La psicologia di uno sciopero
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/10/1897
La psicologia di uno sciopero
«La Riforma Sociale», 15 ottobre 1897
Le lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino 1924, pp. 23-68
Lo sciopero è scoppiato il 6 settembre 1897 fra i tessitori e le tessitrici della Val Sessera nel Biellese, il quale trasse con sé quello degli altri operai addetti all’arte tessile, e nel momento in cui scriviamo (2 ottobre) si prolunga ancora dopo varie vicissitudini. Il centro in cui il conflitto fra operai e fabbricanti si manifestò, interessa vivamente perché sede antica di una delle più floride industrie italiane, l’industria laniera, e perché ivi la questione del lavoro assume una speciale fisionomia dall’ambiente territoriale e dalla condizione economica dei lavoratori.
L’industria laniera è diffusa a Biella e nei dintorni, nella Valle dello Strona (Cossato, Valle Mosso, Croce Mosso, ecc.), nella Val Ponzone e nella Val Sessera. Lo sciopero attuale, benché abbia colpito anche alcune fabbriche di Biella e della Valle dello Strona, rimase ivi finora sporadico e parziale; infierì invece a più riprese ed ora si estese specialmente su tutta la Val Sessera. A questa si riferiranno perciò specialmente le nostre considerazioni, non senza pero dare allo studio un carattere generale, specchio fedele dell’inchiesta fatta in parecchi fra i comuni dell’industre plaga biellese.[1]
L’industria dei pannilana venne introdotta nella Val Sessera intorno al 1840 dalle Ditte Bozzalla ed Ubertalli, le quali cominciarono allora ad aggruppare attorno a sé i numerosi sparsi tessitori che da antica data esistevano sulle montagne del Biellese. La sostituzione dell’attuale sistema della fabbrica, le cui caratteristiche sono: lavoro accentrato nell’opificio, soppressione assoluta del lavoro eseguito entro le pareti domestiche, al sistema antico di industria casalinga, in cui ogni operaio possedeva il proprio telaio a mano e lavorava nella sua casa quando ed in quel modo che gli piaceva, avvenne solo gradatamente. Cominciarono alcuni fabbricanti ad accentrare in sé la provvista di filati ai tessitori e la ricompra dei tessuti ad un determinato prezzo; ed a compiere in un opificio centrale le operazioni di finitura, coloritura, apprestamento, ecc. Comparse prima le mule-jenny e poi le self-acting, i fabbricanti intrapresero eziandio la filatura della lana greggia; introdotto finalmente il telaio meccanico, si costrinsero i tessitori ad abbandonare la loro indipendenza individuale ed a venire anch’essi a lavorare nella fabbrica gli uni accanto agli altri, sotto la guida e la disciplina del fabbricante. Il motore della rivoluzione industriale fu anche qui la necessità di sostituire al lavoro a mano solido, ma costoso, fonte di indipendenza, ma anche di gravi fatiche muscolari pei tessitori, il lavoro meccanico, rapido, a buon mercato, logorante poco le forze fisiche, se non le nervose, dell’operaio, solo mezzo per resistere alla concorrenza estera e per impedire che l’industria della tessitura, gloria secolare delle valli biellesi, andasse perduta per sempre. Ed il telaio meccanico trionfò della ostilità e della antipatia degli operai gelosi della loro indipendenza e riluttanti al lavoro accentrato della fabbrica. Rimangono ancora alcuni rari avanzi degli antichi telai a mano, conservati per usi speciali, come la preparazione dei campionari, che richiede cure ed attenzioni grandissime e si veggono lungo le vie campestri radi operai vecchi che si portano a casa sulle spalle il filato per trasformarlo in tessuto. Ma sono rimanenze di una età passata che vanno rapidamente scomparendo.
Ormai in tutte le valli del Biellese il telaio meccanico ha vinto la lotta sostenuta a lungo contro il telaio a mano, e popola le fabbriche che si seguono le une dopo le altre nel fondo delle verdi vallate, ed a cui la forza motrice è fornita gratuitamente dall’acqua che in abbondanza scende dalla montagna in numerosi argentei torrenti.
Durante le siccità invernali, quando i fiumi gelano ed il freddo impedisce alle nevi delle montagne di fondere e di alimentare nel basso le ruote idrauliche, queste sono sostituite dal carbon fossile inglese, pei lunghi trasporti divenuto costoso (da 7-9 scellini a Cardiff posto su nave sale a 35-38 lire a Coggiola in magazzino). Ma la vittoria del telaio meccanico sul telaio a mano, della forza motrice acquea sulla forza muscolare dell’uomo non e avvenuta senza attriti e senza lotte. Solo da una ventina d’anni si è compiuta la progressiva trasformazione del telaio a mano nel telaio meccanico. Gli scioperi del 1864-70-73-74-77 generali per tutto il Biellese, e di cui rimangono raccolte minute notizie nella Relazione della Commissione d’inchiesta del 1875, colpirono per riverbero la Val Sessera e furono una nota speciale, caratteristica, della trasformazione industriale che allora andava compiendosi. Gli operai che tessevano in casa loro, aiutati dalla intera famiglia, con orario irregolare, con giornate saltuariamente intense e prolungati ozi domenicali e lunediani, si ribellavano alla disciplina ferrea della fabbrica, colla sua apertura e chiusura ad ore fisse, col suo monotono lavoro di tutta la settimana. D’altra parte gli industriali male giudicavano la potenzialità di produzione degli operai col nuovo telaio meccanico, onde attriti sulla durata giornaliera di lavoro e sulla disciplina interna. Alla lotta pose fine la compilazione di un Regolamento generale unico da parte dell’onorevole Mancini consulente degli operai.
Lo sciopero, pur generale, del 1889, lasciò intatta la Val Sessera; durò parecchi mesi nella Valle Mosso e nel Biellese propriamente detto e vi si pose termine applicando una tariffa uniforme dei salari, compilata da un perito imparziale, scelto dalle due parti contendenti.
Nel 1897 la sospensione del lavoro è localizzata specialmente nella Val Sessera. Quali sono le condizioni dell’industria e delle classi operaie, ossia quale è l’ambiente economico in mezzo a cui gli scioperi attuali si svolgono?
Le fabbriche nella Val Sessera, come nelle altre valli, sono di tutte le gradazioni, da quelle che hanno 12 telai ed occupano una trentina di operai ai grandi opifici accentrati con 220 telai e 660 operai. Attualmente dopo molte scomposizioni e ricomposizioni per eredità nelle famiglie di industriali, dopo la fondazione di nuovi stabilimenti, le due fabbriche del 1840 sono diventate undici:
1 | Zegna-Baruffa | con | 12 | telai | e | 30 | operai |
2 | Giuseppe Regis | 15 | 35 | ||||
3 | Felice Lora-Totino | 40 | 140 | ||||
4 | Bruno Ventre, fratelli | 45 | 150 | ||||
5 | Trabaldo e Tonella | 45 | 150 | ||||
6 | Lora Stefano e fratelli | 90 | 260 | ||||
7 | Lesna Giacomo Tamellino | 89 | 290 | ||||
8 | Federico Bozzalla | 133 | 304 | ||||
9 | P. Ubertalli e figli | 120 | 325 | ||||
10 | Lanificio Cerino-Zegna | 220 | 360 | ||||
11 | Lanificio italiano | 70 | (inattivo) |
Gli stabilimenti ora detti producono articoli fini e ordinarii. Due stabilimenti producono articoli fini, l’uno (Ditta Bozzalla) pel consumo interno, l’altro (Ditta Cerino-Zegna) per l’esportazione. Il lanificio Cerino-Zegna, il maggiore del genere nella Val Sessera, si dedica specialmente però alla confezione di panni militari per conto del Governo. Tutti gli altri producono generi più o meno ordinarii. Nella Valle si studia e si cerca di tenersi al corrente delle continue mutazioni della moda. Ho ammirato dei magnifici assortimenti di panni fini, che ai consumatori vengono venduti per stoffa inglese, e su cui i fabbricanti hanno la precauzione di non mettere la marca di fabbrica. Conseguenza necessaria questa delle cattive abitudini del consumatore italiano che paga volentieri cinque lire di più al metro il panno cosidetto inglese, e che torcerebbe il viso quando gli si dicesse che il panno proviene da lana filata, tessuta, colorata e finita nelle valli del Biellese, malgrado non si riesca a vedere alcuna differenza tra le stoffe inglesi e quelle italiane. La diffidenza del pubblico italiano verso la merce nazionale non ha altro risultato all’infuori di scoraggiare gli industriali dalla lavorazione dei panni lana fini, e di sminuire profitti e salari, fomentando la discordia fra padroni ed operai.
Tutti gli attuali industriali della Val Sessera, di Valle Mosso, di Biella, erano due generazioni fa operai che dal nulla giunsero ad un’ambita e privilegiata posizione. Né il processo di reclutamento degli industriali nel ceto operaio ha avuto termine. Si citano molti fabbricotti dove si lavora e si guadagna, condotti da antichi operai economi, intraprendenti, riuniti in società, vere cooperative di padroni, di quattro, cinque ed anche sette amici o cugini o fratelli. Vi sono molte fabbriche i cui proprietari o sono andati in rovina od hanno cessato di dedicarsi all’industria, le quali vengono affittate intiere o per saloni a uomini dotati di un qualche capitale o godenti la fiducia di un amico danaroso o di un banchiere. Si comincia ad affittare un salone ove si collocano alcuni telai vecchi, comprati a basso prezzo, e si tesse per conto altrui. Coi primi profitti e coi primi risparmi si completa il macchinario con telai nuovi e si imprende la tessitura per conto proprio.
Ove si riesca ad ottenere i favori costanti di un potente grossista di Torino e si indovini in alcune campagne la corrente della moda, si aggiunge a poco a poco la filatura, la tintoria, l’apprestamento. Lo stabilimento è sorto e può prosperare contro la concorrenza di quelli potenti già stabiliti da lunga data. Una volta la strada all’ascensione verso la proprietà di una fabbrica era più facile e più rapida; a Biella mi si citano industriali che in una dozzina d’anni sono divenuti milionari, ed erano antichi piccoli proprietari di un paio di migliaia di lire ciascuno. Ora è diventato più difficile, quantunque non impossibile, ad un operaio intelligente risparmiare e diventare fabbricante. Comincia persino a mancare il terreno fabbricabile, a meno che con la trasmissione a distanza della forza motrice esso non venga artificialmente aumentato. Ma la strada ad affittare un salone od una fabbrica intiera ed a produrre poi per proprio conto è sempre aperta. Ciò che è diventato impossibile è la rapida ascesa alla fortuna grandiosa. La concorrenza è ormai troppo accanita; gli industriali lottano non per la lira di profitto al metro, ma per il centesimo. L’abbondanza del denaro impedisce che alcuni pochi privilegiati possessori di un capitale possano ottenere guadagni cospicui. Nel biellese le banche sono diffuse ed ogni piccolo produttore onesto può agevolmente scontare al quattro per cento.
La classe degli industriali è dunque molto variegata, come un semplice sguardo alla lista delle fabbriche di Val Sessera dimostra; e va da quelli che sono mezzi operai e lavorano essi stessi o fanno lavorare i propri figli e la propria moglie, a coloro che si riservano solo la direzione dell’impresa. Non c’è però ancora nessun proprietario di lanificii il quale sia un puro e semplice capitalista e si accontenti della sorveglianza su direttori stipendiati, e di percepire alla fine dell’anno un dividendo variabile a seconda delle buone o cattive annate. Non esistono Società Anonime; se n’era fondata una, il Lanificio Italiano, ma ha fatto cattiva prova ed ora si sta liquidando. Gli industriali sono essi stessi direttori dello stabilimento e vi dedicano la maggior parte del loro tempo. Per lo più sono parecchi fratelli, cugini o parenti in diverso grado. Uno si dedica alla parte tecnica, l’altro alla parte amministrativa, un terzo disegna, studia la tendenza delle mode nelle stoffe, un quarto viaggia a ricevere le commissioni ed a ordinare le nuove macchine.
È difficile ottenere dati precisi sui guadagni dei fabbricanti. La produzione complessiva per tutti i 9 fabbricanti della Val Sessera (il primo, quello Zegna-Baruffa, lavora per conto di terzi) si aggira nelle annate buone intorno ai 5 milioni di lire; il reddito accertato di ricchezza mobile (Cat. B e C) dall’agente delle imposte è di circa 220 mila lire per tutti i nove fabbricanti. Occorre aumentarlo o diminuirlo a seconda delle annate, della esattezza colla quale l’agente riesce a scoprire il reddito vero dei telai e dalla fortuna diversa colla quale i varii fabbricanti si sottraggono agli accertamenti. È indubitato però che il guadagno, una volta più cospicuo di adesso, ma ancora abbastanza rilevante e non mai nullo, che gli industriali ritraggono dalla loro impresa, non è solo interesse sul capitale impiegato, ma nella maggior parte è compenso per la loro opera di direzione, ossia è un salario. Certo è un salario di gran lunga superiore al salario dell’operaio, ma la loro opera è anche di merito ben maggiore. Tutto nelle fabbriche dipende dalla buona direzione ed amministrazione; dove questa manca non giova a nulla avere una maestranza abile ed esperta; gli affari vanno a rotoli e lo stabilimento si deve chiudere con danno del paese e degli operai gettati sul lastrico ad ingombrare il mercato del lavoro ed a deprimere le mercedi. È vero che i fabbricanti talora sono pagati bene; ma quando si additano le eleganti palazzine ed i milioni accumulati, si deve pensare anche al merito reale di coloro che stanno a capo delle imprese fortunate ed alla sfortuna di quelli meno abili o vinti nella lotta della concorrenza. Ho sentito affermare che nel Biellese ogni anno avvengono in media tre o quattro fallimenti nell’industria laniera. È cosa dolorosa, ma inevitabile, ed è finora l’unico mezzo di incitare al miglioramento della produzione e di tener desta l’attenzione degli industriali su quanto è possibile fare per ridurre il costo e per aumentare l’efficacia del lavoro umano.
Finora non s’è trovato all’infuori della concorrenza altro mezzo per attuare la legge del minimo costo; né l’ora sembra spuntata di un diverso ordinamento industriale nell’industria laniera. I consorzi da qualche industriale invocati e perfino proposti non hanno ivi alcuna speranza di successo. Sono troppo numerosi i generi prodotti, sono così eccessivamente molteplici i fattori di cui bisogna tener conto e così variabili da fabbrica a fabbrica, che è del tutto chimerico pensare a regolare la produzione perché i prezzi non ribassino e si possano quindi pagare salari alti.
Se si fa astrazione dai monopoli naturali come miniere, ferrovie, ecc., i consorzi industriali in tutti i paesi più progrediti, Stati Uniti, Germania, Francia, sono riusciti dove si trattava di una produzione semplice ed uniforme. Ad esempio, le rotaie di ferro o di acciaio sono tutte della medesima dimensione, lunghezza, larghezza; se ne può precisare il costo con esattezza; così dicasi pure della raffinazione dello zucchero e della fabbricazione dei concimi chimici di una data formula o dei vetri da finestra di un determinato spessore. È facile ivi intendersi sui prezzi, sull’ammontare della produzione, istituire uffici comuni di vendita. Ma i tessuti sono di mille qualità diverse, hanno un prezzo variabile l’uno dall’altro, cambiano ogni stagione col variar della moda. Inoltre le fabbriche non si sono ancora specializzate; nei lanifici di una certa importanza si compiono tutte le successive operazioni necessarie per trasformare la lana greggia in tessuto pronto alla spedizione. Non vi sono stabilimenti in cui si fili unicamente, altri in cui si tessano solo i generi d’estate oppure d’inverno, altri in cui solo si tinga o si apparecchi. L’ampliamento delle fabbriche non si compie per sovrapposizione di saloni dedicati al medesimo lavoro, ma per giustapposizione di macchine le quali compiono tutte le varie operazioni dal ricevimento della lana alla spedizione del tessuto. Come regolare, disciplinare tutto questo e stringere in un consorzio tutti gli stabilimenti?
Se la libera concorrenza è la regolatrice dell’industria, assume però forme miti e tranquille. Non si verificano le rimutazioni subitanee del macchinario di tutta una fabbrica, dove i telai sono vecchi a cinque anni ed occorre venderli come ferraccio per comprarne dei nuovi più perfezionati. Ho visto in attività nei saloni dei lanifici telai di tutte le età, da quelli vecchi di vent’anni ai nuovi comprati ieri; accanto alle selfacting esistono e funzionano ancora le antiche mule-jenny. Le macchine sono abbandonate solo quando proprio non servano a nulla o la differenza nel costo di produzione sia divenuta troppo grande.
A temperare gli effetti della concorrenza e delle crisi economiche giova la organizzazione commerciale dell’industria laniera. Nessun fabbricante produce per magazzino, tutti lavorano su commissione. Il ristagno delle merci avviene perciò non nei depositi dei fabbricanti, ma nei magazzini dei grossisti. I rischi della mancata vendita colpiscono questi, non i primi. Talvolta i fabbricanti producono, senza commissione preventiva, i panni ordinari, correnti, che hanno uno smercio sicuro, prevedibile con una certa latitudine. Ma possono avvenire anche qui degli sbagli; e le rimanenze si smerciano solo con perdita nelle stagioni successive.
La vendita dei pannilana avviene secondo le esigenze del consumo. L’anno si divide in due stagioni, d’inverno e d’estate. Tutte le fabbriche sono abbonate ad una specie di rivista di campioni; in Inghilterra, dove l’industria è specializzata all’estremo grado, vi sono fabbriche le quali non producono se non campioni delle campagne venture, e li distribuiscono, quasi come una rivista, periodicamente a tutti gli industriali abbonati. Appena ricevuto il campionario il fabbricante disegnatore od un impiegato apposito, ben pagato, ne fa delle imitazioni, scegliendo quelle più adatte ai gusti degli speciali suoi consumatori, modificando e migliorando l’originale. Entro settembre, ad esempio, i fabbricanti hanno finito il campionario d’estate e vanno in giro essi stessi o mandano i loro viaggiatori dai grossisti coi cosidetti campioni piccoli, sui quali i grossisti scelgono i numeri che presumibilmente sembra possano incontrare il gusto del pubblico. Una volta i grossisti facevano subito le ordinazioni ed i fabbricanti si potevano mettere al lavoro; ora invece si fanno per ottobre-novembre i campioni grandi sui numeri scelti nei campioni piccoli; dopo che i grossisti li hanno distribuiti ai dettaglianti ed hanno accentrate le loro sparse ordinazioni, queste cominciano ad affluire alle fabbriche a novembre-dicembre. La necessità del doppio campionario è uno dei gravami maggiori della industria laniera. I campioni piccoli e più quelli grandi costano un’enormità; mi si citano delle fabbriche dove si spendono a tal fine da 30 a 100 mila lire all’anno. I campioni grandi vengono distribuiti gratuitamente ai grossisti, alcuni dei quali sottomano se ne fanno delle collezioni per rivenderli od anche per ottenerne delle imitazioni a buon mercato. È questa però una consuetudine radicata, difficile a togliersi a meno di fare il dettaglio, cosa impossibile pei fabbricanti, che non possono mantenere un esercito di viaggiatori e non vogliono fare concorrenza ai grossisti.
Quanto alla condizione economica dell’industria non è agevole ottenere dati precisi. I fabbricanti sono propensi a saggiare la prosperità della industria dalla altezza dei loro profitti, e questi sono indubbiamente scemati dal saggio alto di una volta. La concorrenza estera è debole rispetto ai produttori di pannilana ordinari o misti a cotone, perché quivi la protezione doganale è alta; più viva per le stoffe fine e di pura lana. Un grande e noto industriale mi ha detto però che nelle attuali condizioni tecniche dell’industria laniera, egli sarebbe pronto ad accettare il libero scambio colla Francia, purché si trattasse per i pannilana di un libero scambio reciproco. I fabbricanti italiani sarebbero forse vinti nella produzione dei panni fini, ma potrebbero iniziare una vigorosa ed impensata esportazione di panni ordinari nella stessa Francia. Il periodo dell’infanzia per la industria laniera biellese sembra oramai passato, e per una parte dei fabbricanti, la più numerosa, i dazi protettori cominciano a costituire più che un beneficio, un impaccio alla loro progressiva espansione. La lotta poi contro la concorrenza interna del Veneto (Schio), della Toscana e dell’agro torinese si sostiene abbastanza vigorosamente; malgrado i maggiori salari che devono pagare agli operai, gli industriali biellesi riescono a vincerli nella lotta per la conquista del mercato interno. Fatto notevole, su cui ritorneremo in seguito.
Alla pari di tutte le altre fabbriche italiane la industria della Val Sessera si può dire abbia attraversato un periodo di morta nel 1893-94-95. La crisi imperversante sulla nazione, le fallanze agricole si ripercossero sull’industria laniera. Alcuni industriali nella Valle Mosso mi dissero che il malessere rimonta allo sciopero del 1889; e la data, anche senza cercare connessioni non dimostrabili colla agitazione operaia, coincide benissimo coll’inizio della crisi edilizia, bancaria ed in genere economica che da lunga data affligge il nostro paese. Si consumavano meno vestiti nuovi e si facevano durare più lungo tempo quelli già usati. Per conseguenza i telai battevano solo la metà del tempo: quattro, cinque giorni alla settimana in alcuni mesi; ed anche quando la fabbrica era sempre aperta, non tutti gli operai erano occupati.
La disoccupazione si manifesta nell’industria laniera in un modo peculiare. Non si gitta la metà degli operai sul lastrico, occupando di continuo gli altri ed obbligando alcuni ad emigrare altrove per cercar lavoro; ma tra il compimento di una pezza e consegna del filato per una nuova pezza si fa passare un tempo più o meno lungo, cosicché, mentre alcuni operai lavorano, gli altri rimangono a casa. Così gli operai sono tutti saltuariamente occupati per turno; la disoccupazione e la crisi industriale si manifestano col decremento del numero medio dei giorni in cui gli operai lavorano e non coll’aumento degli operai del tutto oziosi. Del resto gli operai stessi non permetterebbero che alcuni soli fossero in tempo di morta occupati e gli altri licenziati.
Dal periodo di crisi l’industria tessile non è ancora del tutto uscita. Essa però è meno acuta che nei cotonifici, il cui quasi unico rappresentante nel Biellese non lavora di sabato per mancanza di ordinazioni. Si può affermare che un qualche risveglio nella Val Sessera si è manifestato nelle ultime campagne. Le ordinazioni sono venute più abbondanti e si sperava in una propizia nuova stagione, quando è scoppiato lo sciopero.
La maestranza delle fabbriche di lana della Val Sessera, della Valle Mosso ed anche in parte del basso Biellese non appartiene al proletariato, di cui siamo abituati a vedere degli esemplari nelle grandi città, ma recluta i suoi membri fra quello che si potrebbe chiamare piccolo proprietariato agricolo.
«Una casetta, un campicello ed una vacca»; questo il grido di alcuni riformatori che in molte contrade industriali si spaventavano davanti allo spettacolo di torme immense di operai raccolti nelle grandi città attorno ad una fabbrica, salariati giornalieri, imprevidenti, senza legame col suolo, non aventi nulla da perdere e speranti molto in una rivoluzione industriale. «Diamo a questi paria dell’industria una piccola proprietà e li trasformeremo in custodi dell’ordine sociale ed in tutori delle istituzioni vigenti». E recente un tract della Fabian Society, l’intellettuale associazione socialista inglese, in cui si consiglia agli operai di valersi degli allottment acts per indurre i consigli delle parrocchie a comprare terreni e distribuirli fra gli artigiani, e si annoverano i benefici che le classi operaie possono ritrarre dal possesso di un campicello a patate, e dall’allevamento della vacca o del maiale.
L’ideale dei riformatori è in gran parte attuato nel Biellese; nella Val Sessera, dove più, dove meno, una notevolissima parte (il 90%) della popolazione operaia è anche proprietaria. Nella Valle Mosso mi fu detto che l’80% delle famiglie operaie possiede la casa, il prato ed il castagneto attiguo. È una proprietà frazionata: la proprietà – cencio, che non dà tanto da mangiare, ma pur tiene legati ed affezionati al luogo natio. I padri vecchi e le madri di numerosa figliuolanza stanno a casa, curano le faccende domestiche, conducono in pastura la vacca o la capra, mungono il latte, tagliano il fieno e lo mettono in serbo per l’inverno, sbatacchiano le castagne o le noci; gli uomini e le donne in buona età e che ci vedono ancora, i giovani e le ragazze vanno alla fabbrica. Ognuna di queste proprietà-cencio ha un valore altissimo, senza alcuna corrispondenza col reddito effettivo. Solo chi conosce l’affetto intenso del montanaro per la sua terra può spiegarsi come una giornata di terreno, dove non cresce né la vite, né il grano, né la meliga e dove si raccoglie solo dell’erba, delle castagne e della legna da fuoco valga da 1.500 a 4.000 lire (4.000-10.000 lire all’ettaro), ossia i prezzi attuali dei migliori vigneti nel Monferrato o dei prati della bassa piemontese, dove l’agricoltura non è una occupazione secondaria, ma la principale. Solo in tal modo si può spiegare l’estrema suddivisione del terreno per cui alcuni posseggono poche are, qualche metro quadrato di prato, due o tre piante di castagno. Quando muore il capo famiglia nessuno rinuncia alla terra e questa viene suddivisa all’infinito fra gli eredi. Per alcuni di questi proprietari minuscoli l’avvento del regime di fabbrica è stato una vera manna celeste, in quanto ha creato una domanda fortissima dei terreni bassi vicini ai corsi d’acqua. Un industriale mi raccontava che dovendo allargare il giardino attiguo alla sua abitazione ed allo stabilimento, ha dovuto pagare il terreno 3,4 lire al metro quadrato.
L’ipoteca e l’usura, questi flagelli delle piccole proprietà, non sembrano diffuse nel Biellese, almeno nelle valli alte. Né è difficile scovrirne la cagione. I piccoli proprietari non sono ivi miserabili, ed il provento della terra è solo un elemento secondario, benché prezioso, del bilancio famigliare. Certi di far fronte alle spese correnti col salario giornaliero guadagnato nella fabbrica, non devono ricorrere agli imprestiti per superare le annate cattive o le crisi agricole. La coltivazione dei castagneti e dei prati non richiede miglioramenti culturali. L’unica fonte di indebitamento sta nelle divisioni degli assi ereditari, ma vi ovvia la smania di attribuire ad ogni erede una quota in natura delle eredità, senza compensi in denaro. La polverizzazione delle già minuscole proprietà agricole non è funesta perché l’uomo non ne deve trarre tutto il bisognevole per la vita; basta che il fondo sia tanto ampio da albergare la casupola e la stalla. Tutto ciò cambia dove la popolazione operaia è nettamente divisa da quella che attende ai lavori delle campagne, come a Cossato e più vicino a Biella. Quivi la piccola proprietà non basta a mantenere agiatamente l’agricoltore che coltiva solo la terra; onde condizioni economiche nei contadini assai inferiori a quelle degli operai di fabbrica.
Che cosa guadagnano e come vivono questi piccoli proprietari negli opifici? Dare una risposta precisa è difficile, perché industriali ed operai discordano nelle loro affermazioni.
«I tessitori della Val Sessera, affermano gli industriali, sono i meglio pagati del Biellese e quelli del Biellese godono i salari più alti d’Italia». In una fabbrica di Coggiola la media del mese di agosto 1897 fu per i tessitori e le tessitrici di lire 3,42 al giorno. Per un mese del 1897, scelto a caso e per una fabbrica tipica della Val Sessera, ho potuto raccogliere dati più precisi. Il 6,3 per cento dei tessitori guadagnò 100 lire ed oltre al mese; il 17,5% ottenne una paga da 90 a 100 lire; il 19,5% da 80 a 90; il 26,5% da 70 ad 80; il 16% da 60 a 70; il 9% da 50 a 60; ed il 5,5% da 30 a 70 lire. La massa dei tessitori ha dunque un salario mensile da 60 a 100 lire al mese; alcuni pochi guadagnano di più; il 15% circa guadagna meno per cause speciali e sovratutto per le interruzioni nel lavoro, con cui si manifesta il fenomeno della crisi e della disoccupazione nel Biellese. Nel mese successivo forse quelli che guadagnarono ora solo da 30 a 50 lire otterranno di più, ed al loro posto verranno altri. Negli anni in cui non manca il lavoro i tessitori e le tessitrici guadagnano, a detta degli industriali, lavorando 250 giorni all’anno, da 750 a 1.000 lire. Gli altri operai lavorano in media 300 giorni ed hanno salari che variano da 0,70 a 1 lira pei fanciulli, da 1,50 a 1,75 per le donne, e da 2,50 a 2,75 al giorno per gli uomini. Un fanciullo guadagna così all’anno da 200 a 300 lire, una donna da 450 a 525 lire, ed un uomo da 750 ad 825 lire. «Se si pensa, conchiudono gli industriali, che spesso in una famiglia vi sono due tessitori o tessitrici ed uno o due altri operai, che una famiglia media di 5 o 6 persone laboriose ed attive può guadagnare complessivamente all’anno da 2.000 a 2.500 lire, lo stipendio di un pretore o di un tenente nell’esercito, senza le esigenze sociali dei medi borghesi, senza dovere nella maggioranza dei casi pagare l’affitto, e con un provento in natura non indifferente della campagna, si deve conchiudere che la maestranza operaia della Val Sessera è in buone condizioni economiche e non ha motivo per elevare alte querele».
A questo roseo quadro gli operai oppongono affermazioni non meno recise.
«I giovani dai 12 ai 16 anni guadagnano dai 50 ai 70 centesimi. Vi sono degli attaccafili di 10 anni che sono salariati dell’operaio filatore a cottimo e ricevono un meschino guiderdone di 25-30 centesimi al giorno. Quando un operaio ha dai 18 ai 20 anni guadagna poi da 0,90 ad 1,10 al giorno. I tessitori ottengono una media mensile di 40 lire; il minimo può scendere a 13 lire quando manca il lavoro; ed il massimo sale a 60-70 lire nelle stagioni attive ossia un mese o due all’anno. Vi sono alcuni abilissimi, le particolarità del genere, i quali raggiungono le 100 lire; ed i fabbricanti non mancano mai di farsene belli in occasione di scioperi per dimostrare che gli operai si lamentano a torto». Un operaio mi ha raccontato che nella sua famiglia lavorano cinque persone: il padre, due fratelli e due sorelle;
il guadagno complessivo medio raggiungerà forse le 150 lire al mese. E si tratta dei più fortunati per la abbondanza della mano d’opera nella stessa famiglia. Molti poi non hanno casa, specialmente a Coggiola, se non negli altri quattro comuni tessili della Val Sessera; e l’affitto sale a 3 lire per stanza e per mese.
Il costo della vita è cresciuto. Prima, all’epoca felice del telaio a mano si lavorava in famiglia, e si mangiava frugalmente al riparo della vista dei vicini e dei curiosi. Ora i pasti avvengono in parte in fabbrica, per la colazione o per la merenda; non si può per soggezione reciproca cibarsi solo di una fetta di polenta; bisogna aggiungervi l’ovo, il formaggio od il pezzo di salame. A mezzogiorno quelli che abitano lontano si fermano a mangiare in crocchi fuori degli stabilimenti, o si mettono in pensione o vanno all’osteria. Le molteplicità dei pasti fuori del focolare domestico ha per tal modo accresciute le spese, mentre i guadagni diminuivano. Una volta i tessitori a mano guadagnavano 50 centesimi ogni mille mandate di spola; e nei primi tempi del telaio meccanico, le mille mandate erano rimunerate con 20,22 centesimi. Ora si discende, a un centesimo per volta, a poco a poco; quando si fermerà la discesa?».
Il perspicace lettore faccia la scelta fra le affermazioni contrarie degli operai e degli industriali. A me sembra che i primi siano indotti a generalizzare troppo i fenomeni tristi delle annate di crisi in cui difettano le ordinazioni, ed il lavoro è saltuario e poco rimunerato, mentre i secondi più specialmente si riferiscono alle annate normali, in cui il lavoro non manca.
Nel complesso si può ritenere che la situazione degli operai non sia cattiva; uno fra i tessitori, i quali mi avevano detto poco prima aggirarsi la media dei loro salari intorno alle 40 lire mensili, mi confessava poi che un operaio medio poteva guadagnare da 70 ad 80 lire al mese quando il lavoro non mancava. La cifra collima con quelle fornite dagli industriali, di alcune delle quali sono assolutamente sicuro perché estratte dai libri delle paghe.
A compimento delle cose dette sopra aggiungo alcune notizie relative alla Valle Strona e fornite da persona imparziale.
I tessitori, come dappertutto, sono pagati a cottimo, da 12 a 18 centesimi per ogni mille mandate di spola. Un bravo tessitore fa dai 25 ai 30 mila colpi di spola al giorno. Nell’agro torinese, a Schio, nella Toscana i tessitori sono pagati solo da 8 a 10 centesimi ed anche meno. Un tessitore guadagna così in Valle Mosso da 55 a 60 lire al mese in media: giunge talvolta ad un massimo di 90 lire, ed ad un minimo di 30/35 lire. I follonieri, operai dai 20 anni in su, guadagnano da lire 1,65 ad 1,75 al giorno, e da 35 a 40 lire al mese. Sono pagati a giornata. Così pure i tintori, che hanno un salario alquanto superiore, da 40 a 45 lire al mese. I filatori lavorano a cottimo, da 17 a 18 giorni al mese con lire 2,10 al giorno. Gli attaccafili, ragazzi intorno ai 12 anni, hanno un salario minimo di lire 0,50 e massimo di 1 lira. In una famiglia tipica, il padre guadagna da 1,75 a 2 lire al giorno, la madre da 1,25 ad 1,50, un figlio di 15 anni da 1 ad 1,20, una figlia di 13 anni 0,75, un figlio inferiore ai 12 anni 0,50; in tutto da 5,25 a 6 lire al giorno per 20-25 giorni del mese, ossia da 100 a 150 lire al mese.
Quando molti membri della famiglia lavorano, i salari ottenuti, a confessione degli stessi operai, non possono dirsi disprezzabili. Ma è altrettanto sano il lavoro della fabbrica od almeno è altrettanto conciliabile al mantenimento di una forte unità domestica? Molte donne, anche dopo maritate, continuano ad andare alla fabbrica. Come possono desse attendere alla custodia della figliuolanza, alle faccende domestiche, alla preparazione di vivande ben cotte e nutrienti?
Chi si ferma alquanto nei villaggi industriali del Biellese osserva dei sintomi di un grave malessere sociale, che formano l’appendice quasi inseparabile del sorgere della industria moderna accentrata. Non mi fu dato di accertarmi se nelle fabbriche lavorino fanciulli di età inferiore al limite legale; è certo però che in mezzo ai telai si veggono molte, forse troppe donne, e molti, forse troppi ragazzi. Le giovani nubili conservano i bei colori della giovinezza, ma le donne maritate hanno il colore pallido, caratteristico degli operai di fabbrica, ed alcune hanno forme troppo esili per poter essere madri di una figliuolanza sana e robusta. Talune cifre, tratte dalle statistiche della leva, fanno temere che si vada incontro ad una degenerazione fisica delle classi operaie, simile a quella che fece fremere l’Inghilterra della prima metà del nostro secolo e fu arma potente per ottenere una severa legislazione regolatrice del lavoro delle donne e dei fanciulli. Quest’anno a Cossato su 50 coscritti se ne riformarono, sovratutto per deficienza di misura toracica, e di statura e cattiva conformazione, 48. Medie di riformati altrettanto alte si dicono generali per tutte le valli biellesi. «Effetto del lavoro delle donne che deturpa gli organi materni ed impedisce il regolare svolgersi della gravidanza e della convalescenza, e del lavoro dei fanciulli che ne impedisce lo sviluppo fisico», dicono gli operai ed anche altre persone imparziali ed autorevoli.
«Effetti dei vizi e del troppo bere», affermano gli industriali. «Gli operai a casa non fanno spese di lusso, ma alla sera vanno invariabilmente all’osteria. È straordinario il numero degli alberghi, caffè, osterie, cantine, spacci di liquori, che il viaggiatore osserva nei villaggi industriali. Nella Val Sessera se ne incontra uno ad ogni passo. Nel Comune di Pray sono 11, a Portula 22, a Coggiola 42, a Pianceri 9. Gli operai non comprano il vino a brente per consumarlo a casa, ma lo bevono unicamente a litri nelle osterie. Negli ottanta esercizi ora ricordati si consumano 240.000 litri all’anno; la popolazione che beve, in massima parte operai di fabbrica, è di circa 3.000 persone. Si comprende quindi come una parte notevole dei salari prende la via dell’oste, come gli operai, quantunque piccoli proprietari, siano imprevidenti, indebitati, fisicamente deboli e malcontenti». Quanto ai debiti verso gli esercenti, un operaio mi affermava che quelli di Coggiola hanno debiti a libro per la somma di 400.000 lire. Ed è questa una catena della quale difficilmente riescono a liberarsi. Mentre gli operai lavorano molto, le operaie sfoggiano in vestiti ed ornamenti. Alla domenica è difficile distinguere un’operaia di fabbrica da una ragazza di famiglia borghese; ora cominciano già a portare il cappellino e le vesti alla moda.
Gli operai ribattono che quella del bere molto è una esagerazione. Come farebbe ad esempio a fare un gran consumo di vino un tessitore, nullatenente, con cinque bambini, il maggiore dei quali ha sei anni e con la moglie che non lavora? Egli guadagna L. 3 al giorno, incassa L. 900 all’anno in media, spende L. 70 per pigione, L. 70 per legna, 50 per calzatura, 70 per vestiario, 40 per spese impreviste, 50 per la lega di resistenza ed il circolo socialista, 20 in tabacco; il resto va tutto in cibi consumati in famiglia, compresi di litro di vino al giorno.
Non tutti però si trovano nelle condizioni di questo tessitore; i giovani specialmente, dopo ché è invalsa l’abitudine di non versare più integralmente i salari alla madre ma di pagar una pensione mensile ai genitori, spendono la differenza, le ragazze in vestiti ed in ornamenti, i giovani all’osteria. Durante la settimana vivono morigeratamente; ma alla domenica parecchi si ubriacano. Egli è che nei periodi primi del sistema di fabbrica, salari relativamente alti, imprevidenza, lavoro intenso delle donne e dei fanciulli, indebolimento fisico della razza, consumo abbondante delle bevande alcooliche sono fenomeni quasi universali. È difficile sceverare in essi la causa dell’effetto; si tratta di fenomeni che si determinano mutuamente e che reagiscono gli uni sugli altri. Nell’industria tessile non si richiede grande fatica muscolare dall’operaio; la macchina fa tutto da sé; esso deve solo stare molto attento. L’attenzione continua per 10, 11 ore, in mezzo ad un fragore assordante, stanca il sistema nervoso e fa nascere il desiderio di cibi e di bevande riconfortanti. La comunanza di vita in un grande stabilimento, il contatto continuo con numerose persone dello stesso ceto, fa sorgere il bisogno di vivere insieme; rallenta a poco a poco i legami di famiglia, indebolisce la forza di coesione dell’unità familiare e rafforza la simpatia fra i vari membri dello stesso gruppo sociale. Alla sera, finito il lavoro giornaliero, l’operaio desidera di ritrovare quelli con cui ha lavorato tutto il giorno e finisce nell’unico ritrovo attraente da lui conosciuto: l’osteria. Si rassoda così l’impero dell’unica autorità sociale dei villaggi industriali: l’esercente dello spaccio di bevande e di commestibili. Chi sarà il pioniere della riforma feconda la quale dovrà sostituire alle distrazioni domenicali delle osterie la sete di elevamento intellettuale, ed al consumo di bevande alcooliche, eccitatrici momentanee e deleterie, il consumo di alimenti azotati abbondanti e sani che ricostituiscano veramente l’esaurito sistema nervoso?
In mezzo ad una classe operaia disposta pel lavoro di fabbrica alla solidarietà, premuta da bisogni nuovi non prima conosciuti, cadde come scintilla eccitatrice di un grande incendio la propaganda socialista. Nelle vallate biellesi il socialismo ha conquistato adepti numerosi. È un ideale verso cui gli operai si sentono attratti dal desiderio di mutazioni e dalla sete di una fede nuova. Sono note le condizioni del collegio di Cossato. Nelle ultime elezioni si combattevano due candidati monarchici, il Garlanda ed il Bellia, ed il candidato socialista Rondani. Un nugolo di oratori dal verbo novello si diffuse nelle vallate industriali e con parola calda seppe conquidere i cuori e le menti degli operai. Ora il deputato del collegio è il Rondani, e, perché questi si trova al disotto del limite legale dei 30 anni, l’elezione dovrà ripetersi. Da sei mesi ferve una continua agitazione politica la quale separa in campi opposti gli industriali e gli operai, e mantiene una forte tensione negli animi.
La conversione al socialismo si effettuò in massa da parte degli operai. «Da noi tutti sono socialisti, mi raccontava un operaio, dopo Crispi, dopo la battaglia di Adua. Gli unici giornali che noi leggiamo sono quelli del partito; alcuni di noi sono abbonati a due, perfino a tre giornali: l’”Avanti!”, il “Grido del popolo” e sovratutto il giornale locale, il “Corriere Biellese”, che difende più davvicino i nostri interessi. Tra gli operai rimangono fuori del socialismo solo i vecchi, refrattari alle idee nuove, timorosi di compromettersi, e quelli venuti dalla Bassa Vercellese, ai quali, abituati a salari di 15 soldi al giorno, sembra una festa toccare due lire. Le donne sono le più infervorate. Quando arriva il deputato del collegio, od un oratore socialista, in un villaggio, è un delirio fra la parte femminile della popolazione;
si spingono fino a lui per stringergli e talvolta baciargli la mano. In chiesa gli uomini non vanno più; le donne continuano a frequentarla la domenica; ma durante la messa leggono l’”Avanti!”. I ragazzi di 15 anni sono già socialisti. A Valle Mosso il 16 settembre una cinquantina di ragazzi e ragazze attaccafili si sono rifiutati ad entrare in fabbrica; volevano i salari cresciuti da 12 a 25 soldi al giorno; hanno percorso il paese in fila serrata, a quattro a quattro, le ragazze in testa ed i ragazzi dopo, cantando l’inno dei lavoratori e gridando: Viva il nostro deputato, viva Rondani. In molti paesi si è già costituito il circolo socialista; ma non si deve già giudicare la forza del partito dal numero dei soci; ne fanno parte solo quelli più coscienti e più fermi nei loro principii».
Come tutte le propagande, che fanno appello al cuore ed all’intelligenza, il socialismo ha assunto nelle vallate biellesi la forma di una nuova religione. Essa adempie nel tempo stesso per le popolazioni operaie alle funzioni della scuola e della chiesa. È una scuola perché i leaders del partito sono interessati ad arruolare il numero massimo di elettori; e per giungere ad iscrivere gli operai nelle liste elettorali bisogna dar loro quella istruzione elementare che deve servire a superare l’esame dinanzi al pretore. Perché poi possano assimilarsi bene i principii del socialismo occorre che gli operai sappiano leggere, ed acquistino l’abitudine della lettura. La trasformazione che si è operata nella cultura intellettuale degli operai è davvero grandissima. Prima il leggere i giornali era considerato come opera di puro lusso, ora essi sono diffusissimi ed accanto ai giornali vengono i fogli volanti, gli opuscoli ed i libri. Già dal seno stesso delle classi operaie si vengono elevando delle individualità nuove, non appartenenti alla borghesia, i quali vivono della medesima vita degli operai e per la loro maggiore elevatezza intellettuale ne divengono i pionieri. Non ho assistito a nessuna seduta dei circoli socialisti o delle leghe di resistenza, ma mi fu detto da persona imparziale, che le loro adunanze sono condotte colle regole più rigide del parlamentarismo. Viene eletto un presidente, il quale dà la parola per turno a chi primo l’ha chiesta. Gli operai esprimono chiaramente, e concisamente il loro modo di vedere. Alcuni sono veri oratori; sotto la loro rozza apparenza si intravvede il dominatore delle folle. Altri scrivono; molti fra gli articoli del «Corriere Biellese» sono scritti da operai. La redazione si limita a dar loro un po’ di rifinitura.
Quale campo fecondo per una discesa delle classi colte, specialmente giovani, in mezzo alle masse operaie, coll’unico scopo di diffondere cognizioni scientifiche, senza seconde mire! Un movimento come quello della Toynbee Hall a Londra o delle Estensioni Universitarie in Danimarca, Inghilterra, Germania, eleverebbe il livello intellettuale delle classi operaie, assetate di sapere e desiderose di prendere parte anch’esse alle conquiste ideali e materiali del nostro secolo.
Il socialismo si sostituisce poi alla chiesa per quanto riguarda il lato morale della vita. A questo proposito ho sentito affermazioni contradditorie. Alcuni mi dissero che, infiltrandosi nei giovani le idee di emancipazione sociale, essi furono indotti ad emanciparsi dall’autorità paterna e dai ritegni famigliari. La sostituzione del sistema della pensione all’abbandono totale dei salari nelle mani dei genitori è un sintomo sconfortante della dissoluzione delle antiche famiglie patriarcali. Secondo altri il socialismo costringendo gli operai a spendere una parte del salario in quote alla società di resistenza, in abbonamenti ai giornali, inducendoli a passare la sera al circolo, è un antidoto potente contro il predominio dell’osteria. Alcuni proprietari di cantine mi dissero che in questo anno gli operai comprarono più litri di vino per consumarlo in famiglia e ne consumarono minor copia da soli all’osteria. Mi mancano elementi abbastanza sicuri per riuscire a scovrire relazioni di causa e di effetto tra i fatti ora addotti. È certo però che durante lo sciopero, a Coggiola, gli operai rimanevano ritirati in casa; la presenza di una compagnia di soldati era inutile pel mantenimento dell’ordine; gli operai ubbidivano fedelmente alla consegna; non vi erano state mai minori baldorie, a confessione degli stessi industriali, che dopo l’inizio dello sciopero.
Il carattere economico del socialismo rimane ancora avvolto, per quanto si riferisce ai suoi postulati estremi, in una nebulosa. Gli operai od almeno alcuni capi credono che la fabbrica l’hanno fatta loro. Il collettivismo non è però ancora diventato l’espropriazione degli sfruttatori da parte di coloro che soli hanno creato la ricchezza. «Noi compreremo le fabbriche indennizzando gli attuali proprietari pel loro intiero valore e le eserciteremo per conto della società». Quello stesso operaio che mi spiegava così confusamente l’avvento della organizzazione collettivistica, mi raccontava subito dopo come egli fosse proprietario di alcuni terreni nella Bassa Vercellese e come i coloni gli pagassero un canone annuo in natura di alcune sacca di meliga e di riso. Non tornandogli però comodo di dover trasportare con grande dispendio le derrate fin su nella montagna dove egli lavorava, aveva preferito convertire il canone in natura in un fitto in denaro, lasciando ai coloni tutta la responsabilità ed i rischi della coltivazione e dello smercio. L’operaio confessava così inconsciamente di essere, in piccolo, uno di quei capitalisti sfruttatori contro cui lottava e che voleva espropriare nel lontano futuro.
Il programma massimo lascia fino ad un certo punto indifferenti gli operai; ciò che li tange e li fa agire è il programma minimo politico ed economico. Hanno cominciato a conquistare il collegio mandando un loro rappresentante al Parlamento; ed ora stanno lavorando alla conquista dei municipii.
«Siamo troppo cauti però per impadronircene subito come potremmo; dobbiamo prima studiare per metterci bene al corrente di tutte le leggi amministrative comunali; quando sarà finita quest’opera di autoistruzione, i Comuni cadranno tutti nelle nostre mani».
Sovratutto però gli operai si vogliono affermare sulla parte economica del programma minimo: l’organizzazione in leghe di resistenza per la diminuzione dell’orario, l’aumento delle paghe, la modificazione dei regolamenti di fabbrica, ecc. Primo frutto della azione economica è stata la Lega di resistenza fra tessitori e tessitrici del Biellese, con sezioni a Biella ed in Valle Superiore Mosso, costituitesi rispettivamente il 27 giugno ed il 9 maggio 1897.
Scopi della Lega sono: a) difendere i soci in tutte le controversie fra capitale e lavoro; b) sostenere e migliorare le condizioni del lavoro; c) sussidiare i soci in caso di sciopero forzato. Non sono ammessi a far parte della Lega i padroni e dirigenti alla loro dipendenza. Ogni socio deve versare, in caso di sciopero d’una delle fabbriche comprese nella Lega, una quota settimanale di cent. 50; in caso di quiete cent. 25 mensili a Biella e cent. 50 mensili a Valle Superiore Mosso. Tali quote possono essere aumentate o diminuite secondo i bisogni, mediante l’intervento dell’Amministrazione e d’un rappresentante per fabbrica. Gli scioperanti vengono sussidiati con L. 6 ciascuno alla settimana sino a tanto che perdura lo sciopero. Riconosciuti tali sono pure sussidiati con L. 6 settimanali coloro che, cercando di essere utili alla Lega, venissero dai principali licenziati dallo stabilimento, e ciò sino a tanto che siano nuovamente occupati. I licenziati devono attestare della loro condotta a mezzo dei compagni di lavoro. La Lega è amministrata da un presidente, due vice presidenti, otto o dieci consiglieri, tre revisori, un distributore, un segretario. I fondi della Lega si conservano nella fabbrica o sezione; ivi sono nominati un cassiere, un segretario, un revisore e due collettori; è facoltativo agli operai della fabbrica di versarli alla amministrazione generale. I membri dell’amministrazione della Lega sono nominati dall’assemblea generale; quelli delle fabbriche nei rispettivi stabilimenti, dai tessitori ivi addetti, badando sì pel primo, che pel secondo caso siano uomini di stima e di coscienza. I membri eletti durano in carica un anno e possono essere rieleggibili e nel caso revocati in qualunque epoca dietro istanza dei rispettivi corpi. Scadono però un terzo ogni quattro mesi. Le cariche sociali sono tutte gratuite. Il denaro sopravvanzante da quanto fa d’uopo per le occorrenti spese, deve essere collocato ad impiego fruttifero mediante l’acquisto di libretti della Cassa Postale di Risparmio. Le adunanze dell’amministrazione della Lega, alle quali si unisce la Commissione di tutte le fabbriche, si devono convocare una volta al mese, ed in caso d’urgenza tutte le volte che sarà necessario.
L’adunanza generale si convoca una volta all’anno; in caso d’urgenza in qualunque epoca. Qualunque socio, mediante ricognizione, ha diritto di intervenire alle adunanze dell’amministrazione con voto consultivo. La Lega, come corpo sociale, non prenderà parte a nessuna dimostrazione tanto politica, che religiosa; ma solo alle elezioni dei Collegi dei probiviri. Tali le disposizioni più importanti dello Statuto della Lega di resistenza fra tessitori e tessitrici. Ora si lavora a costituire una consimile Lega di resistenza fra gli altri operai addetti alle arti tessili; follonieri, filatori, macchinisti, facchini, ecc. Così una maglia serrata comprenderà tutti gli operai della tessitura ed opporrà una massa unica alla coalizione industriale.
La Lega dei tessitori decise subito di cominciare la lotta; e nel maggio scorso i tessitori dello stabilimento Bozzalla, in Coggiola, chiesero un aumento di 2 centesimi per tutti i generi. In questa fabbrica era in vigore una tariffa speciale. Veniva pagata una tariffa base per ogni mille colpi di spola, di 10, 11, 13, 14 centesimi; e si dava poi un interessamento agli operai del 10-15 e 20% a seconda che riuscivano a guadagnare 40-50 e 65 lire al mese. Chi guadagnava ad esempio 65 lire otteneva inoltre un interessamento di 13 lire; Ossia in tutto 78 lire. Col crescere della abilità e della diligenza degli operai cresceva la loro paga. Il sistema era ingegnosamente costrutto allo scopo di stimolare gli operai al lavoro colla molla dell’interesse individuale; ma dispiaceva agli operai perché creava differenze eccessive nei guadagni degli uni e degli altri. Dopo uno sciopero durato dal 16 maggio al 16 giugno, l’interessamento fu soppresso e si aumentò la tariffa base del 20% circa. Subito dopo, in occasione del licenziamento di tutti i tessitori, scoppiò un nuovo sciopero nello stabilimento Cerino-Zegna in luglio. Dopo lunghe trattative venne trovata una via di accomodamento all’approssimarsi delle elezioni politiche dell`8 e 16 agosto.
Dopo la vittoria riportata nelle elezioni di ballottaggio del 16 agosto, i tessitori, sul finire dello stesso mese, presentarono in tutti gli opifici della Val Sessera un nuovo orario di dieci ore. L’orario antico ascendeva a circa 13 ore di permanenza nella fabbrica ed 11 ore di lavoro effettivo. Gli operai osservano però che a causa dei prolungamenti si rimaneva in fabbrica talvolta fino a 16 ore al giorno. Alcuni, che venivano da lontano, per vie difficili di montagna, rimanevano assenti da casa perfino 16, 17 ore. Rimanevano solo 8 o 9 ore al giorno per riposare e prendere i pasti. L’orario chiesto dagli operai era il seguente:
Settembre e marzo:
| ||
Mattino | dalle ore 6,30 | alle 12 |
Pomeriggio | dalle ore 1,15 | alle 5,45 |
Dal 1° ottobre a tutto febbraio:
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Mattino | dalle ore 8 | alle 12 |
Pomeriggio | dalle ore 1,15 | alle7,15 |
Dal °1 aprile a tutto agosto:
| ||
Mattino | dalle ore 6 | alle 11 |
Pomeriggio
| dall’1 | alle 6 |
A queste proposte gli industriali d’accordo opposero un controprogetto nel quale si accettavano le 10 ore di lavoro effettivo, ma si elevava la permanenza in fabbrica ad 11 ore.
Settembre e marzo:
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Mattino | dalle ore 6.30 alle 11.45 | con mezz’ora di riposo dalle 8 alle 8,30 |
Pomeriggio | dalle ore 1,15 alle 7 | con mezz’ora di riposo dalle 4,30 alle 5 |
Dal 1° ottobre a tutto febbraio:
| ||
Mattino | dalle ore 8 alle 12 | |
Pomeriggio | dalle ore 1,15 alle 7,45 | con mezz’ora di riposo dalle 4,30 alle 5 |
Dal 1° aprile a tutto agosto:
| ||
Mattino | dalle ore 6 alle 11,30 | con mezz’ora di riposo dalle 8 alle 8,30 |
Pomeriggio
| dall’1,30 alle 7 | con mezz’ora di riposo dalle 4,30 alle 5 |
Come si vede la differenza sta tutta in ciò che gli industriali vogliono che gli operai abbiano due mezz’ore per la colazione e la merenda, a cui gli operai sarebbero pronti a rinunciare pur di stare in fabbrica solo 10 ore.
Secondo gli industriali è impossibile che gli operai possano durare al lavoro per cinque ore consecutive senza bisogno di pigliare qualche alimento; se non ci fossero gli intervalli gli operai farebbero egualmente la colazione e la merenda con danno della loro salute, della disciplina e della buona lavorazione.
Gli operai, a loro volta, affermano di preferire di far colazione a casa prima di venire alla fabbrica con minori spese e colla possibilità di fare risparmi per la minor soggezione reciproca sulla qualità degli alimenti, ed accusano gli industriali di voler gli intervalli per poter rubare cinque minuti all’inizio e cinque minuti alla fine di ogni intervallo, ossia in tutto 20 minuti al giorno. Non si trattava però di una questione grossa, tanto più che alcuni fra gli stessi operai riconoscevano che d’inverno la merenda e d’estate la merenda e la colazione erano necessarie per rifocillare i loro stomachi vuoti. Il 5 settembre la Commissione degli industriali e la Commissione degli operai si abboccarono nella sala comunale. Dopo lunga discussione si era giunti ad un accordo sull’orario invernale dal 10 ottobre a tutto febbraio, gli operai accettando le proposte dei fabbricanti. Negli altri due periodi la differenza si era ridotta tutta ad un quarto d’ora. Nei mesi di settembre e marzo gli industriali, ad esempio, avevano concesso l’uscita serale alle 6,30 invece che alle 7, ma per guadagnare la mezz’ora perduta, diminuivano d’un quarto d’ora la merenda e facevano cominciare il lavoro un quarto d’ora prima. Su questo punto non fu possibile venire ad un accordo.
Il 26 settembre tutti i tessitori (circa 800) scioperano unanimi e compatti; 1.000 operai addetti alla filatura, alla tintoria, all’apparecchiamento cessarono anch’essi di lavorare a causa dello sciopero dei tessitori. 700 lavorano ancora, ma il numero va gradatamente scemando per la mancanza progressiva di lavoro. Il giorno in cui si iniziò lo sciopero, su molti telai rimanevano delle pezze incominciate; ora è consuetudine che un operaio non abbandoni il lavoro senza prima aver finita la pezza incominciata; e nemmeno può l’industriale licenziare prima di tal momento l’operaio. Gli operai furono perciò invitati a vuotare i telai; dopo 15 giorni (21 settembre) vi aderirono ed ora stanno attendendo a tal lavoro, dopodiché lo sciopero ricomincerà più acuto di prima.
La domanda di riduzione delle ore di lavoro a 10 non era esagerata da parte degli operai, e non avrebbe portato alcun danno all’industria. Un fabbricante mi diceva che egli era persuaso potere i suoi operai compiere altrettanto lavoro in 10 che in 11 ore. È questo un fenomeno ben conosciuto a chi ha studiato l’argomento della riduzione delle ore di lavoro. Nelle ultime ore il lavoratore diventa svogliato, e la stanchezza finale si riverbera sulle prime ore, impedendo l’acceleramento della produzione e distraendo l’attenzione, con gravissimo danno in un lavoro dove l’attenzione è tutto. A poco a poco anche nell’industria tessile biellese si potrà anzi giungere alle 8 ore di lavoro al giorno; la riduzione deve essere però graduale e corrispondente al crescere progressivo della abilità della maestranza e della intensità della loro applicazione. Per ora l’orario di 10 ore nel Biellese è ragionevole, oltreché per considerazioni igieniche ed umanitarie, anche perché la maestranza operaia è giunta ad un grado tale di abilità da poter produrre in 10 ore quello che prima ne richiedeva 11.
Sull’orario di 10 ore si era d’accordo; con un po’ di buona volontà e di condiscendenza reciproca si sarebbe potuto risolvere la questione degli intervalli. Eppure ad un accordo non si venne. Perché? Le cause sono molteplici. Gli animi delle due parti sono tesi dal ricordo recente delle lotte elettorali politiche. Gli industriali non vollero ricevere l’onorevole Rondani che due volte venne nella Val Sessera per comporre lo sciopero, scoppiato senza e forse contro il suo avviso. Gli operai dal canto loro ricusarono di trattare se alla Commissione mista avesse presieduto un’autorità politica ed in ispecie il Sotto – Prefetto, contro il quale essi sono inviperiti per la chiusura di otto esercizi pubblici, i cui titolari erano di null’altro colpevoli se non di ospitare nei loro locali persone appartenenti al partito socialista.
Gli industriali inoltre temono che la domanda di orario ridotto non sia se non il preludio di nuove più paurose domande. «Quando l’orario sarà ridotto, si sciopererà nuovamente per ottenere un aumento nelle paghe. E questo sarebbe incomportabile all’industria laniera biellese. È vero che gli operai biellesi sono più abili di quelli di altre parti d’Italia; è vero che noi pur pagando da 12 a 16 centesimi per mille colpi sosteniamo benissimo la concorrenza dei fabbricanti veneti, toscani, torinesi che pagano solo 8-10 centesimi, appunto in grazia della maggiore abilità, e delle parecchie volte secolare pratica della nostra maestranza, i cui organi si sono per le leggi di eredità adottati meravigliosamente alle operazioni tecniche della tessitura. Ma il troppo stroppia. Se i salari aumentassero l’industria dovrebbe emigrare. Già alcuni industriali hanno manifestato l’intenzione di trasportare una parte dei loro telai sull’agro torinese, in Lombardia, dove la mano d’opera, se non altrettanto sperimentata, è più docile e meno irrequieta. Si ripeterà quello che è già succeduto per l’industria dei cappelli, una volta fiorente nel Biellese, ed ora, per le pretese eccessive degli operai, successivamente trasportata ad Intra e poi a Monza. Sarebbe la rovina ultima delle valli, dove l’agricoltura non offre assolutamente alcuna risorsa. Non solo temiamo che gli operai, imbaldanziti dalla vittoria sulla questione dell’orario, chiedano aumento di paghe, ma abbiamo ragioni di paventare novelle intrusioni della Lega di resistenza nella disciplina interna degli stabilimenti. Gli industriali non possono oramai licenziare un operaio senza che gli altri abbandonino il lavoro. Non è possibile nemmeno redarguire gli operai per lavoro maI fatto e per altre cause senza il beneplacito della Lega. Con tutto questo noi siamo decisi a farla finita. Vogliamo essere padroni a casa nostra; non vogliamo essere coartati nella nostra libertà di assumere e licenziare operai da una Lega misteriosa ed occulta. I direttori di fabbrica, i capi su cui pesa la responsabilità della buona o cattiva fortuna degli stabilimenti siamo noi; e non vogliamo essere obbligati a tenere elementi turbolenti od a noi invisi. Siamo magari pronti a concedere loro anche due, tre, quattro settimane di preavviso, ma vogliamo poter licenziare chi non ci piace».
Io non so se un giorno si giungerà nel Biellese ad una condizione tale di cose in cui padroni ed operai non si credano più in diritto di discutere individualmente le condizioni del loro contratto di lavoro e si sottomettano alle decisioni dei Comitati misti delle Associazioni patronali ed operaie. Altrove i cosidetti contratti collettivi (Collective bargains) hanno acquistato una grande diffusione ed intorno ad essi si è già andato svolgendo tutto un corpo di dottrine. Ma essi suppongono condizioni che non si verificano nel Biellese. In Inghilterra esiste una vera burocrazia operaia composta dei segretari delle Unioni artigiane, antichi operai, i quali dedicano tutta la loro vita al servizio dei loro compagni, sono ben pagati ed eletti in seguito ad un esame (che nella industria tessile del Lancashire è difficilissimo e verte su argomenti teorici e pratici). Questi segretari risolvono d’accordo coi segretari delle Unioni degli industriali tutte le questioni relative alle tariffe, ai licenziamenti, alle multe, ai regolamenti di fabbrica, ecc.
Finché un corpo siffatto non si sia costituito per ambe le parti è prematuro e pericoloso avanzare domande, la cui giustificazione si può solo trovare in ambienti ed in condizioni industriali che sono ben lontane dalle nostre. Si aggiunga inoltre che nel Biellese il proprietario dello stabilimento non è una società anonima, un essere impersonale lontano, a cui poco importa di avere piuttosto questo che quell’operaio, e contro i soprusi dei cui rappresentanti sono necessarie delle guarentigie, ma è un uomo che vive in mezzo alla fabbrica, conosce tutti i suoi operai personalmente, ed il quale non si lascerà costringere tanto facilmente a tenersi vicino operai che non gli talentino.
Gli operai della Val Sessera dovevano essere spinti da un altro motivo ad accettare le proposte degli industriali, come erano risultate in seguito all’abboccamento del 6 settembre. Avrebbero conseguito in gran parte il loro scopo ossia l’orario delle 10 ore e non sarebbero corsi incontro ad alcuni pericoli gravi. Pericoli derivanti dagli errori commessi nella scelta del modo e dell’epoca dello sciopero.
Si errò nello scegliere il modo, proclamando lo sciopero contemporaneamente in tutti gli opifici. Ciò ridusse i mezzi di resistenza, in quanto ché, gli operai di uno stabilimento attivo non poterono soccorrere, come prima, gli scioperanti di un altro stabilimento. Ciò indusse eziandio gli industriali a stringersi insieme, accordandosi sui sistemi da seguire nelle lotte contro la maestranza.
Non esiste una vera Lega di resistenza degli industriali, ma bensì un accordo amichevole in virtù del quale nessuno dei nove fabbricanti colpiti può prendere alcuna deliberazione senza il consenso degli altri, e nessuno può accettare in fabbrica operai se prima un numero equivalente non è rientrato nelle altre fabbriche. La lega, per chiamarla così, degli industriali si è a mano a mano rafforzata durante lo sciopero, ed ora è decisa a resistere ad oltranza, a non riammettere se non gli operai benevisi, nell’epoca ed ai patti da stabilirsi. E si parla di un regolamento unico di fabbrica da compilarsi dalla Lega e che ogni operaio dovrà individualmente sottoscrivere e riconoscere al momento della sua riammissione.
Nella sua azione la Lega degli industriali è favorita dal secondo errore commesso dagli operai: la mala scelta del momento dello sciopero. Questo è scoppiato quando in alcune fabbriche si era già ultimato il campionario piccolo e si stava per uscire ed in altre se ne era già iniziata la preparazione; ora tutto è sospeso. Se il lavoro non viene sollecitamente ripreso, i fabbricanti non usciranno col campionario piccolo, le ordinazioni non verranno e per sei mesi le fabbriche rimarranno chiuse. Gli industriali ci rimetteranno le spese generali, il costo del campionario, ma non dovranno subire multe per inadempiute commissioni. Perderanno sopratutto gli operai, ridotti all’ozio per sei mesi, con risorse diminuenti progressivamente, nella impossibilità di trovare lavoro sulla terra ingratissima. Ho sentito dire che alcuni industriali non sono malcontenti dello sciopero; ed anzi ne desidererebbero uno ad ogni cambiamento di stagione. Non so se l’affermazione sia esatta, ma è tale che gli operai dovevano tenerne conto nel decidersi, se non a domandare l’orario delle 10 ore, almeno a scioperare per una differenza così piccola come quella che li separava da ultimo dagli industriali.
Ed ora (3 ottobre), le condizioni sono le seguenti: La Lega degli industriali è decisa a resistere ad oltranza, a riaprire le fabbriche solo ad una parte degli operai, e ad escludere i capi dell’agitazione, ed a tenerle chiuse, ove occorra, anche per sei mesi. La Lega di resistenza fra tessitori dal canto suo ha assunto a suo motto: Organizziamo, organizziamo ancora e poi torniamo ad organizzare per resistere ai capitalisti. Non si vede una via d’uscita alla crisi che affligge l’industria laniera. Forse un uomo imparziale, di mente e coltura elevate, ben veduto da tutte le parti contendenti potrebbe riuscire a comporre le cose, formulando un atto di pace come quello che nella Valle Mosso segnò la fine dello sciopero del 1889.
Gli animi sembrano però troppo inaspriti. Il Ministero di questi giorni ha iniziato le pratiche per la istituzione dei Collegi dei probiviri; ed il Comune di Coggiola ad unanimità ha deliberato di appoggiare la proposta. È difficile però che i Collegi siano formati a tempo da poter interessarsi della disputa attuale, e d’altra parte gli industriali sembrano restii a nominare i loro rappresentanti nel Collegio.
Prima di finire ancora due osservazioni.
Nella Valle Sessera si è notato che a tener fuori della Lega di resistenza alcuni pochi tessitori ha contribuito la circostanza che essi sono proprietari del telaio con cui lavorano e che tengono, pagando un canone di affitto pel locale occupato e la forza occorrente a muoverlo, in qualche opificio, anche di quelli in cui è scoppiato lo sciopero. «Perché non si potrebbe, ha detto qualche industriale, generalizzare tale sistema, vendendo a rate di lunga scadenza i telai a tessitori od almeno a molti di essi; affittando loro locale e forza e ricavandone il canone relativo e pagando il panno che tesseranno ad un prezzo che loro permetta di pagare la rata di ammortamento, il fitto e di avere un buon salario? Così l’industriale smobilizzerebbe una gran parte delle macchine ed il tessitore sarebbe interessato ad avere sempre regolarmente il lavoro, e facendo valere un suo capitale (il telaio), non chiamerà più sfruttatori gli industriali e non penserà più a scioperare». – Riferisco il progetto senza discuterlo.
Se il proprietariato è parso in taluni casi un freno contro gli scioperi, il patronato non giova. Di patronati ve ne sono di due specie: vi è il patronato piccolo in cui l’industriale fraternizza cogli operai, vive della loro vita, giuoca e si ubriaca con essi alla domenica. Le cooperative di padroni, vicini per le loro condizioni economiche agli operai, riescono spesso a comporre le vertenze del lavoro in guisa amichevole e spiccia. Se per questo aspetto il piccolo patronato si deve giudicare favorevole alla pace sociale, spesso poi esso è indotto a servirsi di operai avventizi, inabili, contenti di salari bassi per poter resistere alla concorrenza dei grandi fabbricanti; ed allora deprime le condizioni generali della classe operaia, abbassandone il tenore di vita.
Ma vi è un altro, il vero patronato. Dovunque impera la grande industria sorgono istituzioni caratteristiche: case operaie, asili, scuole, cooperative, associazioni di mutuo soccorso, di assicurazione, fondate e dirette dai fabbricanti allo scopo di tener raccolta intorno a sé la massa operaia fluttuante, fissarla al suolo e crearsi una maestranza stabile e tranquilla. Il Willoughby che delle Comunità industriali ha fatto studio accurato e largo per incarico del Dipartimento americano del lavoro, dice che nella industria moderna si passa attraverso a tre principali modi vivendi fra operai ed imprenditori: 1) l’indifferenza; 2) il patronato in cui l’imprenditore crea ed amministra da solo gli istituti benefici per l’operaio; 3) la mutualità, ossia l’incoraggiamento delle istituzioni operaie create ed amministrate agli operai. Nel Biellese si è ancora nella grandissima maggioranza dei casi nel primo stadio; solo due esempi si possono citare di patronato: il primo a Pianceri nello stabilimento Cerino – Zegna, il cui proprietario ha costrutto una grande casa operaia ed ha impiantato una cooperativa di consumo; il secondo, al di fuori del campo proprio dei nostri studi, nel cotonificio Poma a Miagliano. La ditta imprenditrice ha quivi costrutto palazzine pel personale dirigente, casette eleganti e comode (cantina, solaio, cucina ed 1, 2 o 3 stanze, a seconda dei casi, con cortile e pollaio) per gli operai, provvede ad un asilo pei bambini, ha istituito una cucina dove si distribuiscono nelle ore di riposo porzioni abbondanti ed a mite prezzo agli operai che dimorano lontano dalla fabbrica, ed una cooperativa di consumo collo scopo raggiunto di tener bassi i prezzi dei generi alimentari; ed ha finalmente fondato una cassa dove i risparmi della maestranza sono accolti e ricevono l’interesse annuo del quattro per cento.
Malgrado ciò lo stabilimento Cerino-Zegna è stato in quest’anno per ben due volte funestato dallo sciopero, e nello stabilimento Poma molti sono gli ascritti alla Lega di resistenza fra tessitori e tessitrici.
La propaganda socialista ha reso necessario il passaggio dal primo al terzo stadio del Willoughby senza passare attraverso al patronato. Gli operai guardano con diffidenza alle istituzioni create dagli industriali, anche quando siano loro benefiche. Essi temono, e talora non a torto, che i fabbricanti se ne giovino a scopi personali egoistici, e che, ad esempio, nel giorno dello sciopero le case operaie diventino un’arma in mano dei padroni per gettare sul lastrico le famiglie dei loro dipendenti i quali si troverebbero allora non solo senza paga, ma anche senza tetto.
La elevazione della classe operaia deve essere opera sua; la direzione delle cooperative, delle opere di miglioramento sociale deve essere nelle mani degli operai. I fabbricanti possono intervenire a promuovere e sorreggere nei tempi difficili le opere dirette a beneficio delle classi operaie, ma devono astenersi da ogni ingerenza diretta nella loro amministrazione, se non vogliono dar occasione a sospetti ed a diffidenze.
Le Leghe di resistenza sono forse il primo nucleo delle istituzioni che dovranno nel futuro elevare moralmente, materialmente ed intellettualmente le condizioni delle classi operaie. Ora sono semplici strumenti per lo sciopero come erano le prime Unioni artigiane inglesi, o le Trade Unions della nuova forma al loro inizio, otto o nove anni fa. Ma avverrà delle Leghe italiane come delle Unioni inglesi. Queste col crescere in potenza ed in ricchezza, videro la utilità di proseguire altri scopi, oltre la resistenza agli industriali; e crearono così nel loro seno casse contro la vecchiaia, l’invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc. Inoltre se alle Leghe giovani e prive di fondi importa poco iniziare uno sciopero, in quanto ché i rischi sono tenui e si riducono alla perdita di un fondo minuscolo, i capi di potenti Unioni guardano con diffidenza allo sciopero, che farebbe sfumare come nebbia al vento le centinaia di migliaia di lire di riserva penosamente accumulate, e porrebbe in pericolo il servizio delle pensioni e dei sussidi per malattia e per disoccupazione. Tutte le più potenti Unioni artigiane inglesi preferiscono allo sciopero le trattative, gli arbitrati, le reciproche concessioni ed addivengono alla guerra aperta solo in ultima istanza, con quanto vantaggio della pace sociale e della industria non è chi non veda. Non ultimo merito delle trasformazioni delle Unioni artigiane da bellicose Leghe di resistenza in pacifiche associazioni, intese a salvaguardare con mezzi legali e tranquilli gli interessi delle classi operaie, spetta al Governo inglese il quale, invitato nel 1875 a discioglierle perché fomentatrici di rivolte e di delitti, preferì riconoscerle giuridicamente e concedere loro facoltà di possedere e di stare in giudizio. Biella fu detta la Manchester d’Italia; possano gli scioperi e l’agitazione operaia di questi anni essere l’inizio di una trasformazione alla foggia inglese nei modi di discutere e risolvere le questioni fra capitale e lavoro!
[1] Devo, oltreché a tutti coloro che mi diedero informazioni verbali, uno speciale ringraziamento all’avvocato Cesare Bozzalla di Coggiola ed al signor Emanuele Sella di Valle Mosso, i quali cortesemente inviarono interessanti risposte scritte ad un mio questionario.