La politica ferroviaria in Inghilterra Francia e Germania
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/07/1901
La politica ferroviaria in Inghilterra Francia e Germania
«Critica Sociale», 1 luglio 1901, pp. 196-200
L’esempio dei maggiori è sempre fecondo di insegnamenti: e se vi è un campo in cui ve ne ha bisogno, è proprio quello delle scienze sociali, per il metodo imperfettissimo con cui ordinariamente si studiano.
Le questioni ferroviarie, ad esempio, si basano ordinariamente sul problema preliminare: deve la ferrovia esercitarsi dallo Stato, o dalla industria privata? Il problema è posto nettamente e nella teoria si può risolvere con una certa precisione. Si parte da una data concezione dello Stato, si prescinde da attriti della pratica; si osserva quale deve essere la sfera d’attività dello Stato nei suoi rapporti con gli enti minori e coi cittadini e si tirano le conclusioni. E fin qui siamo in regola. Ma ecco che da questa pura teoria si passa senza transizione alla pratica; e si pretende risolvere il problema in base ai dettati di quella, senza riflettere che il punto di vista è completamente mutato, e che gli attriti di ogni genere imprimono una direzione diversa alla soluzione.
Un ingegnere, comunque la pensi sulla teoria delle unità fisiche, sul principio della vibrazione, sull’origine dell’elettricità, costo il quesito di costruire una dinamo, dato il materiale disponibile, il luogo d’impianto e la forza elettrica producibile, risolverà in modo uniforme il problema.
Ma da questa precisione di metodo siamo ben lontani nelle scienze sociali. Ecco un socialista che dirà: la ferrovia è industria di Stato; lo Stato si mostra adatto a tale impresa, esempio la Germania: affidiamola quindi allo Stato anche in Italia. Rispondiamo: in Germania la ferrovia fu assunta dal potere centrale, perché colà predominarono nella costruzione di essa le regioni strategiche. La divisione dell’Impero in Stati federativi portava ad un intralcio di tariffe deleterio al commercio. Tutte le condizioni del popolo tedesco. Infine l’Amministrazione tedesca non è l’italiana. Ebbene, queste verità che Monsieur de La Palisse poteva enunciare, sono oscure per molti: si parla di uno Stato, come se questo ovunque rispondesse a quel qualsiasi concetto arbitrario o logico che ognuno se ne è formato in testa sua; si dice «l’Amministrazione pubblica» quasi questa sia uguale nel tempo e nello spazio e non sia invece emanazione del popolo, risentendo quindi di tutte le sue virtù e di tutti i suoi vizi.
Lo stesso errore di metodo presiedette a gran parte della nostra legislazione. Pigliamo un esempio vivo: la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Un gruppo di deputati o un ministro di buon cuore si propongono una legge in materia. Questi signori sanno a memoria il loro Marx, hanno meditato The liberty del Mill, The State in relation to labour di Jevons, ecc. Sanno così, un po’ vagamente, che perfino l’Inghilterra, questo orco capitalista divoratore degli operai, sempre più fa intervenire in cotesta materia lo Stato. Quindi in Italia, per non restare addietro, propongono la loro brava legge, per tutelare le donne e i fanciulli nelle industrie.
Un ingegnere, quello della dinamo, ragionerebbe così: vi sono delle donne e dei fanciulli che soffrono, per ragioni svariatissime, nei diversi rami dell’industria: cotoni, sete, jutifici, risaie, costruzioni meccaniche, industrie chimiche, miniere di solfo, ecc. Le differenze sono create da più motivi, fra cui predominano le condizioni tecniche nelle quali si svolgono le singole industrie, e a queste bisogna aver riguardo anche per non danneggiare troppo le industrie stesse. Per dare efficacia alla legge, bisogna anche tener conto di ragioni d’indole sociale, che variano di regione in regione, dell’ambiente, dei costumi, della elevatezza morale delle popolazione e dei padroni, della forza dell’opinione pubblica, ecc. Nell’Alba Italia i fanciulli sono tutelati in parte per la loro igiene dai parenti operai e da un certo controllo della pubblica opinione; in Sicilia no. Là la classe operaia cresce con un certo elevato sentimento morale, con una salute relativamente buona; in Sicilia la classe dei solfatari subisce una vera evoluzione alla rovescia, certe deformazione fisiche prodotte da lavori precoci sono divenute ereditarie, il livello morale è così umiliante, che occorrono ben più rapidi ed efficaci rimedi. Nell’Alta Italia gli industriali sono frenati da più cause nel violare la legge: in Sicilia il frodare la legge nei modi più sfacciati è regola generale e l’Autorità pubblica, per ragioni dolorose, è connivente e schiava di coloro che frodano.
Quale la conclusione? Una leggina di indole generale in materia non ha sapore né efficacia. Occorrono leggi speciali, studiate da giuristi e da tecnici, le quali, volta per volta, caso per caso, trattino la materia delicata di regolare il lavoro di quelle donne e di quei fanciulli, che lavorano in quella determinata industria, avuto riguardo alle altre condizioni dell’ambiente[1].
È per combattere quella perniciosa tendenza alla generalizzazione antiscientifica che, ritornando al nostro caso, trattiamo qui, colla massima brevità e in base solo ai fatti, della politica ferroviaria in Inghilterra, in Germania e in Francia.
Nel primo caso, vedremo il trionfo dell’individualismo; nel secondo, quello della statolatria; nel terzo esempio, i risultati grandiosi del sistema misto!
Inghilterra: Quando, il 6 ottobre 1829, Giorgio Stephenson inaugurava colla sua locomotiva, nella pianura di Rainhill, la rete delle vie ferrate, la terra era una pagina bianca, su cui il traffico internazionale non aveva ancora tracciati i suoi disegni di ferro. Era naturale che questo nuovo mezzo di trasporto, che doveva sconvolgere il mondo, si sviluppasse prima che altrove nella grande Isola: in nessun luogo come là, l’ingegneria meccanica aveva compiuto meravigliosi progressi: in nessun altro luogo l’industria, trasformatasi radicalmente in pochi anni, aveva saputo accumulare tanta massa di capitale, che con entusiasmo si accinse a correre i rischi della costruzione delle ferrovie. D’altra parte, l’importanza di queste apparve subito allo spirito inglese, il quale non sollevò nessuna di quelle meschine obbiezioni, che nel continente resero famosa la opposizione dei Parlamenti al nuovo sistema di trasporto.
Il modo di origine spiega anche la politica ferroviaria d’Inghilterra.
Quivi nelle ferrovie, come in tutti i rami industriali, regna il sistema della libera iniziativa individuale. Già dai suoi inizi, la ferrovia trovava gli strumenti di trasporto organizzati assai meglio che in qualunque altra parte del mondo. Una rete di strada ramificata ed estera congiungeva i grossi centri industriali in modo logico ai punti meno importanti, sino ai più umili villaggi. Una serie di canali, accuratamente mantenuti, riallacciava tutto il paese interno a più di quaranta porti di mare. Il trasporto quindi esisteva già in tutta la sua ampiezza: ciò che richiedevano l’industria e il commercio era solo la massima accelerazione di esso. Si vide allora il sorgere di numerose piccole Compagnie, che si associavano per costituire penosamente grandi linee dirette: la loro fusione ulteriore impresse velocità e unità di indirizzo alle costruzioni, la cui prosperità si dovette alle eccezionali abilità tecniche dei direttori. Fin dall’origine la costruzione fu eseguita nel modo più economico e prudente. Si adottarono i tracciati più diretti, i percorsi più ridotti, per diminuire le spese di acquisto di terreni. L’infrastruttura invece fu eseguita senza economia e con la massima solidità. In compenso si eliminò ogni spesa di lusso per la stazione e per i treni. Quello che si vuole in Inghilterra è la velocità; quindi, sale d’aspetto ristrette, dovendovisi i viaggiatori fermare assai poco; i treni viaggiatori non trasportano mai merci: quindi si fanno circolare numerosissimi i piccoli treni di viaggiatori sono semplici, ma in compenso le locomotive vengono costruite ammirabilmente e sono perfette in tutte le loro parti.
Lo Stato intervenne abbastanza presto, ma molto blandamente, a regolare la materia ferroviaria. Una legge 9 agosto 1844 di Roberto Peel, modificazione poi in tre atti di consolidazione dell’8 maggio 1845, stipulò per lo Stato il diritto di modificare e di abbassare temporaneamente le tariffe e di riscattare le linee.
La concorrenza vivissima ebbe per risultato fecondo la creazione continua di nuovi tronchi. Benché il malessere delle piccole Compagnie, che si ripercuoteva in modo indiretto sul commercio, abbia dato luogo a inchieste parlamentari, pure il principio della concorrenza non ricevette nessuna seria restrizione. Attualmente, ad esempio, ben cinque robuste Compagnie si fanno concorrenza effettiva, con cinque linee proprie, fra Londra e Manchester, e tutte con largo profitto, come appare dai resoconti trimestrali pubblicati sull’Economist di Londra. In compenso però, le Compagnie sono sottoposte alle responsabilità illimitata per danni derivanti da ritardi o da qualsiasi altra causa, e per accidenti di ogni specie, riguardanti persone e beni. L’ammontare delle indennità non è sottoposto a nessuna regola, e questa responsabilità, che costituisce per le Compagnie una causa di specie annuali considerevoli, forma anche lo stimolo più potente per spingerle a vegliare alla sicurezza dei viaggiatori e al miglioramento del traffico.
A fianco delle Compagnie, vigila una Commissione delle ferrovie, che ha per iscopo di difendere gli interessi dello Stato e del pubblico, e che in ogni contestazione fra pubblico e Compagnie interviene come arbitra, non certo a favore di queste ultime. Questa Commissione costituisce una garanzia contro gli arbitrii delle Compagnie, assai maggiore del 150 membri, amministratori di Società ferroviarie.
Per il loro stesso sistema di costruzione, il capitale d’impianto delle linee inglesi rappresenta, a parità di lunghezza il doppio del capitale d’impianto delle linee prussiane e una volta e mezzo quello delle ferrovie francesi; anche le spese di esercizio, per le ragioni anzidette, sono considerevolmente superiori. Tuttavia il prodotto netto delle Strade ferrate inglesi non è inferiore a quello delle Strade ferrate del Continente. Notisi che la rete ferrata inglese può considerarsi come terminata: dalle linee stabilitesi ad arbitrio qua e là, a seconda dei bisogni del traffico e in corrispondenza degli interessi delle Compagnie imprenditrici, sono sorte fitte reti organiche, in mano a poche forti Società formatesi dalla fusione di quelle, a spinte, dalla concorrenza sulle linee migliori a forti e continui lavori per il miglioramento delle strade esistenti.
Ultimamente è cominciato un tentativo audace, che, se risponderà all’aspettativa dei suoi imprenditori, è destinato a portare una rivoluzione nei mezzi di trasporto.
Il tedesco Behr sta applicando un tipo di ferrovia elettrica fra Liverpool e Manchester: la distanza, in 52 Km., verrà percorsa in 20 minuti, ossia con una velocità di 160 km. all’ora. Il costo d’impianto venne preventivato in 40 milioni: gli introiti, basati sopra un minimo di 3200 passeggeri al giorno, in ciascuna direzione, sono calcolati a L. 6.400.000; le spese, e L. 1.800.000.
Se questo piano riesce, le Società inglesi sarebbero disposte a estendere questo tipo di ferrovia a tutta la rete delle grandi e rapide comunicazioni, limitando l’attuale sistema ferroviario alle sole merci e al servizio locale.
Sarebbe ora superfluo dimostrare qui con facile sfoggio di cifre, la ricchezza della rete ferroviaria britannica. La sua lode si fa in poche parole, ma che hanno un significato grandioso. L’attività privata inglese ha saputo con minime scosse creare da sola un sistema di circolazione che soddisfa pienamente al vertiginoso movimento industriale della grande isola. Tutta questa opera di giganti non ha pesato per una lira sterlina sull’economia pubblica inglese.
Francia. Ci tratteremo alquanto più a lungo sulla politica ferroviaria francese, perché ad essa si accosta in parte il nostro sistema misto. Qui il concetto è radicalmente opposto e quello inglese.
In Francia, il diritto dello Stato sulla strada ferrata è un diritto di sovranità, quindi inalienabile e imprescrittibile; la ferrovia è un bene demaniale, su cui le Compagnie non hanno che un diritto di esercizio. Lo Stato decide della direzione delle linee e della loro creazione, prima ancora che esistano Compagnie per costruirle. Lo Stato determina le tariffe massime, e ogni variazione di queste è sottoposta a una lenta procedura di omologazione ministeriale; in Inghilterra le Compagnie regolano ad arbitrio le tariffe, dietro i reclami dei privati o delle Amministrazioni, in quanto si credano offesi nei loro diritti.
Il sistema francese in materia ferroviaria è basato principalmente sulla legge 11 giugno 1842. Da allora esso passò, quasi inalterato nelle sue linee generali, attraverso alle scosse politiche e ai frequenti mutamenti di Governo.
Prima del 1842, la ferrovia era così poco estesa, da non richiamare in modo speciale l’attenzione del paese: anzi generalmente si riteneva che essa fosse più atta dei vecchi sistemi di trasporto al trasporto delle persone, ma inetta del commercio delle cose. La legge del 1842 stabiliva i seguenti canoni: delineava il tracciato da essere percorso dalle nuove reti ferroviarie; ed il tracciato era studiato saggiamente in vista delle condizioni geografiche del paese. L’esecuzione delle grandi linee doveva aver luogo col concorso dello Stato, dei Dipartimenti e dei Comuni interessati, libero allo Stato il concedere l’esecuzione in tutto o in parte alla impresa privata. Il concetto del sistema misto venne quindi fin d’allora a formare il caposaldo della politica ferroviaria francese, malgrado che già alla Camera si sollevassero voci a favore delle ferrovie di Stato, fra cui eloquentissima quella di Lamartine.
L’Impero di Napoleone III fu utile allo sviluppo delle ferrovie. Con successive convenzioni esso consolidò le linee esistenti, le riallacciò a nuovi tronchi, diede forza di vita alla costruzione delle grandi Compagnie. Nel 1858 esistevano sei grandi reti, in mano di altrettante Compagnie; del Nord, dell’Est, Parigi Lione Mediterranea (P-L-M), di Orleans, dell’Ovest, del Mezzogiorno. Le concessioni comprendevano 16.172 Km., con un costo di 4014 milioni, anticipati per la massima parte dalle Compagnie; lo Stato aveva adottato a loro sollievo il sistema della garanzia d’interessi.
Così la ferrovia diventata il più importante sistema di trasporti, con una utilità universalmente riconosciuta. Ad essa andavano riunendosi più altri interessi: massimo quello della costruzione di linee, in paesi dove il commercio non era ancor molto sviluppato e per scopi strategici. Le nuove costruzioni volute dal Governo imperiale, portarono alla convenzione del 1859. Eccone le principali disposizioni. Le concessioni di ogni Compagnia venivano, divise in due sezioni, sotto il nome di antica e di nuova rete. La garanzia di interessi cessava per la rete antica, più produttiva, e veniva conservata per quella prova, reclamata dallo Stato, no dalle Compagnie. Il tasso di questa garanzia era del 4.65%, compreso l’ammortamento, per 50 anni. Le somme così anticipate dallo Stato dovevano venirgli restituire, non appena i prodotti della nuova rete superassero l’interesse garantito. Se, allo spirare delle concessioni, lo Stato fosse ancora creditore, si compensava colla ripresa del materiale mobile. In compenso dei vantaggi loro accordati, le Compagnie dovevano, a partire dal 1872, dividere con lo Stato la parte di prodotto netto che eccedesse una certa cifra; inoltre tutta la porzione del prodotto netto dell’antica rete, che superasse una certa cifra chilometrica, si riversava sulla nuova, per coprire, fino a concorrenza, l’interesse garantito dallo Stato.
Come si vede, queste Convezioni sono d’importanza fondamentale: le Compagnie assumevano per volere pubblico la costruzione di nuove linee, che, abbandonate all’arbitrio della libera concorrenza, non sarebbero state impiantate, perché poco produttive; il capitale azionario veniva in compenso ad avere la sicurezza dell’interesse ordinario.
Le convenzioni del 1859 risposero, nei loro effetti immediati, che, sostenute dalla Banca di Francia, poterono impiegare facilmente le loro obbligazioni. Le costruzioni fecero rapidi progressi; il traffico crebbe, dal 1859 al 1864, del 50 per cento.
È noto lo sfacelo che seguì in Francia alla guerra del 1870: il paese umiliato, l’esercito disciolto, lo Stato scosso nelle due basi, le finanze oppresse sotto l’oneroso fardello della indennità di guerra. La Francia si mostrò allora maggiore di sé stessa: in quattro anni l’indennità era pagata, le pubbliche finanze ristorate, ritornata nel pubblico una balda confidenza. Otto anni dopo Sedan, il il sig. di Freycinet, sostenuto da Gambetta e da Leone Say, presentava e propugnava il progetto per l’avvenire delle ferrovie francesi, dal titolo Grand Programme. Esso comprendeva circa 16.000 km. di nuove linee da costruire, per porre la Francia al sicuro e metterla al pari delle due grandi nazioni vicine e rivali, l’Inghilterra e la Germania. Il costo era previsto in 3200 milioni, da dividersi in 10 anni, ossia 320 milioni di franchi all’anno.
Il progetto divenne legge il 16 luglio 1879; per incarnarlo, lo Stato addivenne con le grandi Compagnie a nuovi patti, che, dopo laboriosi dibattiti, formarono le Conversioni del 1883. Con esse lo Stato non modificò la sua situazione, relativa alla garanzia d’interessi, se non relativamente alla durata, prolungata. In compenso però, esso si liberò dei deficit di esercizio delle nuove linee. Difatti, benché il Tesoro garantisse un dividendo minimo alle azioni, le Compagnie avevano interesse a ridurre al minimo le spese di esercizio: il prodotto netto permetteva in tal modo non solo di assicurare il servizio finanziario del capitale, ma anche di attribuire alle azioni un dividendo superiore a quello garantito. Le spese di costruzione pesavano per gran parte sullo Stato; ma indirettamente. Esso lasciava alle Compagnie l’incarico di provvedere i capitali necessari sul mercato finanziario, limitandosi a garantirne l’interesse per l’ammortamento.
Pure, per far ciò, lo Stato doveva contrarre un prestito; e questo appariva assai più grande del previsto; poiché nel 1882 si calcolavano a 7900 milioni le spese da farsi ancora per l’esecuzione del Gran Programma, calcolate in tutto nel 1879 a 3200 milioni! Fu allora che Leon Say immaginò la famosa consolidazione del debito fluttuante per mezzo delle risorse della Cassa depositi e prestiti; la consolidazione fu fatta, emettendo 1200 milioni in titoli 3% ammortizzabili e ritirandoli dalla circolazione. Il piano ebbe tre immensi vantaggi: dette allo Stato il potere di operare la conversione del suo 5%, che sgravò il Tesoro di 34 milioni all’anno; sostituì per l’esecuzione dei lavori il credito delle Compagnie a quello dello Stato: cosicché questo, riapparendo il gran libro del debito per obbligazioni, lo chiuse per la rendita, assicurando il mercato finanziario; facilitando i lavori, la Repubblica si mostrò degna di succedere alla Monarchia e all’Impero.
Dunque tre sono i cardini fondamentali della politica francese in materia ferroviaria: sovranità dello Stato sulle linee; queste non sono cedute alle Compagnie private se non in affitto; – ripartizione dei prodotti fra le Compagnie e lo Stato; – garanzia d’interessi. Quanto al concetto di incaricare le Compagnie dell’emissione delle loro obbligazioni, esso fu fortunato. Le Società da vari anni hanno potuto rinunziare all’aiuto dell’alta Banca. Le obbligazioni ferroviarie costituiscono un titolo che fa concorrenza a quelli di Stato e che è ricercatissimo del capitalista francese: tanto che l’interesse su di esse ha continuato a ribassare, e nel 1895 la Compagnia d’Orleans impiegò sul mercato, con promettente fortuna, un primo saggio di obbligazioni del 2 1/2 per cento. Ogni stazione ha uno sportello aperto, dove chiunque può comprare o rivendere obbligazioni, dare ordini, far commutazioni, conversioni di titoli da nominativi al portatore e viceversa, ecc. Questo servizio viene eseguito senza spesa di sorta: così le Società francesi eliminano il costoso intermediario del banchiere e si pongono in immediato contratto col piccolo rentier.
Il sistema della garanzia di interessi costituisce la chiave di volta di tutto il sistema francese. Esso non è scevro di inconvenienti; massimo la mancanza di sicurezza. Un prestito lascia vedere a quale onere lo Stato va incontro anno per anno; la garanzia di interessi piomba ogni previsione nel buio. Essa di fatti salì, in alcuni anni, a cifre formidabili. Ora il problema di vedere se le Convenzioni del 1883 furono «scellerate» o feconde di benefizii, si muta appunto in quest’altro: partendo dall’ipotesi che la rete francese sarà terminata col compimento delle linee d’interesse generale classificate dal Gran Programma, e che nella prima parte del nuovo secolo il progresso dell’ordine politico o economico non sarà turbato da rivoluzioni, lo Stato, allo scadere alle Convenzioni (1950), sarà completamente saldato delle somme anticipate alle Compagnie? Questo studio ha formato la preoccupazione di vari statisti francesi e forestieri.
Il lavoro migliore per acume di ricerche, precisione di dati e quantità di fatti, è quello del professore Kaufmann di Berlino, le cui conclusioni citiamo qui, perché non solo non furono contraddette, ma vennero anzi accolte e suffragate dai fatti, come ha dimostrato di recente il signor Hamon, traduttore degli studi del chiaro professore berlinese. Le basi dello studio fatto di quest’ultimo sono: 1. la situazione del debito in capitale delle Compagnie che restava da ammortare alle fine del 1893; 2. l’accrescimento probabile di questo debito in capitale fino al termine dei lavori, tenendo conto anche del corso probabile delle obbligazioni che restano da emettere; 3. il tempo necessario all’ammortamento, perché esso si compia nelle epoche previste; 4. il servizio degli interessi; 5. infine, l’accrescimento probabile del prodotto netto. Tutti questi calcoli furono fatti prendendo per punto di partenza il 1893, anno di speciale di depressione. Quanto alla garanzia d’interesse, questa fu nel 1893 di 97 milioni; prevista per l’anno successivo in 116 milioni, ne richieste solo 77: poi ha seguitato a scemare con forte velocità, sino a ridursi nel 1899 a L. 9.340.000. In sei anni dunque il progresso è stato immenso: dell’80 per cento. Nel «Journal des Economistes» dello scorso mese, studiando l’anno finanziario 1899, si è colpiti dal seguente fatto: che, mentre il movimento del traffico di importazione e di esportazione è in continua diminuzione, mentre il tonnellaggio nei porti presenta una costante decrescenza, solo le Banche e le ferrovie danno segno di una prosperità in continuo aumento, sicché le Compagnie ferroviarie hanno potuto recentemente diminuire le tariffe di trasporto delle merci. Quindi ora la Compagnia del Nord basta già completamente a sé stessa: la P.L.M. ha cominciato dal 1898 a dividere i suoi utili con lo Stato. Quanto la politica ferroviaria poteva produrre dal punto di vista finanziario è completamente realizzabile. Alla fine delle concessioni, con ogni probabilità, tutto il capitale speso sarà ammortizzato, tutte le anticipazioni di garanzia saranno rimborsate; lo Stato, grazie alla partecipazione dei benefici, raccoglierà circa 4900 milioni netti. Ma, ciò che è veramente gigantesco, esso si troverà anche in possesso da una rete di circa 40.000 Km. di un valore attuale complessivo di 24 miliardi, liberi da oneri; col reddito netto di esso, circa 1200 milioni, lo Stato potrà pagare un interesse del 2 1/2% a un capitale di 48 miliardi, superiore del 50% al debito pubblico attuale!
Tale è stata la politica ferroviaria in Francia.
Germania. La genesi delle ferrovie in Germania è affatto singolare: la divisione politica degli Stati non permetteva di far convergere le linee verso un punto unico. Il Governo di Brunswick fu il primo a costruire una ferrovia di Stato da Brunswick a Wolfenbuttel: fu seguito dal Gran Ducato di Baden, dalla Baviera, dall’Hannover e dal Wurttenberg. Invece gli altri Stati abbandonarono le linee a Compagnie private. La Prussia riconobbe immediatamente l’importanza della ferrovia, ma sotto il punto di vista che maggiormente doveva interessarla, quello strategico, e quindi tentò subito la fondazione di linee che, partendo da Berlino, si dirigevano verso il nord ovest e il sud est, riallacciando le due metà allora separate della monarchia.
Due cause nocquero specialmente alla fondazione della rete tedesca: la situazione del mercato finanziario, e lo spezzamento politico. Un antagonismo disastroso regnava allora fra i diversi Stati, facendo ritenere la ferrovia come un danno pei singoli commerci e un attento ai diritti di sovranità. Il piano concepito in Prussia nel 1838 era di abbandonare dapprima l’impianto e l’esercizio delle ferrovie all’industria privata, poi, come nel sistema francese, preparare l’incorporazione delle linee al demanio dello Stato. Però l’idea della garanzia degli interessi dello Stato. Però l’idea della garanzia degli interessi non era così netta come in Francia. Invece di essere accordata per lunghi anni, veniva data come soccorso momentaneo, e, se la reclamava di frequente, lo Stato si riservava il diritto di assumere direttamente l’esercizio delle linee e di amministrarlo per conto delle Compagnie. In tal modo lo Stato divenne esercente: e da questo a divenire proprietario delle linee, il passo fu breve.
Lo Stato difatti cominciò direttamente nel 1847 la costruzione delle linee dell’Est e i progressi furono rapidissimi. Nel 1849, a fianco di 2833 Km. esercitati da Compagnie, lo Stato ne esercitava 33 di linee private. Nel 1852 vi erano 1245 Km. di ferrovie di Stato. Questo movimento seguì con varia velocità fino al 1879. Con legge del 29 ottobre di quell’anno, la Prussia cominciò il riscatto delle sue ferrovie. Da allora in poi tutta la politica ferroviaria tedesca restò orientata in modo deciso, sotto la necessità dell’unificazione dell’Impero. Qui pure, l’impulso e la direzione del movimento venne dalla man possente del Gran Cancelliere. In un discorso famoso del 1876, il principe Bismarck descriveva l’eccessiva suddivisione delle linee tedesche, formati 82 indipendenti con 66 presidenti: rilevava i danni di questo stato di cose, che aumentava le spese di esercizio e moltiplicava le tariffe. Avvertiva come spesse volte gl’interessi dell’Amministrazione pubblica si trovassero in urto con le necessità finanziarie delle Compagnie e faceva notare i pericoli della sorveglianza indiretta dello Stato.
Dopo il 1879, le ferrovie aumentarono rapidamente. Per comprenderne i motivi, basta dare un rapido sguardo d’insieme allo slancio poderoso preso dal commercio tedesco, dopo l’unificazione della Germania. Il commercio generale dell’Impero, che nel 1888 era 8490 milioni, dieci anni dopo ammontava a 12.000 milioni di lire, con un aumento del 30 per cento. Questo sviluppo spetta pel 48% ai mezzi di trasporto terrestri, pel 62% a quelli di mare. Il prodotto tedesco ha invaso i mercati di tutto il mondo. Nei paesi scandinavi l’esportazione dell’Impero dal 1882 al 1898 è cresciuta del 220%, nell’Africa australe del 300 per cento: in Asia, la China compera dalla Germania per 30 milioni di lire nel 1889, per 60 nel 1897, il Giappone per 17 milioni nel 1889, per 50 del 1898.
Se guardiamo poi al movimento marittimo, i passi sono ancor più stupefacenti. Trent’anni fa la bandiera tedesca era quasi sconosciuta nei mari lontani: ora batte la bandiera francese. La flotta, che nel 1871 aveva 500 bastimenti, ne conta con 3592, della capacità di 1.502.000 tonnellate. Il porto d’Amburgo poi, che nel 1880 vantava un tonnellaggio di 5.500.000 unità, ora sale a 14.800.000, nel mentre che Marsiglia conta un movimento di 4.600.000 tonnellate e Genova di 3.900.000!
Abbiamo già notato che lo sviluppo del traffico è intimamente connesso, nel rapporto di causa ad effetto, con quello dei mezzi di trasporto. Dopo le cifre ora esposte, non meraviglieranno quindi le seguenti.
Nel 1897 esistevano in Germania Km. 43.071 in potere degli Stati, 79 di linee private esercitate dagli Stati stessi, 3021 di linee private indipendenti. Il capitale d’impianto era calcolato a 11.603.731.973 marchi, ossia 251.973 marchi (314.966 fr.) per Km.
Quanto all’importanza del traffico, ci è data da queste due cifre del biennio 1896/97: viaggiatori 646.936.240; tonnellate di merci 270.528.109; ossia, per Km.: 14.336 viaggiatori e 5902 tonnellate. Lo Stato tedesco ricava dal suo capitale d’impianto ferroviario un introito netto annuale di 1.207.000.000 di marchi, corrispondenti a un interesse del detto capitale del 6,65 per cento: l’interesse medio del capitale ferroviario in Inghilterra è del 4%, in Francia del 3,55%, in Italia del 2 per cento. La rete meglio esercitata è quella prussiana, che rende il 7,15 per cento. Questo, malgrado che le ferrovie tedesche abbiano spese di amministrazioni maggiori e un coefficiente di esercizio notevolmente superiore a quello delle ferrovie inglesi e francesi.
Gli attacchi più forti, mossi al sistema tedesco, hanno la loro ragione di essere nel sistema delle tariffe e nel modo con cui le entrate ferroviarie vengono adoperate. Il debito pubblico si identifica in gran parte col debito ferroviario: sembrerebbe quindi opportuno che una parte abbastanza rilevante delle entrate nette venisse destinata all’ammortamento del capitale d’impianto. Invece, per necessità finanziaria, somma ben piccola e fluttuante viene destinata a tale scopo: cosicché, mentre allo scadere delle Convenzioni francesi i 1200 milioni di entrata del capitale ferroviario costituiranno per la Francia un reddito netto, essendo completamente ammortizzato il capitale, altrettanto non può dirsi per la Germania stessa. È pure la stessa spinta delle necessità finanziarie che costringe l’Impero a mantenere la eccessiva altezza delle tariffe ferroviarie, le quali non rappresentano tanto un semplice prezzo di trasporto, quanto una vera e propria forma d’imposta.
Bisogna però osservare che un autorevolissimo economista, il Cohn, esaminando in un suo recente studio questa questione, ha rilevato giustamente che i 1200 milioni di marchi di entrata del capitale ferroviario corrispondono a una diminuzione di altrettanto valore nell’ammontare delle altre imposte. Ora, uno studio accurato di queste ha posto in grado il Cohn di affermare, e ci sembra a ragione, che la forma d’imposta, prelevata come aumento del prezzo di trasporto, è attualmente la meno gravosa e la meno sentita dal contribuente tedesco. Resterebbe veramente da esaminare se un ribasso di tariffe non farebbe entrare nelle Casse dello Stato una somma maggiore dell’attuale, in causa di un forte aumento che potrebbe conseguirne nel traffico. Questa è però questione troppo ampia e sottile per venir qui esaminata. Ci limiteremo a ricordare, che in Ungheria lo Stato si è assoggettato a esercire le ferrovie in perdita, pur di dare incremento a certe industrie del paese, calcolando che il gettito maggiore di imposte, che per altra via ne sarebbe conseguito, avrebbe compensato ad usura la finanza; questo calcolo sta riuscendo in modo meraviglioso. (Continua)
ATTILIO CABIATI, LUIGI EINAUDI
[1] Sulla massima siamo perfettamente d’accordo coi nostri collaboratori. Ma l’esempio del disegno di legge sul lavoro infantile e muliebre, proprio non calza. Calzerebbe, se il progetto proponesse un orario normale identico per tutte le località e per tutte le industrie. Ma finché si propone un massimo di orario a un minimo di età, quali sono richiesti dalle più elementari norme dell’igiene e dal supremo interesse della salvaguardia della specie, il dovere dello Stato è generale e la misura non può essere che unica; perché i bimbi e le donne sono fatti supergiù della medesima stoffa sempre e dovunque. Così la legge penale, che vieta e punisce l’omicidio, i maltrattamenti, la corruzione di minorenni, ecc., è unica, e deve esserlo, in tutto lo Stato e a difesa di tutti i cittadini.
Oltre quel limite minimo, ulteriori progressi la organizzazione operaia conquisterà (e in parte ha già conquistati), diversi a seconda dei luoghi; leggi speciali e distinte potranno consacrarli od agevolarli. Ma vi è pure un confine di sfruttamento lecito, comune a tutte le imprese; ed è quello segnato dall’integrità della specie.