La predica della domenica (VI)
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 26/02/1961
La predica della domenica (VI)
«Corriere della Sera», 26 febbraio 1961
Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 19-21[1]
Stavolta scrivo sul modo di scrivere per i giornali. La prima regola sarebbe quella di non dire spropositi di forma o di sostanza; ma purtroppo è difficilissimo non cadere accidentalmente in errore. Per esempio, nella penultima predica, mi accadde di scrivere ventimila invece di venti lire, per dire del sacrificio di uno studente mio amico che alla fine del secolo scorso non poteva, per mantenersi agli studi a Torino, spendere più di venti lire al mese e faceva la fame. Notisi che dei lapsus, come benevolmente si appellano gli spropositi, sono sempre (le eccezioni sono talmente poche da doversi trascurare) esclusivamente responsabili gli autori; non mai quel mitico personaggio che nomasi proto, inventato dagli autori, i quali non vogliono confessare di essere colpevoli dell’errore.
La seconda regola è: non pretendere di dar fondo all’universo scrivendo su di un foglio quotidiano. Un articolo di giornale non può trattare più di un problema od argomento o controversia per volta. Chi abbia la scusabile preoccupazione di spiegare al lettore che il problema può essere visto in un’altra maniera, con altri occhi, e che alla sua conclusione si possono e si debbono opporre tali e tali obbiezioni o critiche o riserve; e reputi perciò dover brevemente accennare almeno alle critiche ed alle riserve più ovvie; costui distrugge in gran parte il valore della sua argomentazione e della sua conclusione. La tesi deve essere affermata in modo netto e preciso. Fa d’uopo correre il rischio di far dire al lettore: «costui è un asino. Ha dimenticato od ignora che la sua tesi soffre tale e tale altra eccezione; che il fatto è più complicato di quel che appare dalle sue parole; non sa che il tale scrittore ha dimostrato il contrario; che la politica di quel ministro può o deve essere interpretata al rovescio; che i dati da lui addotti possono essere altrimenti interpretati o sono controbattuti efficacemente da altri dati che egli ignora in buona fede o volutamente tace».
È necessario rassegnarsi a queste ed altrettante e peggiori critiche, anche se, come accadeva nel tempo fascistico e accade talvolta malamente ancor oggi, le critiche hanno l’aspetto di attacchi o denuncia o vilipendio. Meglio rassegnarsi all’inevitabile. Non si è scritto un libro, ma un articolo; ed in una colonna o due è gran mercé si riesca ad esporre, in maniera tollerabilmente intelligibile, un solo concetto, un solo punto di vista; uno e non due o tre.
Volevo, ad esempio, in una mia recente predica, dire, a torto od a ragione, che l’università deve vendere i suoi prodotti, che sono idee, ragionamenti, sperimenti, ammaestramenti nello studiare, nel leggere, nel vedere malati, nel risolvere questioni di diritto, nel compiere diagnosi, a quei tanti giovani suoi clienti ai cui bisogni essa è in grado di provvedere; non deve perciò aprire le aule ad una turba che non può, per ragioni fisiche di capienza, né assistere alle lezioni, né vedere il malato, né disporre di un tavolo di studio o di sperimentazione.
Nasceva dalla tesi la illazione che l’università dovesse fare una scelta; e naturalmente dovevo segnalare qualcuna di quelle che a me parevano le ragioni della scelta. Preferibili coloro che, a spese dei genitori o, perché meritevoli, col sussidio di borse di studio, danno affidamento di frequentare e profittare. Se avessi scritto il volume, avrei aggiunto che l’università dovrebbe, sin dai primi mesi, accertarsi che la frequenza ed il profitto siano effettivi e non apparenti; ed accertato, per mezzo di assistenti o altrimenti, l’inadempimento dell’obbligo di frequenza e di studio, il giovane negligente dovrebbe essere escluso senz’altro dalla scuola. Avrei aggiunto che, dovendo lo scolaro lavorare per lo studio e nella scuola, non potrebbero essere ammessi, per difetto di capienza, coloro i quali non dessero affidamento di frequentare e profittare, per essere occupati, nel tempo dell’insegnamento, in altre faccende. Essendo questi, intenti per lo più alla consecuzione del diploma e non al vero apprendimento, l’università, la quale vende idee e non pezzi di carta – quante volte alla stretta dell’esame, ci sentimmo supplicare dal candidato innocente: professore, mi dia il 18, che ne ho bisogno per la carriera! – deve escludere coloro i quali non possono frequentare e profittare. Se avessi scritto il volume, avrei probabilmente dichiarato le maniere nelle quali talune università vengono in aiuto dei meritevoli, ai quali ragioni serie vietano la frequenza: corsi di corrispondenza, corsi serali, corsi speciali estivi, ecc. ecc. Ed avrei dichiarato le ragioni per le quali la abolizione dei bolli e visti e firme di autorità statali, che nulla hanno da vedere colla scuola, gioverebbe alla serietà dei diplomi conseguiti dopo studi severi. La abolizione non porrebbe freno alla moltiplicazione degli uomini, che, sui biglietti di visita, fanno mostra di titoli dottorali ed accademici, tanto più numerosi, quanto più vani. Per lo più, i portatori di quei biglietti di visita, essendo, nonostante il valore legale dei loro pezzi di carta, disoccupati, sono noti per le loro querele contro lo stato, che essi dicono, a cagion dei bolli, dei visti e delle firme di autentica, responsabile della disoccupazione intellettuale.