La predica della domenica (IV)
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/02/1961
La predica della domenica (IV)
«Corriere della Sera», 12 febbraio 1961
Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 12-14[1]
È invalso in taluni statistici l’abito di distinguere gli studenti universitari nelle categorie degli studenti lavoratori e di quelli non lavoratori. Ognuno è signore della propria terminologia; e purché questa sia ben chiaramente definita, qualsiasi maniera di classificare studenti è legittima. Parrebbe che il titolo di lavoratori sia proprio degli studenti i quali si addicono ad un impiego od occupazione allo scopo di provvedere nel frattempo alle esigenze della vita propria o dei familiari; e si dicano invece non lavoratori quei giovani i quali possono consacrare tutta la giornata agli studi universitari perché provveduti di mezzi da genitori e familiari o da borse di studio.
La terminologia, esatta al punto di vista formale della distinzione fra chi, per seguire gli studi, è persuaso, durante gli anni universitari, a prestare a terzi l’opera propria e chi può dedicare tutto il tempo per lui disponibile all’università; utile per segnalare allo stato o ad altri enti pubblici il dovere di crescere il numero delle borse di studio, così da scemare il numero di quelli che rimangono esclusi dai contatti diretti con insegnanti, biblioteche, laboratori e cliniche, pone tuttavia un problema morale. Sembra, nel sentir parlare di studenti lavoratori e non lavoratori, che i primi debbano essere collocati in una categoria più degna di quella spettante ai secondi. Costretti a restar lontani dalle aule universitarie, costoro sostengono fatiche più dure e stentano più anni per conseguire il desiderato diploma; laddove gli altri, non assillati dall’obbligo di lavoro in un ufficio posto al di fuori dell’università, attendono tranquilli al compimento degli studi.
Siffatta conclusione è moralmente inaccettabile. Si osservi, innanzitutto, che perseguire gli studi è anch’esso un lavoro ed anzi il solo lavoro che l’università deve apprezzare; quello che è proprio degli scopi che l’istituto universitario persegue. Seguire le lezioni, discutere con gli insegnanti, porre ad essi quesiti, leggere e meditare sui libri, frequentare i gabinetti, le biblioteche, i laboratori e le cliniche è un lavoro; quello che veramente trasforma il giovane studioso in uomo capace di contribuire all’elevazione della società in cui egli è chiamato a vivere. Il merito dello studente non scema solo perché i genitori lo provvedono dei mezzi all’uopo opportuni; e quanti genitori si levano il pane di bocca per mantenere i figli allo studio! Un mio compaesano, muratore di mestiere, sta, con sacrificio quotidiano, portando il figlio al diploma di laurea. Un amico, pur compaesano, viveva a Torino in una soffitta ghiacciata, con ventimila lire al mese, anche allora assai poca cosa, scarsamente arricchite da qualche pezzo di carne e di ossa che i genitori contadini riuscivano ogni tanto a mandargli; e lo vedevo al mattino intento a studiare i libri di medicina, che non poteva acquistare, su di una sedia situata, per togliersi il freddo di dosso, nel gran salone pubblico del palazzo di via Po, proprio sopra la bocca dell’aria calda posta sul pavimento. Conseguì la laurea, macilento per la lunga fame e per le fatiche dei campi nella state. L’anno dopo, quasi non lo conobbi più: ché i primi soldi avuti dai clienti aveva impiegato a rifarsi addosso un po’ di carne.
Mi accadde di dare l’esame nella Scuola degli ingegneri a Torino ad un giovane che mi incuriosiva per l’aspetto operaio e le mani callose; sicchè, chiuso onorevolmente l’interrogatorio, gli chiesi chi fosse. Era un operaio che lavorando, fuori delle ore di scuola, un po’ per volta aveva conseguito la licenza liceale e intendeva ora alla laurea in ingegneria. Che poi conseguì, seguitando a faticare, nelle ore libere, in lavori manuali. Tanti anni fa, l’unica volta che fui negli Stati Uniti, mi accadde, alla fine della colazione alla Leland Stanford University in California, di sentirmi chiedere dal decano:
ha osservato il cameriere che ci ha serviti a tavola? Egli è ottimo fra i nostri allievi; ma, per pagare tasse e stanza e vitto serve noi e serve i suoi compagni a tavola; ed in segno di onore i compagni lo hanno eletto presidente di una delle loro associazioni.
Questi sono gli studenti che stanno più in alto di tutti: quelli che lavorano bensì, con sacrificio dei genitori e con fatica compiuta mentre frequentano le lezioni ed i laboratori e le cliniche. Gli studi sono nobilitati dal lavoro manuale o d’ufficio compiuto di sera o nelle ore libere, o nei mesi estivi od autunnali.
Non sempre l’impiego nobilita. Preferisco lo studente non lavoratore tenuto agli studi dai genitori o mercé una borsa, ai cosiddetti lavoratori, i quali, dopo essersi impiegati in un pubblico o privato ufficio, si iscrivono e non frequentano. Costoro per lo più non intendono affatto allo studio od al proprio perfezionamento spirituale; intendono al pezzo di carta, al certificato di laurea, il quale consentirà ad essi di passare da una categoria all’altra o di conseguire più rapide promozioni nella carriera intrapresa, a spese non di rado di colleghi più meritevoli. Costoro non sono veri studenti, né possono chiamarsi lavoratori, se per lavoro si intende quello che reca onore all’università e vantaggio alla società.
La conclusione della predica è una sola ed è sempre la stessa. Il porro unum et necessarium, il Delenda Carthago della università è l’abolizione di qualsiasi valore legale ai diplomi da essa rilasciati. Il timbro posto dallo stato non vale nulla; e l’attestato degli studi compiuti ha solo quel valore morale che la notizia della serietà e del rigore degli studi gli attribuisce.
Se l’abolizione del valore legale dei pezzi di carta giovasse a rendere più facile alle nostre sovra affollate università la scelta fra gli aspiranti a seguire i loro corsi, uno dei maggiori problemi del paese potrebbe dirsi avviato lentamente verso la soluzione.