacitamente spargono per il mondo i propri figli, i propri commerci e gittano le basi di quello che un giorno sarà un impero nuovo, grandeggiante al luogo di quello che ora decade.
Questa è stata la storia di tutti i grandi imperi: orientali, romano, spagnuolo e francese. Ora è la volta dell’impero inglese. Il giorno in che è apparso per la prima volta l’imperialismo inglese ha segnato l’inizio della curva discendente del colosso imperiale britanno.
Questa previsione pessimista corrisponde essa alla realtà? O la follia imperialista inglese non è che un fenomeno passeggero provocato da circostanze transitorie?
La reazione odierna contro l’imperialismo ed il linguaggio assennato di molti giornali e uomini politici inglesi farebbero ritenere più probabile la seconda opinione.
Speriamo che in essa sia la verità, perché ancora non si vedono i germi di un altro impero il quale sia destinato a difendere principii più giusti di quelli che l’impero britannico, attraverso a momentanee aberrazioni, ha diffuso nel mondo.