La mutazione dei piani
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/07/1961
La mutazione dei piani
«Corriere della Sera», 20 luglio 1961
Quali sono le probabilità che un piano sia attuato?
È evidente che un piano concepito, come quello della massaia, per una settimana, ha la massima probabilità di avveramento; laddove sono limitate le probabilità di un piano concepito per cinque o, peggio, per dieci anni. La massaia può sbagliare nel prevedere e calcolare i prezzi delle varie qualità di carne o tipi di verdure.
Tutti i prezzi variano a seconda degli arrivi sul mercato, delle stagioni, della conservazione. La massaia cambia la qualità, ne muta le proporzioni e si aggiusta. Quel che monta è la spesa totale, la quale non deve eccedere quel che era rimasto libero del contenuto della busta – paga.
Prevedere invece quel che costerà, con un piano quinquennale di ricostruzione, il cemento necessario per un ponte, il quale sarà messo in lavorazione fra cinque o dieci anni, è assai più difficile; ché le previsioni a distanza di tempo sono soggette ad assai maggiori rischi di sbaglio.
Quanto più distante è il tempo, tanto maggiore è il rischio.
Taluno statistico od economista ha acquistato perizia nel calcolare i rischi di sbaglio; ma le previsioni poco tolgono al danno dello sbaglio. Forse è più fruttuosa la domanda: chi può decidere e può modificare il piano?
La massaia è nelle condizioni ottime: sa quanto ha in tasca e quanto può spendere quel mattino. Va sul mercato o nella bottega, osserva i prezzi, confronta la qualità e decide. Così fa la moglie dell’impiegato e la donna di casa, le quali accudiscono esse stesse agli acquisti bisognevoli per la famiglia.
Così non può fare in tutto la padrona di casa la quale deve dare ordini alla cuoca od al domestico e deve rassegnarsi a quella combinazione di acquisti che costoro hanno potuto, in vece sua, decidere. L’industriale, il commerciante, l’agricoltore il quale ha fatto, al principio dell’anno, un piano per il lavoro durante i dodici mesi, muta il piano a seconda dell’andamento delle vendite, dei prezzi di acquisto dei combustibili, della forza motrice e delle materie prime e dei salari convenuti con un nuovo contratto con i suoi operai o con la lega che li rappresenta.
Nessun piano è fisso; e muta e deve mutare per tener conto delle mutabili circostanze in cui l’impresa deve operare. Caratteristica comune a tutti i piani è che la decisione è affidata alla massaia, alle donne di casa, all’industriale, al commerciante, all’agricoltore, ossia al padrone dell’impresa. Costui si informa, studia prezzi e mercati, legge le pagine dei giornali utili a dargli informazioni, segue gli avvenimenti del giorno che possono guidarlo, per vantaggio o per danno, nel suo lavoro; e decide.
La sua potrà essere decisione sbagliata; ed egli solo ne avrà la responsabilità e ne soffrirà il danno. Più complicata è la faccenda quando l’imprenditore ha uno o parecchi soci, di capitale o di opera, che egli deve ascoltare e con i quali deve mettersi d’accordo.
Se si ha fiducia reciproca, ciascuno lavora nel suo campo e le decisioni non sono gran fatto più ardue da quelle dell’imprenditore singolo.
Gli attriti e le discussioni nascono quando i soci sono parecchi ed i compiti non sono nettamente ripartiti. Nasce qualche ritardo nel decidere e si può mancare qualche buona occasione. In generale, tuttavia, le difficoltà non sono insormontabili.
Nelle società grasse, fornite di un consiglio di amministrazione, questo non è chiamato a deliberare, se non per le grandi decisioni e in maniera generica.
Esiste sempre, accanto al consiglio intiero, troppo numeroso, un comitato di poche persone: consigliere delegato, presidente e pochi altri. Costoro si vedono quasi tutti i giorni, discutono, ritardano nei casi dubbi, ma sostanzialmente sono essi che decidono le mutazioni giornaliere di quel che si deve fare, ossia le variazioni del piano. Se il piano formulato al principio dell’anno rimanesse invariato, vorrebbe dire che il principale od i gerenti sono invecchiati e la loro mente non lavora più agilmente e segue norme abitudinarie che un tempo avevano fatto la fortuna della casa; ma è improbabile siano atte a farla ancora. Se un piano non è continuamente variato; se i dirigenti non hanno più la mente aperta; se non sono pronti a tener conto del nuovo e dell’imprevisto, vuol dire che l’impresa sta lentamente morendo.
Con onore, facendo fronte agli impegni, tuttavia muore.
Le previsioni iniziali sono necessariamente fallaci. Se al principio dell’anno si radunassero i tre o quattro dirigenti, ad esempio, di una banca; e decidessero, – cosa che in verità non succede, ma non è escluso accada e sarebbe assai desiderabile accadesse ad ammaestramento di coloro che farneticano ogni giorno piani, grossi piani, massicci, quinquennali, decennali, centennali per rigenerare le zone economicamente attardate, depresse o sottosviluppate, – decidessero di esporre in un quadro quale sarebbe la distribuzione migliore, più utile per la clientela, i depositanti e la banca dei mezzi che si calcola possano affluire all’istituto e possano essere sicuramente e fruttuosamente impiegati nell’anno: tanto per cento del disponibile agli agricoltori, tanto agli industriali tessili (lana, cotone, seta, filati artificiali), tanto alle vetture automobili, ai trattori industriali ed agricoli ecc. ecc., tanto in prestiti ai professionisti, ai commercianti, agli artigiani; così da esaurire tutte le possibili richieste della clientela sicura, ripartita in quella a cui bisogna correre dietro, perché tutte le banche sono ansiose di fornirle denaro e in quelle, sempre buone, ma sulle quali occorre caricare una certa, maggiore o minore, quota di rischio.
Chi più di quei pochi dirigenti è meglio a grado di fare previsioni, ossia di fare un piano? Fanno quel mestiere da anni: hanno commessi errori e li hanno riconosciuti ed hanno tentato di tamponarli; sicché, grazie agli errori ed ai successi, hanno conquistato la fiducia degli interessati e son divenuti essi stessi padroni della banca. Supponiamo che, dopo aver compilato il quadro delle previsioni, ossia il piano d’azione dell’anno, decidano di chiuderlo nella cassaforte e rivederlo solo a fine anno. Frattanto, essi hanno seguitato a mutare previsioni e piani e decisioni, come è loro ufficio, di giorno in giorno.
Che cosa concluderebbero, riguardando il prospetto a fine d’anno?
Che essi hanno operato in modo tutto diverso dalle previsioni, che le loro percentuali di fido alle diverse categorie di attività, alle varie specie di persone sono diverse da quelle scritte nel bilancio originale; che le cifre scritte in esso sono ridicolmente diverse da quelle che l’esperienza ha verificato essere le buone.
Quale la conclusione?
Non che i piani sono inutili; che anzi la loro continua mutabilità dimostra quanto essi siano utili, perché costringono a riflettere sulle cose che succedono e a tener conto della decadenza di taluni clienti e del fiorire degli altri. Lo scarto, anche grossolano, fra le previsioni e l’accaduto metterebbe solo in luce quanto grande sia la boria, quanto smisurata sia la superbia di coloro i quali presumono di prevedere e decidere quel che un paese intero deve fare per giungere da una situazione determinata ad un’altra in tre, cinque o dieci anni.
Come si comportano i piani pubblici, quelli compilati dallo Stato, dalle provincie e dai comuni sul punto della loro necessaria variabilità? Una lunga esperienza esiste in argomento; ed è quella relativa al bilancio propriamente detto dello Stato, concernente cioè quella parte del piano nazionale che è amministrata direttamente dallo Stato: entrate e spese. poiché il ministro del tesoro deve presentare il bilancio, ossia la quota statale del piano nazionale, entro il 31 marzo, l’elaborazione ha inizio ben prima.
Il ministero delle finanze compila il piano più grosso: quello delle entrate. Quale gettito daranno le imposte, singole e nel complesso, nell’anno dall’1 luglio 1961 al 30 giugno 1962?
La previsione va fatta a sei sette mesi di distanza, quando si conoscono solo in parte le effettive entrate dell’anno corrente 1960 – 61; e non è facile indovinare gli incassi effettivi del 1961-62. L’uso era di basarci su una media degli incassi degli anni precedenti; e ciò se, come accadde nel 1885 – 93, l’economia del paese era in regresso, recava la conseguenza di previsioni troppo larghe e di disavanzi. Che se invece l’economia fiorisce, le previsioni peccano per difetto e l’erario si trova ad avere poi a godere di eccedenze di entrate, cosa assai pericolosa perché spinge all’allegria ed allo spreco.
I preventivi della spesa sono apparecchiati dai ministeri detti «competenti»; ognuno dei quali – ed oramai sono una ventina – gonfia le cifre per mettersi in salvo contro le ritorsioni del tesoro. Quando i ministeri inviano le proposte al tesoro, uno spaventoso distacco si rivela fra il totale delle entrate previste dal ministero delle finanze e il totale delle spese, preventivate dai singoli ministeri, compreso quello delle finanze, grossissimo anch’egli fra gli spenditori, poiché deve spendere assai per riscuotere.
L’arbitro è il tesoro, che è il nemico comune di tutti i ministri, rappresentanti della spesa.
Il tesoro è l’orco, che resiste alle domande più giuste di spese necessarie richieste dal grido unanime degli italiani. Dentro il tesoro, la testa di turco meglio presa di mira è un personaggio, detto «ragioniere generale dello stato», nel quale si riassume tutta la ostinazione del burocrate incallito nel dire di no alle richieste più sacrosante. Tutti dimenticano che il vero personaggio del dramma è il signor contribuente, che sarebbe chiamato, pagando cresciute imposte, a pagare lo scotto delle spese maggiori.
Gli stessi, i quali gridano contro la caparbietà del tesoro, si indignano quando la bolletta dell’esattore reca una cifra cresciuta; e non riflettono che il piano detto bilancio deve «bilanciare», ossia che il piatto delle entrate deve stare allo stesso livello del piatto delle uscite; come nelle faccende sue è persuasa debba fare la massaia.