La questione degli spiriti: un abisso senza fondo per lo stato e l’aggravarsi della crisi vinicola
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/06/1909
La questione degli spiriti: un abisso senza fondo per lo stato e l’aggravarsi della crisi vinicola
«Corriere della Sera», 15[1], 18[2] e 25[3] giugno 1909
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 711-728
I
La legislazione fiscale sugli spiriti non è mai stata inspirata in Italia al chiaro e semplice concetto di dare un reddito cospicuo al tesoro pubblico, giustamente colpendo i contribuenti a seconda delle loro ricchezze. Se obbedisse soltanto a questo elementare principio, il tributo sulla fabbricazione degli spiriti sarebbe l’ideale delle imposte sui consumi, essendo difficile scoprire un consumo più voluttuario e più nocivo nel tempo stesso degli spiriti: voluttuario e quindi attissimo ad essere colpito da tributo, anche alto, essendosi sicuri di colpire redditi destinati volontariamente dai loro possessori al soddisfacimento di un bisogno individuale di gran lunga meno importante dei bisogni collettivi della difesa nazionale, della giustizia, dell’istruzione cui lo stato provvede mercé l’imposta; nocivo e quindi tale da doversi lodare grandemente lo stato che, elevando con l’imposta il prezzo dello spirito, contribuisce efficacemente a ridurne il consumo. Quello che è vizio in altre imposte sui consumi, diventa virtù grandissima nell’imposta sugli spiriti; e si capisce perché come tutti gli stati vadano a gara nel colpire gli spiriti con elevatissimi tributi, sia per ragioni fiscali, sia sotto l’impulso della propaganda antialcoolica 220 lire per ettolitro in Francia, 245 in Russia, 268 nell’Olanda, 300 lire nel Belgio, 305 lire negli Stati uniti, 355 lire nella Norvegia e 537 lire nell’Inghilterra, che oggi il cancelliere dello scacchiere vuole crescere di altre 100 lire circa.
In Italia lo scopo fiscale – morale di tenere elevati con l’imposta i prezzi dello spirito e dei liquori allo scopo di dare un opportunissimo provento al fisco e di reprimere il consumo di una sostanza nociva è ostacolato da una circostanza di molto peso economico – politico: dall’essere noi un paese produttore di vino. In questi ultimi anni specialmente, le crisi vinicole, ripetute a breve distanza l’una dall’altra, indussero viticultori, enti locali, associazioni a chiedere soccorso al governo; ed a chiederlo sovratutto sotto forma di favori alla distillazione del vino, vinello e vinacce. «Poiché del nostro vino non sappiamo cosa farcene – esclamano i viticultori – ci sia consentito almeno farne dell’alcool! I consumatori italiani e stranieri che non vogliono saperne di bere tutta la quantità eccezionale di vino che le favorevoli stagioni ci regalano, lo berranno trasformato in spiriti, liquori, cognac, vermouth, marsala, o magari lo brucieranno sotto nome di alcool denaturato. Poiché il vino è una materia prima costosa e che a parità di condizioni non può assolutamente reggere alla concorrenza delle altre materie prime, granoni, melasse, ecc., con cui si può produrre l’alcool, è d’uopo che il governo ci aiuti concedendo favori specialissimi agli spiriti di vino».
Né il governo, spinto da potenti considerazioni politico – regionali, fu sordo alle voci dei viticultori. A parecchie riprese il regime fiscale degli spiriti fu rimaneggiato in guisa da costituire oramai una intricatissima matassa, che io non mi attenterò certo a sbrigliare tutta in un breve articolo. Basti dire che il regime normale, per le fabbriche con misuratore (e queste comprendono la massima parte della produzione nazionale) è questo: la imposta nominale sugli spiriti è di 200 lire per ogni ettolitro a 100° (già una delle tasse più tenui dei paesi civili, impulso inescusabile all’alcoolismo); ma’ poiché si concedono abbuoni variabili a seconda delle diverse qualità di spirito prodotto, non vi è neppure un ettolitro di spirito che paghi questa pur tenue tassa. Teoricamente l’abbuono dovrebbe concedersi solo per tener conto dei cali e delle perdite di distillazione e raffinazione; mentre in realtà varia a scopo protettivo. Le fabbriche di spirito ricavato dalle sostanze amidacee, dai residui della fabbricazione e raffinazione dello zucchero (melasse), dalle barbabietole, ecc., godono di un abbuono del 10% e pagano 180 lire per ogni ettolitro di spiriti. Le fabbriche di alcool di vinaccie, se «non cooperative» godono di un abbuono del 25% e pagano lire 150 per ettolitro; se «cooperative» del 28% e pagano 144 lire. Le fabbriche di alcool di vino o vinello, se «non cooperative» hanno l’abbuono del 35% e pagano 130 lire, se «cooperative» l’abbuono è del 40%, riducendosi la tassa effettiva a 120 lire per ogni ettolitro. Ciò in via normale; in via eccezionale è noto come sia stato prorogato ripetutamente per tutto il 1908 e per i primi mesi del 1909 un aumento di abbuono all’alcool di vino, portato al 40% per le fabbriche non cooperative (lire 120 di tassa effettiva) e del 45% per le fabbriche cooperative (lire 110 di tassa effettiva). Lo scopo degli abbuoni normali ed ancor più di quelli eccezionali concessi in così larga misura all’alcool di vinaccie e di vino era evidentemente quello di consentire ai viticultori, massime se riuniti in cooperative, uno sbocco al loro vino sovrabbondante.
Né i favori si limitano a questi. Poiché la legge in vigore consente ai distillatori l’abbuono non sulla tassa ma sullo spirito; il che vuol dire che un distillatore privato di 100 ettolitri di alcool di vino invece di pagare la tassa di 130 lire (200 meno il 5% di abbuono) per tutti i 100 ettolitri prodotti, può dividere il suo spirito in due parti: l’una di 6 ettolitri, schiava di tassa di 200 lire per ettolitro e l’altra di 5 ettolitri, assolutamente libera da tassa. Apparentemente è la stessa cosa, perché tanto vale pagare 130 lire per ettolitro su 100 ettolitri (tassa totale lire 13.000), quanto pagare 200 lire per ettolitro su 65 ettolitri (tassa totale lire 13.000). Il guaio si è che il distillatore comincia ad immettere nel consumo i 35 ettolitri di spirito, costituenti l’abbuono in natura e liberi perciò da qualunque tassa; e gli altri 6 ettolitri li potrà immettere in consumo, subito pagando la tassa, quando ciò gli torni conveniente, essendo elevati i prezzi degli alcools sul mercato. Data la pletora di alcools immessi in franchigia, è difficile che ciò accada; ed allora soccorre un’altra scappatoia espressamente voluta dal legislatore.
Sempre per favorire l’industria vinicola, che qui assumeva la specie di industria dei cognac, lo stato ha offerto invero ai distillatori il mezzo di non pagare la tassa nemmeno sui 6 ettolitri rimasti teoricamente soggetti all’intiera tassa di 200 lire per ettolitro. Infatti essi li possono introdurre senza cauzione e senza pagamento di tassa nei cosidetti magazzini fiduciari per cognac, versarli in fusti di legno, di ferro, di rame o di cemento, e lasciarli stare lì per almeno 3 anni. Alla fine del terzo anno essi hanno diritto di estrarre tre decimi dello spirito così depositato e che si suppone sia diventato – non di fatto, ma per definizione legale – cognac ed immetterlo nel consumo senza pagare alcuna tassa; e in seguito possono estrarre ogni anno, sempre in franchigia, un decimo dello spirito depositato, sicché alla fine dei 10 anni tutto lo spirito sarà entrato in consumo senza pagare all’erario neppure un centesimo di tassa. Non importa che il cognac debba avere, per essere tale, non più di 65 gradi e che esso debba avere un profumo ed un gusto speciali, che non si acquistano nelle botti di ferro o di cemento. Il legislatore ha voluto dare i suoi favori anche al cognac a 100ø e anche al cognac che di tale non ha se non il nome legale.
Finalmente – e mi fermo qui per non andare troppo per le lunghe – se il detentore di alcools schiavi dell’intiera tassa di 200 lire (quei 65 ettolitri dell’esempio fatto sopra), li esporta all’estero in natura o dopo averli aggiunti a vini, liquori, ecc., sia subito sia traendoli in qualunque momento a suo piacimento dai magazzini fiduciari di cognac, egli godrà fino all’ammontare massimo di 50.000 ettolitri all’anno per il complesso degli esportatori di alcools dell’abbuono o restituzione dell’intiera tassa. Cosicché i 35 ettolitri (che per le cooperative sono 40 e che in realtà per tutto il 1908 e il 1909 furono, per i provvedimenti eccezionali sovra ricordati, 40 ettolitri per i privati e 45 per le cooperative) di alcools lasciati introdurre nel consumo interno senza pagamento di tassa, perché si supponeva che la tassa di 200 lire fosse integralmente pagata dagli altri 65 (o 60 o 55) ettolitri, rimangono senza il dovuto contrappeso e la tassa non si sa da chi e quando si sarebbe finita di pagare.
Lo stato non poteva tardare ad accorgersi delle conseguenze disastrose del congegno da lui stesso volutamente formato. In via normale il consumo e la produzione dell’alcool in Italia raggiungono al massimo i 350.000 ettolitri, di cui 150.000 ricavati dalle melasse, 20.000 dai cereali (tutti questi paganti la tassa effettiva di 180 lire per ettolitro), 80.000 dalle vinaccie e 100.000 dal vino. Si può calcolare che nel solo 1908 l’alcool di vino immesso nel consumo senza pagamento di tassa grazie al sistema degli accresciuti abbuoni in natura sia salito a 170.000 ettolitri, diminuendo moltissimo il consumo delle altre specie di alcool. Contemporaneamente, per poter immettere in franchigia una siffatta straordinaria quantità d’alcool, era necessario utilizzare al massimo i magazzini di cognac e l’esportazione; e si calcola infatti che siano stati esportati 50.000 ettolitri di alcool con abbuono o restituzione completa di tassa e siano stati depositati nei magazzini d’invecchiamento ben 170.000 altri ettolitri. Se l’erario nulla perdeva per quello che si riferisce agli alcool esportati all’estero, in se stessi considerati, perdeva pere una somma ingente sugli spiriti che erano, in corrispondenza ad essi, stati immessi nel consumo interno senza pagamento di tassa e vedeva avvicinarsi a poco a poco il danno di perdere tutta la tassa sugli spiriti depositati nei magazzini di cognac. Nella relazione al disegno di legge di modificazioni al regime fiscale degli spiriti, che il governo ha presentato alla camera il 18 maggio 1909, per riparare ai danni più gravi della sua politica fiscale, così è descritto l’andamento delle riscossioni di tassa negli ultimi anni:
1905-906 | L. 52.331.523 |
1906-907 | L. 38.928.554 |
1907-908 | L. 34.519.242 |
1908-909 (primi 10 mesi) | L. 12.666.289 |
Sono circa 20 milioni di perdita che al minimo si avranno alla chiusura dell’esercizio in corso a causa di questa disgraziata faccenda degli abbuoni allo spirito di vino e delle facilitazioni ai pretesi cognac. A quanto si legge, li perdita derivante dagli abbuoni straordinari all’alcool di vino toccherà anzi al 30 giugno i 33 milioni di lire ai quali aggiungendo altri 42 milioni di perdita probabile futura sui cognac già immagazzinati a termini di legge, si ha una perdita complessiva di circa 75 milioni di imposta per l’erario pubblico.
Quali i benefici risultati di una perdita così ingente di reddito fiscale? Che si poterono distillare circa 5 milioni di ettolitri di vino, i quali furono pagati ai viticultori a non più di 70 centesimi il grado alcoolico, ossia in tutto non più di 5 milioni di lire. Che si è creata al posto, o meglio in aggiunta, della crisi vinicola una crisi degli alcool. Tutta la enorme massa di spirito prodotta negli esercizi 1907-908 e 1908-909 preme sul mercato italiano ed ha fatto ribassare per modo i prezzi che l’alcool da 315 lire circa al quintale al principio del gennaio 1908 discese a poco a poco a 250 lire nell’aprile scorso, togliendo ogni convenienza alla produzione degli spiriti di cereali e melasse e riducendo talmente anche il margine d’utile che si può avere dalla distillazione del vino, che i distillatori dovettero discendere ad offerte sempre minori per il vino; sicché questo da 85 centesimi per grado ettolitro discese a meno di 60 centesimi e discenderà ognor più, se continua la pletora sul mercato degli spiriti.
Si sperava insomma, concedendo favori di ogni sorta alla distillazione del vino, di risolvere la crisi vinicola, apprestando uno sbocco nuovo al vino trasformato in spirito. Ma il nuovo mercato fu presto saturo; e la crisi degli spiriti si ripercosse nuovamente sul vino, ridotto a vilissimo prezzo, malgrado il colossale salasso alle finanze pubbliche. Frammezzo a tutti questi dolenti – fisco, distillatori, viticultori – il solo lieto del disastro generale è il consumatore di alcools e di liquori. L’Italia fu reputata a lungo un paese sobrio, dove l’alcoolismo miete minori vittime che nel resto d’Europa. Anche questo vanto va diminuendo; e vari indizi ci ammoniscono sui pericoli gravi dell’inconsulto andazzo di andar diminuendo i prezzi dell’alcool nell’intento vano di curare le risorgenti crisi vinicole.
II.
Non l’urgenza di salvare dall’abbrutimento alcoolista le nostre popolazioni, ma il pericolo crescente della scomparsa di ogni reddito per le finanze pubbliche persuase il governo a cercare di porre rimedio all’imbroglio della legislazione fiscale sugli spiriti, che cercai sopra descrivere con rapidi tocchi. Che i rimedi siano stati efficaci e giusti, niuno è che, anche a priori, osi sperare; poiché si tratta di una imposta la quale non potrà trovare un chiaro assetto se non il giorno in cui, lasciata ogni altra preoccupazione da parte, si inspiri ad un fine puramente fiscale-morale. Tassa alta ed eguale per tutte le qualità di spiriti, salvo gli abbuoni effettivamente dovuti per ragioni di diversità di calo, raffinazione ecc. ecco l’ideale della tassa sugli spiriti. Finché si vorranno raggiungere altresì scopi di aiuto alla viticultura sofferente, non si riuscirà ad altro fuorché a compromessi: poco utili allo stato e pressoché inutili alla lunga, se non dannosi, per la viticultura. Vediamo almeno se il compromesso oggi proposto sia qualcosa di meno peggio del compromesso fin qui in vigore.
Par certo che, per l’avvenire, le norme riguardanti l’industria della produzione del cognac saranno grandemente migliorate. Invece di dare il diritto di depositare alcool di qualunque gradazione, magari a 100 gradi, si stabilisce che si possano depositare solo alcools di buon gusto con una ricchezza alcoolica non superiore a 65 gradi. Sul qual punto nessuno solleva eccezioni, poiché il cognac si può fabbricare solo con spiriti di gradazione non superiore a 65. Invece di permettere il deposito in botti di legno, di ferro, di rame o di cemento, si richiede il deposito in soli recipienti di legno. Il che appare anche ragionevole, allegandosi soltanto da taluni che i fusti debbano essere vecchi per dare allo spirito il sapore caratteristico dei cognac. Difficoltà questa, di trovare fusti vecchi, d’indole transitoria che non infirma la bontà della proposta governativa. Anche vuole il governo che si abbandoni il vecchio metodo di concedere dopo 3 anni il ritiro di tre decimi dell’alcool depositato in franchigia e in ogni anno successivo il ritiro di un altro decimo insino a che alla fine del decennio tutto l’alcool sia stato ritirato senza pagamento di veruna tassa. Per il futuro invece alla fine del quarto anno si concederà l’estrazione magari di tutto l’alcool depositato dietro pagamento della tassa per cui lo spirito è gravato (tassa effettiva), diminuita dei quattro ventesimi; ed in ogni anno successivo l’abbuono di tassa crescerà di un ventesimo sino al dodicesimo anno; cosicché alla fine del dodicennio l’alcool potrà essere estratto pagando la tassa effettiva ridotta dei dodici ventesimi. Si afferma da qualche perito che l’abbuono è insufficiente e che l’industria dei cognac ne sarà danneggiata, non bastando l’abbuono dei dodici ventesimi della tassa a compensare i cali di raffinazione e di giacenza e le perdite di interesse durante il dodicennio. È questione tecnica che deve essere posta e risoluta sulla base di dati precisi i quali finora difettano.
Ciò per l’avvenire. Il governo non si è però voluto contentare di impedire che in futuro si costituissero depositi ingenti di pseudo-cognac in franchigia di tassa – e di far ciò aveva ben ragione -; ma volle, come è suo costume, rimangiarsi anche le promesse fatte in passato e sulla cui fiducia privati capitalisti avevano impiegato somme cospicue nel deposito degli spiriti. Invece di conservare agli spiriti già depositati la promessa franchigia, ora si vuole limitarla a quei cognac i quali siano diluiti a 65 gradi e posti in fusti di legno. Per gli spiriti che siano conservati, come permetteva la legge fin qui vigente, ad una gradazione alcoolica superiore e in botti di ferro, rame o cemento, si concederà solo l’abbuono di tanti ventesimi della tassa di lire 200 quanti furono gli anni di giacenza sino al massimo di un decennio; cosicché quegli spiriti che alla fine del decennio si sarebbero potuti ritirare in perfetta esenzione di tasse, ora pagheranno alla stessa epoca i dieci ventesimi di 200 lire, ossia lire 100 all’ettolitro a 100 gradi. Il danno per gli speculatori sarebbe piccolo se essi, entro i 6 mesi prescritti,’ potessero procurarsi i 400.000 ettolitri di fustame necessari per accogliere i 300.000 ettolitri di alcool, diluito a 65 gradi, che pare esistano oggi nei magazzini di cognac. Dicono però essi che è materialmente impossibile procurarseli entro i sei mesi e nemmeno farli fabbricare, data la potenzialità attuale dell’industria; cosicché la facoltà ad essi consentita si converte in illusione, anzi in vero tranello; e di fatto essi saranno costretti a pagare 100 lire di tassa per ogni ettolitro di quell’alcool a cui una legge dello stato aveva solennemente promesso l’esenzione.
Se le cose osservate dai capitalisti detentori di alcool sono vere, essi però devono della propria sciagura incolpare sovratutto se stessi. Le promesse fatte dallo stato erano troppo laute perché ci si potesse far sopra affidamento; dirò anzi che erano promesse disoneste perché andavano contro alle ragioni supreme dell’interesse pubblico. E vero che una persona proba e scrupolosa mantiene le fatte promesse, anche se esse sono esagerate, e paga l’interesse usuraio del 10 o 20% quando esso fu volontariamente stipulato. Perché hanno aspettato sino ad oggi i capitalisti ad accorgersi che lo stato non è una persona proba e scrupolosa osservatrice dei patti buoni e cattivi volontariamente stipulati? O non è noto che lo stato italiano ripetute volte mancò agli impegni solennemente conchiusi, quando a lui non fece più comodo osservarli? A ragionare colla diritta coscienza dei galantuomini, fece malissimo lo stato a promettere l’immunità da tassa agli pseudo-cognac; ma una volta fatta l’indebita promessa, doveva mantenerla. Il ragionamento non è acconcio, giova riconoscerlo, alla coscienza elastica dello stato, il quale può sempre dire mi piace mancare ai patti, quia nominor leo. Imparino i capitalisti a non essere ingordi e a non prestar fede alle promesse dello stato, quand’esse sono troppo laute.
Nessuna obiezione credo si possa muovere ad un altro punto essenziale della riforma: ossia alla sostituzione degli abbuoni sulla tassa agli abbuoni in natura. Ho già spiegato come colla legge vigente il distillatore abbia diritto di ammettere nel consumo 35 ettolitri su 100 in franchigia da tassa, pagando lire 200 per ettolitro sui restanti 65. Il metodo, che si dice degli abbuoni in natura, ha avuto l’inconveniente di produrre sul mercato un ingorgo di spirito immune, mentre quello schiavo dell’intiera tassa di lire 200 prendeva altre vie, dei magazzini di cognac o dell’esportazione. Per l’avvenire l’abbuono si darà sulla tassa; cosicché il distillatore di vino pagherà per tutto l’alcool prodotto la tassa di lire 200, diminuita del 5%, ossia di lire 136 per ettolitro. I distillatori di altre materie godranno pur essi dell’abbuono solito calcolato sempre sulla tassa. Neppure un ettolitro potrà giungere al consumo senza avere assolto la tassa diminuita dell’abbuono. La riforma è ragionevole, toglie una fonte di gravi abusi e di perdite per lo stato e va lodata senza riserve.
Le percentuali degli abbuoni in vigore sono tutte mantenute, eccetto una, quella alle cooperative distillatrici di vino e di vinello. Il sistema vigente normale – ricordiamolo – concede alle fabbriche non cooperative di alcool di vino un abbuono del 35% ed alle cooperative del 40%. In via straordinaria l’abbuono è stato pere elevato persino al 50% e nel 1908 al 40 e 45% per le due qualità di fabbriche. La facoltà spettante al governo di elevare la misura dell’abbuono aveva dato luogo, dice la relazione ministeriale, ad agitazioni continue nelle regioni vinicole, talvolta artatamente create, sicché si propone venga senz’altro abolita. In compenso si eleva in maniera permanente la misura dell’abbuono alle fabbriche cooperative, ed a queste sole, al 45% della tassa. Lo spirito di vino prodotto dalle cooperative pagherà dunque solo 110 lire di tassa all’ettolitro, mentre quello non cooperativo pagherà ancora 130 lire; e lo spirito di cereali o melasse pagherà 180 lire.
Prima di dare un giudizio sulla opportunità della permanente e rilevante riduzione di tassa sullo spirito «cooperativo» di vino, importa di dire come all’insigne favore concesso alla viticultura se ne accompagni un altro. Finora agli alcools di vino o vinaccie esportati in natura all’estero veniva concesso l’abbuono di tutta la tassa di 200 lire, fino all’ammontare pere di soli 50.000 ettolitri all’anno. Il limite dei 50.000 ettolitri era richiesto perché, col metodo in uso degli abbuoni di tassa in natura, una esportazione all’estero di 50.000 ettolitri di alcool schiavi dell’intiera tassa di lire 200 voleva dire la immissione nel consumo interno di 17.500 ettolitri (il 35% di abbuono), liberi da tassa. Adesso col metodo degli abbuoni sulla tassa il pericolo non vi è più: tutto l’alcool di vino dovendo pagare la tassa di 130 o 110 lire all’ettolitro. Per favorire l’esportazione e costituire per il nostro vino convertito in spirito uno sbocco all’estero si propone di concedere ad ogni ettolitro di alcool di vino esportato all’estero un abbuono dei nove decimi della tassa intiera ossia di lire 180. Poiché quell’alcool paga in realtà solo la tassa di lire 130 o 110, la proposta vuol dire semplicemente questo: che ogni ettolitro di alcool di vino esportato all’estero, il quale ha pagato una tassa di lire 130 o 130, riceve all’atto della esportazione un rimborso di lire 180; ossia riceve un premio di lire 50 per ettolitro se prodotto da distillatori privati o di 70 se prodotto da cooperative. In altri termini, se noi supponiamo che per produrre un ettolitro di alcool a 100° siano necessari 9 ettolitri di vino, lo stato darà in avvenire un premio alla esportazione del vino trasformato in alcool, di lire 5,50 circa se il vino fu distillato da privati, di lire 7,70 se il vino fu distillato da cooperative. E ciò senza limite alcuno; lo stato dovrà pagare il premio di esportazione, sul vino, qualunque sia la quantità di vino esportata all’estero sotto forma di alcool, anche di 5 o 10 o 20 milioni di ettolitri.
Basta il sin qui discorso per mettere in chiaro l’enormità delle proposte. Per lenire la crisi vinicola si vogliono arrecare al paese ed al tesoro pubblico due gravi colpi:
- favorire la distillazione del vino per il consumo interno non in contingenze straordinarie di grossissimi raccolti, ma in maniera permanente. Ogni cooperativa, vera o falsa, di piccoli o grossi proprietari, di vignaiuoli o di latifondisti milionari, potrà fabbricare alcool di vino pagando solo 110 lire di tassa. È vero che il disegno di legge limita il privilegio alle «società cooperative di proprietari e coltivatori di fondi, legalmente costituite e lavoranti vino proveniente da uve prodotte nei fondi posseduti o coltivati dai soci». In realtà sarà difficile impedire le frodi, che già avvengono in non piccola misura oggidì, assumendo le cooperative la distillazione magari di tutte le uve del loro territorio. Gli alcoolisti e gli amatori di liquori in Italia avranno la grande soddisfazione di bere solo dell’alcool di vino, ed insieme potranno benedire la crisi vinicola che loro consente di pagare una delle più risibili e vergognosamente tenui tasse del mondo;
- concedere ad ogni ettolitro di vino esportato all’estero sotto forma di alcool «cooperativo», un premio di esportazione di circa lire 7,70 all’ettolitro. Se si pensa che a quel prezzo i viticultori oggi sono disposti a vendere tutti i vini mediocri che ingombrano le loro cantine, ciò vuol dire che lo stato, d’ora in poi, si farà compratore, a quel prezzo, di vino per qualunque, anche cospicua, quantità. Infatti pagare lire 7,70 ad ogni ettolitro di vino esportato sotto forma di alcool è la stessa precisa cosa che comprare sul mercato il vino a lire 7,70 all’ettolitro e regalarlo gratuitamente alle cooperative perché lo esportino all’estero. Le quali cooperative a loro volta potranno (e dovranno, perché non potrebbero per la concorrenza all’estero vendere a prezzi superiori) vendere l’alcool ai consumatori stranieri a un prezzo non superiore al puro costo della distillazione, calcolato come zero il costo del vino, che infatti fu loro regalato dallo stato coi denari dei contribuenti. Si può immaginare nulla di più grottesco di uno stato italiano che compra tutto il vino mediocre nelle nostre cantine per regalarlo – questa è la parola dura, ma vera – ai consumatori stranieri?
Un’altra ipotesi si può fare, ugualmente disastrosa per le finanze dello stato: che cioè il premio di lire 70 all’esportazione dell’alcool non possa essere dato in denaro, estandovi i trattati di commercio con parecchie nazioni straniere. Sarà giuocoforza darlo allora in natura, (o dove vanno le proposte fatte prima per sopprimere gli abbuoni in natura?) se non si vuole che la legge divenga lettera morta; ossia sarà d’uopo, per ogni ettolitro di alcool esportato all’estero, concedere l’immissione in franchigia nel consumo interno di tanto alcool quanto avrebbe dovuto pagare la tassa effettiva di 70 lire uguale al premio sull’alcool esportato. Se si pensa che sui 350.000 ettolitri di consumo interno, 100 mila circa sono di alcool denaturato, che già non paga tassa, un semplice calcolo basta a dimostrare che i restanti 250.000 ettolitri potranno essere immessi nel consumo interno in assoluta esenzione di tassa appena l’esportazione all’estero abbia raggiunto i 400.000 ettolitri. Poiché è probabile che questa cifra venga raggiunta, anche negli anni ordinari, ciò vuol dire che lo stato non incasserà nemmeno un centesimo della tassa sugli alcools; ed anzi correrà rischio di sborsare grosse somme in premi in denaro, se la esportazione supererà i 400.000 ettolitri e vi saranno paesi stranieri che accetteranno l’alcool premiato in denaro. È un abisso senza fondo, una voragine destinata ad ingoiare i fondi disponibili del bilancio italiano. È lecito, mentre premono tante necessità militari ed economiche, rovinare in siffatto malo modo le finanze dello stato?
Almeno con questo sacrificio si riuscisse ad attenuare la crisi vinicola! Invece esso la perpetuerà e la aggraverà. Procurare nuovi ed artificiali sbocchi al vino cattivo e mediocre è il peggior servizio che si possa rendere alla viticoltura nazionale. Solo i politicanti, che vogliono atteggiarsi a salvatori dell’economia nazionale, possono avere dimenticato questa verità evidente che le crisi non si curano perpetuando la causa del male. La crisi edilizia a Roma non fu curata permettendo ed imponendo alle banche di emissione di imprestare nuove somme ai costruttori di case. La causa della crisi era l’eccessiva costruzione di case ed era assurdo pretendere di toglierla di mezzo buttando sul mercato altre case ancora. Gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito. Oggi la viticultura soffre di crisi perché si coltiva la vigna in troppi luoghi disadatti, in pianura, dove il terreno produce vinello e non vino generoso. Bisognerebbe svellerle queste viti sovrabbondanti, perché la crisi finisse. Invece coi premi di esportazione, e colla sicurezza di vendere coll’aiuto dello stato tutto il vino cattivo, la sovraproduzione perdurerà e magari crescerà. Poiché vi sono terreni atti a produrre vino mediocre a lire 7,70 all’ettolitro, non mi meraviglierei punto se la superfice coltivata a vigna aumentasse. Se questa sia una politica sensata, lascio a tutti il giudicare. A disdoro nostro, ci penseranno gli stati stranieri a farci rinsavire. Già immagino le grida dei distillatori stranieri i quali si vedranno minacciati dalla concorrenza dell’alcool di vino premiato dallo stato italiano. Prepariamoci alle inevitabili rappresaglie, che saranno l’ultimo tristo frutto di una politica dannosa agli interessi dell’erario, fomentatrice dell’alcoolismo ed inutile, anzi perniciosissima, alla viticultura nazionale.
III
Colle modificazioni portate dalla giunta generale del bilancio (relatore l’on. Abignente) al disegno di legge per modificazioni al regime fiscale degli spiriti, il grave problema sembra avviarsi ad una soluzione, non certo ragionevole, ma assai meno pericolosa, per le finanze pubbliche e per le sorti della viticultura. La critica principale mossa al disegno di legge governativo si riferiva al premio concesso, per quantità illimitate, all’esportazione dell’alcool di vino. Diceva il progetto: i privati distilleranno quanto vino a loro piacerà pagando o rimanendo obbligati a pagare lire 130 di tassa per ettolitro, e le cooperative lire 110. All’atto della esportazione all’estero il governo rimborserà od abbuonerà non la tassa effettivamente pagata o dovuta, ma invece la somma di lire 180 per ettolitro. Era presto fatto il conto che i distillatori ricevevano all’atto dell’esportazione, se privati, un premio di lire 180-130 ossia di 50 lire per ettolitro se cooperative di lire 180-110, ossia di 70 lire per ettolitro.
Era anche facile vedere il pericolo gravissimo che la norma celava per la finanza dello stato. L’on. Abignente nella sua relazione calcola in 15 milioni di ettolitri la sovraproduzione di vino del 1908. Destinandone anche solo 12 milioni alla distillazione per l’estero, sarebbero circa 1.300.000 ettolitri di alcool che avrebbero potuto godere del premio di esportazione. A 60 lire in media, la somma sborsata dal governo avrebbe potuto giungere ad 80 milioni di lire, ossia lo stato in un anno solo di sovraproduzione di vino avrebbe dovuto spendere più del doppio dell’incasso totale della tassa sugli spiriti in due anni!
Il pericolo era così grave che giunta del bilancio e governo dovettero rimanerne colpiti e lodevolmente corsero ai ripari. Cosa curiosissima, mentre la relazione dell’on. Abignente si diffonde in modo minuzioso a spiegare le ragioni degli emendamenti, anche secondari, portati al disegno di legge governativo, su questo punto, che di esso costituiva l’errore più grossolano, non dice verbo. Anzi incidentalmente cerca di dimostrare che i danni della temuta esportazione premiata non sono eccessivi: ma lo dimostra non in base alle proposte governative, bensì ai suoi emendamenti. L’errore commesso era così inverosimilmente grosso che la giunta credette miglior partito passarlo sotto silenzio per evitare che alla camera se ne discorresse troppo.
Ecco ora quanto la giunta sostituisce alla vecchia proposta governativa. Invece di una «restituzione di tassa» di 180 lire per ettolitro e per una quantità illimitata di spirito esportato, si darà un «abbuono» od «accreditamento» di 200 lire per ettolitro fino al massimo di 50.000 ettolitri annui di spirito di vino e di vinaccia, e di 180 lire per altri 50.000 ettolitri di spirito di qualunque materia. Il maggior pericolo è tolto con la limitazione posta alla quantità di spirito da esportarsi con premio. Col metodo prima proposto dal governo si correva rischio di perdere in un anno solo di sovraproduzione il doppio del prodotto di un biennio di tassa. Colle nuove proposte, supponendo che i 50.000 ettolitri di spirito di vino siano esportati dalle cooperative, il premio sarà di lire 200-110 = 90 lire per ettolitro, ossia per 50.000 ettolitri, la perdita del fisco sarà di 4 milioni e mezzo di lire. Per diminuire alle cooperative il dispiacere di non poter più esportare in quantità illimitata, si è aumentato il premio da 70 a 90 lire per ettolitro e per 50.000 ettolitri. Per gli altri 50.000 ettolitri di spirito di qualunque materia, il premio (differenza fra 180 lire e la tassa pagata) sarà diverso a seconda delle materie prime adoperate, e calcolandolo in media a 30 lire per ettolitro, avremo un’altra perdita di 1.500.000 lire ed in tutto, con la precedente, di 6 milioni di lire all’anno.
È lamentevole che il tesoro italiano debba buttare via sei milioni di lire all’anno, senza nessun vantaggio utile alla viticultura, che si pretende di favorire, anzi con suo danno certissimo. Possiamo consolarci pensando che una perdita di 6 milioni è minore dell’altra di 30 o 40 che il disegno governativo minacciava.
È lamentevole ancora che si provochi quella perdita – minore o maggiore -, ben conoscendo la sua inutilità. Il relatore on. Abignente s’è fatto paladino della restrizione della cultura della vite, invocando anzi leggi stimolatrici e quasi coercitive al riguardo per porre adeguato rimedio alla crisi vinicola; ed ha aggiunto critiche vivaci contro il rimedio «assolutamente inadeguato» e come tale «esasperante» della distillazione di soli 4 milioni di ettolitri di vino per esportarlo sotto forma di spirito, notando che «il peggiore dei rimedi, a codesti fenomeni della produzione, è proprio quello che sicuramente non riesca al fine; perciocché, oltre al danno dell’erario è lo stato, è l’autorità dello stato che ne restano sminuiti di fronte alle popolazioni».
Come mai accada che il relatore della giunta generale del bilancio riconosca:
- unico rimedio alla crisi vinicola essere lo spiantamento delle viti nei luoghi disadatti;
- la esportazione di soli 4.000.000 ettolitri di vino, trasformato in 400.000 ettolitri circa di spiriti, essere rimedio inadeguato ed esasperante; e poi dopo aver tutto ciò dimostrato e spiegato, concluda col proporre di favorire con premi l’esportazione di 100.000 ettolitri di spiriti, ossia tutt’al più di 1.000.000 di ettolitri di vino, non si riesce a capire. Se la esportazione di soli 400.000 ettolitri è esasperante cosa mai dovrà dirsi di una esportazione massima di 100.000 ettolitri?
Un’altra dimenticanza si nota nella relazione Abignente, laddove non si dice il motivo per cui alle parole di «restituzione di tassa» si sono sostituite le parole «abbuono» od «accreditamento». Probabilmente il governo non avrebbe potuto dare in denaro il premio di 50 o 70 lire per ettolitro di spirito esportato, ostando a ciò i trattati di commercio con le nazioni straniere, ed il premio avrebbe quindi dovuto essere pagato in natura, colla immissione in franchigia nel consumo interno di una corrispondente quantità di spirito. La sostituzione delle parole «abbuono» ed «accreditamento» all’altra «restituzione di tassa» ha appunto questo significato. Invece di pagare lire 4.500.000 di premi ai 50.000 ettolitri di spirito di vino esportati all’estero, si accrediteranno i produttori – esportatori per ugual somma, autorizzandoli ad immettere nel consumo, se cooperative, ad esempio, ben 40.000 ettolitri di spirito in franchigia di tassa. Per gli altri 50 mila ettolitri di spirito di qualunque materia esportati all’estero, saranno 10.000 ettolitri circa che entreranno in franchigia nel consumo interno. Su 250.000 ettolitri di spirito consumati in Italia (oltre quello denaturato) ve ne sarà circa un quinto che in maniera permanente godrà dell’immunità da ogni imposta. Un quinto è meno del tutto, giova riconoscerlo ancora una volta, ma è pur sempre un sacrificio irragionevole. Tanto più che non si sa se questi premi, anche se dati in natura, siano legali, ovvero siano consentiti dai trattati di commercio. L’on. Abignente nulla risponde alle osservazioni che su queste colonne, sulla «Tribuna» e sovratutto da Edoardo Giretti sul «Lavoro» e sul «Sole» furono mosse in merito alla legalità dei premi, palesi o larvati, di esportazione. Il Giretti ha citato gli articoli dei trattati di commercio colla Svizzera, con la Russia, con la Rumenia, con la Serbia, con l’Austria-Ungheria, con la Germania, che sembrano vietare in modo chiarissimo siffatti premi. Citiamo, per brevità, solo gli articoli 7, 8 e 9 del trattato di commercio del 13 luglio 1904 tra l’Italia e la Svizzera:
Art. 7. I diritti gravanti la produzione, la preparazione o il consumo di un articolo qualunque non possono essere più elevati o più onerosi per gli articoli importati dall’uno dei due paesi sull’altro che per i prodotti indigeni.
Art. 8. I diritti come le tasse interne gravanti la produzione o la preparazione delle merci possono essere restituiti, in tutto od in parte, all’atto della esportazione dei prodotti che li hanno assolti o delle merci che sono state fabbricate cogli stessi prodotti. Ciascuna delle parti contraenti si impegna, per contro, a non accordare premio di esportazione per qualunque articolo e sotto qualsiasi titolo o qualsiasi forma, senza il consenso dell’altra parte.
Art. 9. I due governi si riservano la facoltà di colpire i prodotti alcoolici o fabbricati con alcool con un diritto equivalente ai pesi fiscali di cui è gravato, all’interno del paese, l’alcool adoperato.
La stessa disposizione per la clausola della nazione più favorita, si estende alla massima parte delle altre potenze, cosicché noi potremmo essere costretti a deferire la questione ad un tribunale arbitrale, il quale potrebbe, con grande nostro disdoro, dichiarare la legge interna italiana violatrice dei trattati di commercio.
Se la Svizzera in passato non ha protestato, ciò accadde perché la esportazione dello spirito era finora stata irrilevante; ma da 2.612 ettanidri nel 1906-907 era salita nel I907-908 a 11.482 ettanidri e nel 1908/909 toccò il massimo finora consentito di 50.000 ettanidri.
Anche senza ricorso a tribunale arbitrale, i paesi danneggiati potranno, ora che il massimo viene elevato a 100.000 ettolitri, ritorcere contro di noi il danno, colpendo le nostre fiorenti esportazioni di vini tipici, marsala e vermouth. Come mai si è lasciato passare sotto silenzio il gravissimo problema?
[1] Con il titolo La questione degli alcools. I disastrosi risultati della legislazione vigente. [ndr]
[2] Con il titolo Le riforme al regime degli alcol. Un abisso senza fondo per lo stato e l’aggravamento della crisi vinicola. [ndr]
[3] Con il titolo La legge sugli spiriti modificata. La questione internazionale. [ndr]