La grande scoperta. Il reddito «vero» ed il reddito «normale»
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 23/12/1944
La grande scoperta. Il reddito «vero» ed il reddito «normale»
«L’Italia e il secondo Risorgimento», 23 dicembre 1944
Scrissi l’ultima volta che accanto ad una politica di eliminazione progressiva della sezione della trottola sociale posta al di sotto del minimo sufficiente al tenore di vita normale, lo Stato deve condurre un’altra politica: quella della eliminazione delle punte troppo alte dei redditi e, più in generale, della riduzione del volume della sezione superiore appuntita della trottola sociale. Ed aggiungevo che lo strumento usato con successo grande in alcuni paesi di civiltà occidentale, come l’Inghilterra, i paesi scandinavi e la Svizzera, è noto e si chiama imposta.
Purtroppo le vicende storiche e la tenuità dei redditi medi italiani hanno fatto sì che il sistema tributario italiano sia congegnato in maniera siffatta da rendere aspra la strada da percorrere all’uopo. Si pensi che innanzi al 1914, lo Stato – e si ricordi sempre che per Stato qui si intende ogni maniera di enti pubblici aventi diritto d’imposta – assorbiva con le imposte non più del 15 per cento del reddito nazionale, e che via via la percentuale era salita al 20, al 25, al 30 per cento, anche in anni non di guerra guerreggiata.
È difficile di poter immaginare che, anche tenuto conto di una riduzione delle spese militari e di quelle patologiche dell’elefantiasi corporativa e sindacalistica forzosa, ed anche ammesso che le spese della ricostruzione debbano essere sostenute con il provento dei prestiti, interni ed esteri, invece che con le imposte, è difficile, dico, immaginare che lo Stato possa in avvenire prelevare meno del 30 per cento a titolo di imposta sul reddito nazionale.
Dovranno crescere, per le ragioni dette altra volta e massimamente perché non si potrà aumentare la produzione senza modificare la distribuzione della ricchezza, le spese sociali: assicurazioni, scuole, servizi pubblici gratuiti; e l’incremento assorbirà, e ben al di là, il risparmio conseguito sulle spese militari. Non so se ci si faccia in genere una idea precisa di quel che significhi un prelievo medio del 30 per cento sul reddito nazionale. Si ricordi la forma della trottola la quale raffigura la distribuzione dei redditi. La sezione, che sta al di sotto del gonfiore massimo della trottola, è incapace a sopportare imposte.
Trattasi di redditi minimi, inferiori al tenore di vita considerato normale. Può darsi che gli appartenenti a questa zona fumino e bevano qualche po’ di vino; ma si tratta di contributi non rilevanti. Quanti appartengono alla zona inferiore?
Se si riflette che nei paesi più ricchi, come in Inghilterra, si è riuscito, con gran fatica, ad abbassare il numero degli appartenenti alla zona bassa dal 10 all’8 per cento del numero totale, si può prudenzialmente supporre che costoro siano in Italia il 20 per cento del numero totale ed assorbano il 10 per cento del reddito nazionale. Se sul totale di 100 bisogna pagare 30, lo stesso 30 è il 33 per cento di 90. Il carico medio di quelli che pagano sale al 33 per cento. Andando avanti, è evidente che coloro, i quali sono appena al di sopra della linea normale, non possono pagare né il 33, né il 20 e neppure il 10 per cento del reddito.
C’è per tutti, un quantum di reddito che l’imposta non può toccare, perché è appena il necessario per vivere. Il concetto del «necessario per vivere» è elastico e varia da paese a paese, a seconda del tenore di vita e della ricchezza nazionale. Se noi supponiamo che il «necessario» sia un franco svizzero attuale al giorno a testa – non faccio ipotesi arbitraria, essendo quella una cifra corrispondente all’ingrosso al minimo di reddito esente dalla vecchia italiana imposta di ricchezza mobile – vien fuori, per 45 milioni d’italiani, una massa di reddito di 16 miliardi e mezzo di franchi svizzeri attuali, la quale non può pagare imposta, perché è tutta composta della quota del reddito necessario alla vita.
Poiché, al massimo il reddito nazionale italiano può essere calcolato uguale a 50 miliardi annui di franchi svizzeri attuali, e poiché 16 miliardi e mezzo non possono pagare niente, restano gli altri 33 e mezzo a sopportare tutto il carico dell’imposta.
Ossia, all’incirca si può concludere che i contribuenti italiani in media dovranno, sull’eccedenza del loro reddito oltre un franco svizzero attuale al giorno a testa, rassegnarsi a pagare un’imposta uguale alla metà effettiva del reddito. Se ciò non si fa, il bilancio dello Stato non pareggia e si va incontro alla catastrofe del ricorso al torchio dei biglietti, all’annullamento della lira.
Un carico d’imposta del 50 per cento sul reddito medio imponibile, ove si intenda per imponibile l’eccedenza oltre un franco svizzero attuale a testa al giorno, può essere insopportabile ed assurdo ovvero ragionevole e fecondo.
Conseguenze assai diverse derivano dalla medesima causa. Si pensi innanzi tutto all’impiego fatto dal provento dell’imposta. Noi italiani dobbiamo ricordare in proposito una polemica illustre, che si ebbe poco dopo il 1850 fra due napoletani, ambedue insigni per ragioni diverse. L’uno, Agostino Magliani, allora segretario nel ministero borbonico delle finanze, esaltava l’eccellenza del sistema napoletano: poche e tenui imposte, piccolo debito pubblico.
Quanto migliore la condizione del contribuente napoletano, soggetto ad imposte minime, in confronto al contribuente piemontese-sardo, costretto dal conte di Cavour a pagare imposte alte, ed a gemere sotto il peso di un enorme debito pubblico! Replicava Antonio Scialoja, reduce dalle galere napoletane ed emigrato in Piemonte: sì, le imposte sono alte in Piemonte e basse nel napoletano; sì, il debito pubblico scema a Napoli e cresce a Torino. Ma nel Regno delle Due Sicilie non si costruiscono strade e ferrovie, l’agricoltura è arretrata, le banche sono antiquate, non esiste industria. Invece nel Regno Sardo si forgiano le armi materiali e spirituali per la rivincita sulle sconfitte del 1848, pulsa una libera vita, si gittano strade ferrate in tutte le direzioni, si ampliano porti, si trafora il Moncenisio, si aprono le frontiere alla concorrenza estera, sorgono fabbriche, si armano navi per importare concimi naturali dal Perù, si fondano banche a Torino, a Genova, a Chambery.
Le imposte alte sono sopportate assai più facilmente in Piemonte di quelle che non siano quelle tenui nel Napoletano. Ogni volta che si rinnovano le querele contro le imposte alte, si ricordi la polemica tra Antonio Scialoja ed Agostino Magliani. Questi, divenuto ministro delle finanze del Regno d’Italia, non arretrò poi dinnanzi a grosse spese pubbliche e fu l’introduttore in Italia di quella parte del bilancio che allora fu detto del movimento dei capitali e che oggi si sbandiera in taluni paesi del mondo come una grossa novità col nome di bilancio pluriennale.
Già Magliani aveva visto che molte spese di carattere permanente o di investimento non possono essere coperte con imposte, ma possono ragionevolmente essere coperte con prestiti. Oggi come allora, il problema è di limiti e Magliani, esaltatore della politica stretta borbonica nel 1850, nel 1880 poté essere imputato di esagerazione nella proposta di spese riproduttive, eccitatrici. Il principio è: non temere le imposte alte, non temere l’incremento del debito pubblico, quando il provento sia impiegato bene, in opere feconde, bene concepite e bene eseguite. Temiamo invece la rovina, quando si spenda male, per far colpo, per dar lavoro comunque, per condurre guerre non volute. Le imposte, in secondo luogo, basse od alte, sono dannose quando deprimono la produzione del reddito.
Nove decimi, per numero, delle imposte esistenti in Italia meritano questa taccia. Ricordiamo qui, un altro esempio classico: la riforma doganale di Roberto Peel in Inghilterra nel 1842. Capo del partito conservatore, Sir Robert Peel, decise di strappar di mano ai cartisti (i rivoluzionari di allora) ed ai liberali di Cobden la bandiera dell’abolizione dei dazi sui cereali, che crescevano il prezzo del pane. Fu un colpo d’audacia: quasi d’un tratto 1200 dazi furono cancellati dalle tariffe doganali, sopravvivendone appena una dozzina, su generi di gran consumo, ma non voluttuari, tabacco, spiriti, vino, tè, caffè, coloniali diversi. Peel dichiarò alla Camera dei Comuni esterrefatta: fra qualche anno i 12 dazi sopravvissuti gitteranno di più dei 1200 aboliti. L’economia, divenuta franca di vincoli, respirò e si espanse; i commerci rifiorirono, i salari reali crebbero; il tesoro, dopo 7 od 8 anni, incassò più di prima.
Se in Italia si osassero abolire quasi tutti di dazi doganali e le imposte sui consumi, lasciando sussistere solo i dazi e le imposte veramente redditizie, che sono quelle sul tabacco, sul vino, sugli spiriti, sul caffè, sul tè e pochi altri generi non necessari alla sanità della vita fisica, il risultato non sarebbe diverso.
Se poi si osasse cancellare del tutto quell’imbrogliato ed opprimente abracadabra di tasse e tributi e che prendono il nome di tasse sugli affari, tasse di registro e bollo, tasse sullo scambio, sedicentemente dette sull’entrata, i risultati sarebbero ancora più vantaggiosi. Le tasse sugli affari sono, nella loro intima essenza, tasse costituite per non lasciar fare affari, ossia per uccidere in genere le iniziative, per ridurre le compravendite di case, terreni, di merci, le concessioni di credito ipotecario.
Esse hanno per risultato di non far fare contratti, ossia di far rimanere le cose, mobili ed immobili in mano di chi le possiede e non è capace a servirsene ed impedirne il passaggio nelle mani di chi le saprebbe utilizzare e le utilizzerebbe meglio. Producono uno a favore del tesoro e distruggono in germe la produzione di dieci.
Si oserà distruggere tutto questo edificio di ostacoli al lavoro, all’iniziativa, all’ingrossamento della produzione? Si potrà osare? Fa d’uopo certamente non svalutare le difficoltà dell’impresa ed evitare di dare consigli alla leggera a coloro i quali hanno la grave responsabilità della azione.
Noi che abbiamo la responsabilità dello scrivere, dobbiamo renderci conto che l’azione è subordinata alle esigenze del momento, alle circostanze, alle ferree necessità del tesoro. Quando lo Stato ha bisogno di denaro, fa fuoco di ogni legna, anche se la legna è bagnata e dà gran fumo e poco calore.
Quello che si può e si deve dire è che bisogna aver l’occhio alla meta e non crescere il disordine attuale, moltiplicando, come si fece tra il 1914 ed il 1922 e di nuovo tra il 1935 ed il 1943, le tasse e le tassette, sperequate sovrapposte demagogiche improduttive asfissianti. La prima regola da osservare, se si vuole accrescere il gettito delle imposte, è il sottoporre ad una cura prolungata di docce fredde in una casa di salute chiunque proponga un’imposta nuova. Istituire un’imposta nuova vuol dire scemare il gettito complessivo delle imposte. Coloro che credono di aver trovato qualche nuovo cespite tributario appartengono spesso, ingenuamente, alla stessa razza degli inventori del moto perpetuo. Non esistono nuovi cespiti, non esistono nuove imposte. In questa materia tutto è vecchio, tutto è stato provato e riprovato. I sistemi tributari passati sono un cimitero di tutte le imposte immaginabili e possibili. Chi offre al pubblico una novità, si illude od illude.
La sola cosa seria che si può fare, per aumentare le entrate dello Stato, è di ridurre di numero le imposte, e nel tempo stesso sfrondare, riformare, perfezionare quelle sopravvissute. Nelle grandi linee, il sistema tributario italiano delle imposte sui redditi e sui patrimoni, quale fu costruito fra il 1860 ed il 1863 era tra i migliori del mondo e, sotto certi aspetti, poteva e può essere ancora proposto all’imitazione altrui. Bisogna, semplificando, riportarlo alle origini e, perfezionandolo, tener conto delle esigenze moderne.
Le condizioni alle quali le necessarie riforme debbono soddisfare sono due: abolire tutto ciò che impedisce e limita la produzione ed accentuare le norme che servono all’abbassamento delle punte dei redditi più alti. Le due condizioni sono in parte contrastanti, non potendosi negare che, col tagliare, come faceva Tarquinio il superbo, gli alti papaveri, noi togliamo lo stimolo a produrre i redditi alti e scemiamo la produzione della ricchezza.
Bisogna perciò, nell’abbassare i superbi, non giungere sino alla decapitazione totale, ma lasciare sempre un piccolo spiraglio attraverso a cui chi ha l’ala possa spingersi verso l’alto.
Se noi supponiamo che si possa usare la soppressione del 99 per cento, in numero, dei dazi e la soppressione totale delle imposte di registro e bollo (cosidette tasse sugli affari e sullo scambio) rimangono in piedi alcune grandi imposte sui consumi: tabacchi, spiriti, vino, caffè, tè, taluni prodotti coloniali; e rimangono le imposte sui redditi e sui patrimoni. Su queste due grandi branche: consumi a larga base e perciò produttivi, esclusi tutti quelli necessari alla vita fisicamente sana, e reddito-patrimonio poggia la finanza degli Stati moderni.
Non vi è nulla da innovare nella tecnica della esazione delle poche grandi imposte sui consumi, che è in Italia progredita alla pari di ogni altro paese. Vi è invece parecchio da fare rispetto all’accertamento delle imposte sul reddito-patrimonio. Innanzitutto il problema morale.
Alla base della tecnica d’accertamento sta in Italia l’istituto del «concordato» fra contribuente e procuratore alle imposte. Questi chiede 5 ed il contribuente offre 1; e quindi, via via, come si fa nel mercato dei robivecchi, i due contendenti si avvicinano, guatandosi e sorvegliandosi, sinché cadono d’accordo e finalmente «concordano» a tre. Che cosa sia il tre, nessuno lo sa.
Non è, per fermo, dappertutto così. Vaste zone di reddito: dei terreni, di industria e commercio, delle società anonime assoggettate all’obbligo di bilancio – sono sottratte a contrattazioni, perché i redditi sono noti da documenti certi o dotati di grande verosimiglianza: ma le zone concordatarie sono ancora siffattamente larghe da inquinare il sistema.
Occorre, con mezzi varii, giungere in tutto il paese ad instaurare il rispetto alla legge che si osservava nel 1919 nelle provincie ex austriache, dove i contribuenti erano abituati a dichiarare il vero e videro con stupore ed indignazione i procuratori alle imposte venuti dal regno moltiplicare per cinque le cifre vere e dovettero, per seguire l’andazzo, rassegnarsi a dichiarare il falso e poi concordare. Instaurare il rispetto alla legge in materia tributaria non è impresa né agevole, né tale da poter essere condotta a termine con le sole minacce di carcere e multe.
Certamente, quando il contribuente non abbia più, come oggi, l’impressione di essere giudicato in camera caritatis da una commissione amministrativa, dove sono in maggioranza i rappresentanti del fisco o di autorità politiche, dove il suo avversario assiste alle decisioni, ma egli non solo non può assistere, ma neppure farsi assistere; quando egli sia tradotto, anche per le questioni di fatto, dinanzi ad un vero tribunale indipendente ed imparziale, anche se specializzato, sarà possibile e doveroso punire severamente, con multe e con il carcere, il contribuente fraudolento; e le penalità saranno fatte osservare.
Non illudiamoci però.
La pena tributaria incontra un ostacolo oggettivo che per altri reati non esiste od esiste in misura grandemente minore. Se un furto è stato commesso, se un uomo è stato ferito, si può discutere se l’imputato sia colpevole e fino a qual punto sia colpevole; ma non cade dubbio sul fatto oggettivo del furto o del ferimento.
Anche per i reati fiscali può esistere l’oggettività del fatto. Se è stato introdotto tabacco in contrabbando; se il reddito non è stato denunciato, ci troviamo dinnanzi a fatti oggettivamente accertabili e punibili.
Ma vi sono casi, probabilmente i più numerosi, in cui la misura del fatto è controversa. Un reddito fu di 10 o di 15 mila lire all’anno? L’impiegato, il pensionato, il possessore di titoli di debito pubblico sa con precisione quanto riscosse e può essere punito se non denuncia il vero. Per molti redditi, invece, non esiste la nozione del vero «vero». L’unica verità in questa materia fu enunciata da Maffeo Pantaleoni, grande teorico ed insieme finissimo descrittore della realtà, quando osservò che i redditi «veri» sono tanti quanti sono i fini per cui si forma un bilancio a fine anno di un’impresa.
Che cosa si scriverà come valore delle scorte di magazzino? che cosa come quota di deperimento? che cosa per i rischi di insolvenza dei debitori? Infinite domande sorgono, le quali comportano risposte diversissime e tutte razionali. Altro è quel che si deve scrivere nel bilancio di un’impresa in liquidazione da quel che si deve scrivere per un’impresa ai suoi inizi o già avviata o progressiva. Quid est veritas? chiedeva Pilato; e si chieggono ogni giorno contribuenti e procuratori alle imposte.
Colui il quale immagina esistere una sola risposta alla domanda, dimostra di non avere mai, neppure un istante, meditato sul problema spaventevolmente complicato.
Per conto mio sono giunto alla conclusione che una sola via ragionevole esista per uscire dall’imbroglio: ed è, che ogni qualvolta non esista un reddito definito contrattualmente in cifra fissa (interessi di debiti pubblici o privati, stipendi, salari, canoni) o risultante da bilanci sicuri (dividendi ecc.), sia d’uopo rinunciare alla ricerca dell’araba fenice, dall’ubbia del reddito «vero», del valore «vero». Lo stato deve scegliere fra i tanti redditi «veri», il «suo» reddito, quello che è conforme alle sue esigenze.
Alcuni grandi italiani del gran secolo dei lumi, scopersero in Lombardia quale era il reddito «vero» per lo stato e si chiamavano Pompeo Neri, Gian Rinaldo Carli, Pietro Verri; ed un altro grande italiano Carlo Cattaneo se ne fece, durante il risorgimento, l’apostolo dinnanzi all’Europa. Dissero costoro: è vano ed è dannoso chiedere al contribuente quel che egli di fatto, in ogni anno ha guadagnato. Vano perché chiediamo a lui di dichiararci l’incerto, il dubbio, il contingente, l’effimero. Dannoso, perché lo sottoponiamo a persecuzione continua, lo scoraggiamo dal fare di più, dal tentare nuove vie, per la consapevolezza in cui lo mettiamo che, non appena egli sia riuscito, subito cadrà su di lui la mano rapace del fisco.
Quel che lo stato deve chiedere, e non ha nella più parte dei casi neppur bisogno di chiedere, perché la cifra può essere determinata da periti, è: quale è il reddito normale, ordinario che il contribuente medio, il buon padre di famiglia ottiene, deve e può ottenere se egli gerisce la cosa sua nel modo conforme alle buone consuetudini dell’industria, del commercio, dell’attività agricola? Non il reddito basso dell’incapace, dell’avventuroso, dell’imprudente e neppure il reddito alto dell’uomo eccezionale, di quello che fatica giorno e notte, di colui che inventa nuovi sistemi, ma quello medio di chi non è né eccezionalmente poltrone e stupido né eccezionalmente intraprendente e geniale. Lo stato non fornisce forse i servizi pubblici a tutti nella stessa misura, sia che essi riescano bene o male o mediocremente? Perché lo stato non dovrebbe farsi pagare i suoi servizi dall’industriale, dal commerciante, dall’agricoltore che perde invece di guadagnare? Forseché gli operai rinunciano al loro salario, gli impiegati al loro stipendio, i fornitori al pagamento delle merci fornite se l’industriale fa male i suoi affari? Per quale ragione misteriosa dovrebbe lo stato rinunciare a farsi pagare, con le imposte, i servigi sacrosantemente resi da lui a tutti i contribuenti e quindi anche al contribuente il quale non sa utilizzare i fattori di produzione e, fra gli altri, i servizi resigli dallo stato?
Questo principio fu applicato in Lombardia all’imposta sui terreni nel 1760, e bisogna leggere nelle pagine di Gian Rinaldo Carli e di Carlo Cattaneo quali siano stati gli effetti miracolosi della riforma. Laddove gli spagnoli vessavano il reddito appena nato o quasi ancor non nato ed avevano ridotto la Lombardia alla improduttività, i riformatori dissero agli uomini della terra: voi pagherete imposta su quel cento, ad esempio, che la terra ragionevolmente vi deve rendere. Peggio per voi se voi la fate rendere meno di quel cento; pagherete come se aveste guadagnato cento. Meglio per voi se la farete rendere contoventi: pagherete solo su cento e il dippiù sarà franco di imposta. Multa ai pigri, agli incapaci, agli assenteisti, premio ai volonterosi, agli intraprendenti, agli innovatori. La terra, sotto la pressione della multa e per l’attrattiva del premio passa dagli assenteisti ai veri coltivatori, dagli incapaci e dai pigri agli intelligenti ed agli innovatori.
Sembra che lo stato perda qualcosa sul reddito dei migliori; e non è. Sa la pazienza dell’attendere. Fra dieci, fra quindici anni, quando si farà la nuova stima del reddito normale, la terra sarà passata dal possesso degli incapaci a quello dei capaci. Gli incapaci ed i pigri, per non pagar multa, si saranno fatti diligenti. Il reddito medio normale ordinario non sarà più di cento, ma di centoventi e lo stato applicherà l’imposta sul nuovo reddito normale di centoventi. Avrebbe potuto far ciò se non avesse avuto la pazienza di aspettare un decennio o forse due, che sono attimi nella storia di un popolo?
Poiché il principio lombardo del 1760 vige ancora oggi in tutta Italia e fu esteso in parte agli altri redditi agrari (l’imparzialità vuole si ascriva il merito dell’estensione, che proposi nel 1925, al ministro Thaon di Revel ed al presidente della commissione censuaria centrale Serpieri) importa estenderlo ad ogni altro campo, dove la sua applicazione sia possibile. Perché non si riconosce il fatto e, rinunciando alla litigiosa e stolta ubbia del reddito «vero», non si estende al campo più vasto possibile il principio fecondo del reddito «normale»?