La grande inchiesta sul Mezzogiorno. Diboscamenti, malaria ed emigrazione
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/10/1910
La grande inchiesta sul Mezzogiorno. Diboscamenti, malaria ed emigrazione
«Corriere della Sera», 22 ottobre 1910[1], 2 ottobre 1910[2]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 131-144
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Dodici volumi in -4° grande di seimila pagine: ecco il frutto, saporoso ed abbondante, di quell’«inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia», che fu votata alcuni anni or sono dal parlamento e che sta per essere condotta a termine, dopo lunghe e pazienti ed appassionate fatiche. Il Corriere, il quale contribuì tanto a risvegliare l’interesse degli italiani sul problema del mezzogiorno con la memorabile indagine promossa tra i maggiori scrittori politici nostri nel 1905, non può non rallegrarsi che al problema meridionale, il maggiore, forse l’unico problema veramente grande dell’Italia contemporanea, sia stata consacrata una somma di studi così minuti, precisi, tormentosamente analitici ed acutamente analizzatori. Poiché questa imponente biblioteca di scritti sul problema dei contadini nel mezzogiorno, a cui vegliò con amore grandissimo Francesco Coletti, segretario generale della giunta parlamentare, ed a cui mancano soltanto alcune relazioni delle sottogiunte parlamentari e la relazione finale del presidente senatore Faina, è un vero monumento. Non tutte le monografie dei delegati tecnici (come si sa, l’inchiesta procedette in due stadi: prima i delegati tecnici prepararono il terreno e scrissero monografie oggettive, di fatti, sulla regione a loro affidata; e dopo vennero le sottogiunte di uomini parlamentari ad indagare, interrogare e concludere con una relazione di giudizi e di proposte) hanno la stessa impronta: dove i delegati tecnici erano prevalentemente agronomi, come per la Basilicata (prof. Azimonti), per la Campania (prof. Bordiga) e per le Calabrie (prof. Marenghi), si ebbero preziosissime esaurienti monografie che investono tutti i lati agronomici del problema e studiano il contadino nelle sue condizioni di vita, con finezza e precisione di particolari economici, in rapporto sempre alla terra ed all’azienda rurale. Dove, come per le Puglie (prof. Presutti), il delegato è un giurista ed un sociologo, l’indagine assume un fare più ampio, ha riferimenti al passato e traccia l’evoluzione degli istituti agrari e delle forme di vita agricola. Dove, come per gli Abruzzi e Molise il delegato è un economista (dott. Jarach), lo studio diventa un quadro penetrante, conciso e serrato della struttura economico agraria di una regione, colta nei suoi essenziali particolari e nelle forze essenziali che stanno modificandola profondamente. Dove infine il delegato è un po’ di tutte queste cose insieme, un innamorato della terra ed un economista di tempra storica e filosofica, come accade per la Sicilia, allora invece di una monografia abbiamo un libro in cui la terra e l’uomo sono dipinti da maestro ed è descritta la solenne rivoluzione che oggi va compiendosi nei rapporti fra le classi sociali che su quella terra e per quella terra vivono e combattono. O meglio, avremmo un libro, se il prof. Lorenzoni, che è l’autore della monografia, volesse sfrondare le sue 1600 pagine di tutto ciò che è documentazione, prova statistica e darci il libro, mondo della scoria documentaria, il libro che egli ha pensato ed ha scritto, ma che oggi i lettori debbono faticosamente cercare attraverso le enormi pagine dei suoi due in quarto.
Poiché questo è il difetto maggiore della mirabile impresa: che le 6000 pagine – le quali diventeranno certamente 7000 prima che si sia giunti al termine – sono inaccessibili ed illeggibili, non dico al pubblico in generale ma a quella ristretta cerchia di studiosi, di giornalisti e di uomini politici che avrebbe il dovere di illuminare se stessa e di illuminare l’opinione pubblica su questo, che, come dissi, è il massimo problema dell’Italia presente. Le molte migliaia di pagine, anche se sintetizzate da una relazione generale, saranno mai sempre una barriera insuperabile che farà fuggire con terrore i più volonterosi; mentre due volumi, di giusta mole, avvivati dalla riproduzione di molte delle belle fotografie che adornano le pagine dell’inchiesta – novità stupenda in documenti gravemente ufficiali – e resi attraenti dall’arte dello scrittore, l’uno sull’antico reame di Napoli e l’altro sulla Sicilia, gioverebbero grandemente alla cultura del paese ed alla conoscenza del mezzogiorno. Perché un qualche editore italiano non fa compiere questo lavoro di sintesi? Sarebbe opera patriottica, né potrebbe mancare il favore del pubblico.
Frattanto, il volume più letto dell’inchiesta sarà la relazione che l’on. Nitti ha scritto a nome della sottogiunta parlamentare per la Basilicata e le Calabrie. Non che le altre due relazioni finora pubblicate dalle sottogiunte, siano prive di pregi, e massimamente del pregio della brevità, che era necessarissimo in un lavoro che doveva essere di sintesi delle monografie dei delegati tecnici e degli interrogatori orali e di proposte conclusive. Che anzi la relazione del marchese Cappelli per gli Abruzzi e Molise, scritta sobriamente da un agricoltore che il mezzogiorno conosce a fondo, tocca con efficacia i punti essenziali e fa proposte temperate e quasi sempre opportune: mentre la relazione dell’on. gen. Luchino Dal Verme sulla Campania insiste, fondandosi sulle resultanze a cui era giunto il delegato tecnico, su talune riforme legislative e tecniche che a lui, settentrionale e tecnico, parvero più degne di raccomandazione. Il rapporto di Nitti si discosta dal metodo tenuto dai suoi colleghi. Come è noto, l’on. Nitti è un «selvaggio», né è capace di muoversi sulla falsariga consueta. Egli volle quindi rifare, almeno in parte, il lavoro che per la Basilicata e le Calabrie era già stato fatto dai delegati tecnici Azimonti e Marenghi; e scrisse così, oltre un enorme volume di appendici, un libro che percorre nuovamente tutta la materia dell’inchiesta e tratta il problema in tutti i suoi vari aspetti. In apparenza il rapporto del Nitti si intitola alla Basilicata ed alla Calabria; in realtà abbraccia tutto il problema del mezzogiorno, veduto come lo vide Francesco Nitti, uomo di ingegno grandissimo, ma a volta a volta unilaterale, scrittore efficace e suggestivo, il quale raggiunge efficacia e forza di suggestione con la tenacia e la violenza nella ripetizione di una idea fissa. A Nitti non bisogna chiedere l’ordine sistematico nella trattazione, la compiutezza dottrinale nelle dimostrazioni statistiche e storiche, la finitezza dello scrittore che vuol convincere schierando in bell’ordine tutti i suoi argomenti e debellando ad uno ad uno tutti gli argomenti avversari. Egli è di un’altra razza di scrittori: afferra il lettore con la ripetizione insistente, attraverso a dimostrazioni svariate, a narrazioni vive di colloqui, a quadretti di paesi e di persone, di alcune poche fondamentali idee. Ma tante volte le ripete e tanto vi insiste su che quelle idee e quelle parole rimangono fisse nella mente del lettore e questi, giunto alla fine, non può più scindere il problema del mezzogiorno dalla forma che Nitti gli ha dato e dalle parole con cui Nitti lo volle spiegare. Quelle parole sono tre: diboscamento, malaria, emigrazione; e tante volte sono ripetute quelle parole e dimostrati quei concetti che davvero è impossibile resistere alla convinzione che diboscamento e malaria siano state le due massime cagioni di male nell’antico reame di Napoli e l’emigrazione sia stata e sia per essere ancor più il magico strumento di redenzione di quelle terre. In fondo quei concetti furono espressi anche da altri; ma se, a cagion d’esempio, si trovano esposti anche dal Lorenzoni e dallo Jarach con larghezza di dati, sovratutto per ciò che si riferisce agli effetti dell’emigrazione, quei concetti sono però da essi chiariti con quelle riserve e con quegli accenni all’azione contemporanea di altri fattori che son connaturati allo scienziato, il quale vuol dare un’idea della complessità grande del problema. Il Nitti non si ferma invece ai fattori secondari; e poiché, a parer suo, diboscamento, malaria ed emigrazione sono i fattori primi e dominanti del problema, a quelli si ferma, disdegnando gli altri. Dal che appare che in lui dominano le qualità dell’uomo d’azione; e poiché egli in sostanza vede giusto, a lui dobbiamo far plauso, perché ci insegna le grandi vie dell’azione, impedendoci di perderci nei viottoli oscuri che conducono al nulla.
Abbondano le prove che diboscamento e malaria sono le cause – non importa vedere se cause prime o derivate, poiché oggi agiscono come cause di per sé attive – del male nel mezzogiorno. «Dunque – racconta Nitti – proprietari e contadini ci hanno detto che la rovina dei boschi è stata la loro rovina». Non una voce discorde. I contadini sono stati nel passato, sono oggi ancora i veri nemici dell’albero. La illusione di seminare terre nuove ha spinto alla distruzione. Ma ora, dinanzi alla terra isterilita e denudata, è il rimpianto dell’albero, in tutte le voci ed in tutte le anime. Un proprietario coltivatore di Melfi, fra gli altri, deponeva così: «Gli sboscamenti ci hanno rovinato. Non ci sono più stagioni. Non possiamo prevedere niente. Quando io ero ragazzo quasi non sapevo la grandine ed adesso la so troppo. Quando comincia a piovere, bisogna pregare Dio perché finisca: quando comincia la siccità, non finisce mai. Hanno tagliato i boschi e questo ci ha rovinati!». Un contadino di San Giovanni in Fiore, lamentandosi della difficoltà grande di far legna per riscaldarsi, diceva: «D’inverno non abbiamo legna e stiamo come la zacarogna [piccolo uccello, che sta chiuso, come il gufo] con tosse, fumo negli occhi e i piedi all’umido». Per mancanza di boschi che mantengano l’umidità ed i corsi d’acqua, scompaiono i pascoli; e con essi vien meno l’industria armentizia. Si potrebbero riportare a centinaia le deposizioni in questo senso: «Nella terra in cui oggi tengo 300 capi minuti, nella mia giovinezza ne tenevo fino a 1500. Ciò produceva miglior concimazione e miglior prodotto, per cui la resa di 30 tomoli di oggi, era allora di 150 tomoli». Così diceva un vecchio proprietario di Lagonegro. I diboscamenti consumati su vastissima scala, lungo le pendici dei monti e degli altipiani, conferiscono alle acque piovane un impeto e un disordine che son causa di grave e ricorrente ruina. Sospinte dalle rapide pendenze e dai dislivelli del suolo ad una furiosa discesa alle pianure, senza l’ostacolo di una fitta coltura boschiva, le acque esercitano una incessante azione corrosiva sugli strati superficiali dei terreni attraversati e scalzano le falde montane, trascinando al mare il miglior terreno superficiale atto alle culture e producendo i danni delle frane. Da un calcolo del fango trasportato al mare dal solo fiume Basento (che pur non è il maggiore della Basilicata) risulta che esso è di circa 430 mila metri cubi, i quali, stesi sul terreno, potrebbero rialzare ogni anno di circa 1 metro 43 ettari di campagna palustre. Così i fiumi vanno biondi di humus al mare, mentre sulle alture appaiono le rocce denudate, e lungo tutto il percorso avvengono dilavamenti, smottamenti e frane. Percorrendo la Basilicata si vedono spettacoli orribili di desolazione, prodotti dal disordine delle acque. Anche le più fertili terre sono ogni giorno rovinate. Le terre in pendio, che costituiscono la maggior distesa di superficie coltivabile, diminuiscono gradatamente di fertilità, e si distruggono i seminati e i redditi agricoli. Molti comuni di Calabria e moltissimi di Basilicata pare che viaggino per opera dei torrenti e delle frane: ve ne sono alcuni che si spostano da un anno all’altro. Nelle pianure e nelle vallate sottostanti alle pendici, straripano i torrenti ed i fiumi, danneggiando strade, rovinando ponti e culture, ristagnando in pantani e paludi che diventano centro di infezione malarica. L’acqua abbonda dove è nociva e produce il male, mentre le terre circostanti soffrono l’arsura del sole e difetta spesso persino l’acqua da bere.
Non intende nulla della storia e del problema del mezzogiorno – ha scritto Giustino Fortunato – chi prescinde, anche solo in parte, da quella vera maledizione che è, per l’Italia meridionale, la malaria. Passa il terremoto, passa la peste – dice il contadino del mezzogiorno – ma la malaria non passa.
Traversando quelle che sembrano le terre del sole, si trovano, spesso in piena estate, nel caldo autunno, uomini febbricitanti, coperti come in crudo inverno di panni pesanti, spesso tremanti di freddo quando dardeggia il sole. I bambini delle zone più profondamente malariche vengono su terrei, in generale piccoli, con ritardi nella dentizione, nella deambulazione. Spesso abbiamo visto frotte di bambini col volto scarno e le rughe precoci, l’addome troppo grosso, il torace troppo piccolo. Alcuni, anche giovinetti, hanno gli arti inferiori troppo sottili, così che spesso i contadini dei siti di malaria sono derisi con nomi che li parificano ai rospi ed ai ranocchi.
Se si aggiunga che in questo paese, in cui i diboscamenti distruggevano la terra e il disordine delle acque inquinava l’aria, i legami familiari sono saldissimi, i matrimoni precoci, le unioni feconde, noi avremo descritte per sommi capi le cause per cui una popolazione contadina esuberante doveva piegarsi a salari di fame ed a condizioni di vita miserande e sopra di essa poté elevarsi un ceto di proprietari oziosi, padroni assoluti delle amministrazioni locali, divisi in clan familiari, dilaniantisi a vicenda rabbiosamente. Se si aggiunga ancora l’azione corruttrice del governo centrale, l’analfabetismo, la mancanza di strade, il concentramento delle genti nei borghi e lo spopolamento delle campagne, abbiamo il quadro del mezzogiorno, povero, calvo di alberi, dilavato dai torrenti, fazioso, come è concepito dal settentrionale medio, quando pensa ai suoi fratelli del sud. Per fortuna chi dipingesse così il quadro del mezzogiorno darebbe oggi un’idea falsa della realtà. Da alcuni anni nel mezzogiorno va silenziosamente compiendosi una grandiosa rivoluzione sociale, ad opera di una spontanea forza: l’emigrazione.
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Dunque, il mezzogiorno povero ed isterilito dal diboscamento e dalla malaria risorge, e risorge pure nelle sue regioni più desolate come la Basilicata e la Calabria. Tutti i commissari, che hanno compiuto l’inchiesta sui contadini del mezzogiorno, annunciano la lieta novella. L’on. Cappelli, viaggiando coi colleghi della sottogiunta attraverso gli Abruzzi e il Molise, ad un punto disse il sentimento che tutti provarono, ripetendo, in un impeto di gioia, la biblica frase: «videro gli occhi miei il principio della redenzione del popolo mio». Il popolo del mezzogiorno si redime dalla servitù della miseria e dell’ignoranza. Ma non per opera del governo, delle leggi fabbricate dai parlamentari e per virtù fattiva delle classi dirigenti. Si redime e si innalza per virtù propria. Come ha scritto Lorenzoni, «son della terra faticosa i figli» che l’aiutano alle ideali cime; sono gli oscuri contadini, che, emigrando, conquistano alla patria i mezzi di rifarsi. Una grandiosa rivoluzione accade invero nel mezzogiorno ad opera della emigrazione verso la Tunisia, l’Argentina, sovratutto verso gli Stati uniti: rivoluzione economica, sociale, politica ed intellettuale. Il libro con cui l’on. Nitti ha contribuito all’inchiesta è tutto un inno a questa forza potente che sta trasformando il mezzogiorno. Bisognerebbe dilungarsi per colonne e colonne per far balzare netta l’idea della rivoluzione verificatasi nelle cose e nelle anime da quando l’umile gente lavoratrice cominciò ad abbandonare la patria, dove la terra si isteriliva, dove il sole bruciava, dove i signorotti tiranneggiavano i poveri con patti angarici e dove imperava la febbre d’aria. Citerò alcune deposizioni più caratteristiche.
Nessun giudizio dell’emigrazione si udì dai contadini che non fosse di entusiasmo e quasi di reverenza. A Taverna un contadino diceva: «Da qui partono per l’America giornalmente. Dovrebbero portare il ritratto di Cristoforo Colombo come Gesù Cristo. Prima dell’emigrazione la mercede era di 1 lira, adesso di 1,50 e di 2 lire e spesso non si trovano contadini disponibili». Un contadino di Monteleone, dopo aver descritto come si viveva male prima dell’emigrazione, esclamava: «Gli americani hanno portato il paradiso». Ormai si direbbe che nelle classi umili si nasce con l’idea di andare in America. Interrogando qualche fanciullo su quel che si proponesse di fare, la commissione si è sentito rispondere: «Quando sarò grande me ne andrò in America».
È una fiumana, a cui nulla resiste. Ma è una fiumana generosa, che lascia dietro a sé un limo fecondo. I contadini rimasti, trovandosi in pochi, hanno rialzato la testa. Nel medio evo erano le grandi pesti che, diradando gli uomini, aumentavano il valore dei sopravvissuti e costringevano i signori a far loro condizioni migliori di vita. Così accade ora nel mezzogiorno in conseguenza dell’emigrazione. Non sono cresciuti soltanto i salari, spesso più che raddoppiati; sono mutati i rapporti antichi di umiltà, di servilismo dei contadini verso le classi alte. «Sopra il ciuccio un poco per uno», diceva il contadino della Basilicata, un poco i signori ed un poco i contadini. Adesso sono i contadini che vanno comodamente sopra l’asino, mentre il proprietario spesso va in rovina.
Gli antichi proprietari, sovratutto quelli medi e piccoli, che vivevano con poche migliaia di lire di rendita e si occupavano della politica locale, adesso, per il rialzo dei salari, hanno visto le rendite diminuire, mentre i prezzi dei beni di consumo e le esigenze della vita crescevano. Costoro, in schiere sempre più numerose, incapaci di far fronte all’avversità, salvo i grandi proprietari, che possono contentarsi di redditi minori o hanno l’ardimento di trasformare industrialmente l’azienda, si arrendono e vendono la terra. Per fortuna loro, la vendono bene; perché mentre la tendenza dei fitti delle terre è verso la diminuzione, i prezzi di vendita tendono a crescere. Gli alti salari spiegano il ribasso dei fitti; mentre il ritorno degli emigrati (i cosidetti americani), vogliosissimi di comperar terra, spiega il rialzo dei prezzi di vendita. Per ora sono i fondi piccoli e medi vicini ai borghi abitati, che sono messi sul mercato; ma verrà col tempo la volta dei fondi più lontani e più grossi a mano a mano che la colonizzazione progredirà. Quel passaggio della proprietà fondiaria dai signori ai coltivatori che da secoli prosegue in Piemonte per l’agire indisturbato di forze naturali, che fu opera, almeno in parte, in Francia della grande rivoluzione, quel passaggio si è iniziato nel mezzogiorno ad opera della emigrazione. Il segretario della lega dei contadini di Paola diceva: «Per effetto dell’emigrazione si va creando la piccola proprietà coltivatrice: i contadini che tornano dall’America e portano 5.000, 10.000, fino a 20.000 lire, comprano, in generale, terra e la coltivano direttamente. Ora le loro terre sono meglio coltivate di quelle dei proprietari e danno proporzionalmente un reddito più che doppio». Un proprietario di Paola, ex deputato ed esperto e sereno conoscitore dei rapporti locali: «L’emigrazione ha giovato al paese: senza di essa noi saremmo rovinati. Se le terre si possono vendere e bene, si deve solo all’emigrazione. Ordinariamente i contadini comprano piccoli fondi che migliorano notevolmente. Qualche volta si riuniscono ed acquistano anche grandi proprietà, che poi si frazionano. Qui l’interesse del denaro prima era enorme, fino al 36%; ma ora i contadini trovano facilmente il denaro a mite interesse e spesso anche gratuitamente… Prima dell’emigrazione i contadini erano veri schiavi; ora sono ben diversi e le condizioni ed i patti angarici tendono a modificarsi». Un contadino di Amantea: «Se non fossi vecchio andrei anch’io in America; i giovani che vanno tornano galantuomini [borghesi, signori] e si comprano le terre dei proprietari».
Talvolta l’emigrazione, mentre eleva i contadini, salva pure dalla rovina le classi alte, che erano indebitate e possono rifarsi, vendendo una parte dei loro terreni e coltivando più intensivamente il resto. Accennando a questo fenomeno, così diceva il consigliere provinciale di Amantea: «Quando i contadini comprano la terra, in generale coltivano meglio e più intensamente: delle nude rocce sono ridotte a veri giardini… L’emigrazione ha avuto per effetto non solo di aumentare il valore della terra, ma anche di spingere i proprietari a migliorare i loro sistemi di cultura. Moltissimi proprietari sarebbero andati in rovina. Ora han potuto, vendendo una parte della terra, soddisfare i debiti, e coltivare più proficuamente la terra loro rimasta. Prima, la mia famiglia aveva dei terreni incolti; ma ora, pei mutati sistemi di cultura, ha trovato tornaconto a coltivarli». Coloro che invocano a grandi grida il credito di stato, le casse di prestanza agraria e altre simiglianti inutili e spesso perniciose cose, riflettano a quello che accade nel mezzogiorno, dove pure l’usura infieriva e per cui si era sentito persino il bisogno di scrivere nelle leggi l’obbligo per il proprietario di anticipare sussistenze e scorte al contadino. Nei paesi di antica emigrazione, dove gli americani sono già di ritorno, l’usura sta scomparendo da sé. A Rionero in Vulture, dove si ebbe a deplorare uno dei più grossi fallimenti di banche popolari (ecco gli effetti del credito artificiosamente importato), un agronomo esperto diceva alla commissione: «L’usura agraria è oramai scomparsa per effetto dei capitali degli emigranti. Il denaro non manca per i coltivatori che hanno l’abitudine di restituire». Onde a ragione Nitti mordacemente conclude che coloro che più chiedono il credito allo stato sono spesso anche coloro che non hanno l’abitudine di restituire.
Mutano siffattamente i rapporti fra le classi sociali che, se oggi si volesse, con gli stessi criteri di alcuni anni or sono, fare una legge sul credito in molti paesi si dovrebbe disciplinare il prestito dei contadini ai proprietari. Diceva il sindaco di Tiriolo: «Spesso gli emigrati, che ritornano, prestano ai proprietari ad alto interesse, che qualche volta giunge al 15 per cento. La ragione di sì alto interesse è sovratutto nel fatto che i proprietari, nelle condizioni in cui si trovano, non offrono garanzia sicura».
Mutano anche le condizioni edilizie ed igieniche delle grosse agglomerazioni umane. Prima dell’America, delle case dei contadini poteva ripetersi, salvo che il tetto era stato coperto di tegole, la descrizione che il Galanti ne aveva fatta nel 1782:
Le case del contadino, in quasi tutte le terre baronali, non sono che miserabili tuguri, per lo più coperti di legno o di paglia ed esposti a tutte le intemperie delle stagioni. L’interno non offre ai vostri sguardi che oscurità, puzzo, sozzure e squallore. Un letto tapino, insieme col porco e coll’asino, formano per lo più tutta la fortuna di lui. I più agiati sono quelli che hanno il tugurio diviso dal porco e dall’asino, per mezzo di un graticcio, impiastricciato di fango.
Nei paesi dove non ha ancora agito l’emigrazione, le condizioni non sono tuttora cambiate. Orridissimo a vedersi il Sasso di Matera, dove scavate nel masso sono parecchie centinaia di case, di uno, due, tre vani. Queste case sovrapposte spesso le une alle altre come in un imbuto, ricevono aria e luce soltanto dalla porta. Le pareti in generale umidissime, nella più parte non hanno alcun rivestimento: veri covi trogloditici, devono forse rassomigliare ad abitazioni selvagge di antichi progenitori, di epoca anteriore alla nostra civiltà. Se l’aria non penetra dalla porta ed è quindi scarsa e poco mossa, un costume orrendo viene ad aggravare questa situazione per se stessa senza confronti. Data la scarsezza di concimi e d’altra parte la mancanza di ogni fogna, si vuole utilizzare dagli abitatori di quegli orridi antri tutte le deiezioni, anche le umane. Allora nello stesso covo, per lo più dietro il letto maritale, si scava un fosso, e vi si accumulano per mesi tutti gli escrementi. Tentando di entrare in qualcuno di quegli antri è difficile frenare il vomito ed il disgusto vince e forza a retrocedere. Anche qui l’impulso al rinnovamento è venuto dagli americani. I quali, appena tornati, hanno voluto fabbricarsi la loro bella casetta, linda, tutta bianca di calce o rossa di mattoni. In alcuni borghi le case degli americani stanno a sé e fanno un contrasto vivace e spiccato con le tane delle vecchie vie. Pagano spesso prezzi fantastici per il terreno, 5, 10, 20 e persino 30 lire al mq.; e spesso non sanno costruire bene la casa, sicché mancano taluni accessori igienici indispensabili. Ma il progresso è già grandissimo; e col progredire del tempo e della colonizzazione, i contadini si persuaderanno a costruire un po’ fuori dell’abitato, dove la terra è meno cara, ed a costruire meglio.
Molto male si disse dell’emigrazione quanto al lato morale: dissoluzione delle famiglie, per la lontananza del capo, immoralità delle donne rimaste sole, molte nascite illegittime. In realtà, son casi sporadici. Quasi dappertutto i legami familiari si mantengono strettissimi nel mezzogiorno; e l’onestà delle donne è assai rigida. Se il livello morale nel complesso è rimasto sano ed elevato, è nato, come cosa nuova, il bisogno dell’istruzione. Anche qui l’emigrazione ha cominciato a chiedere e a volere l’insegnamento scolastico. Il legislatore italiano ha creduto di intervenire con leggi, a diffondere l’istruzione nel mezzogiorno, partendo dall’ipotesi che le classi dirigenti non ne volessero sapere e che il popolo ne ignorasse il valore. Come al solito il legislatore è arrivato in ritardo. Dopo l’emigrazione, i contadini hanno cominciato a reclamare l’istruzione. I contadini tornati dall’America si dolgono di non saper leggere e ne mostrano i danni.
Gli americani hanno fatto in questo senso la più larga propaganda, e certo quella più creduta, contro l’analfabetismo. L’ufficiale sanitario di Tricarico diceva: «Le scuole sono frequentate a causa degli americani, che raccomandano ai figli di andare a scuola. E gli americani non si contentano delle cinque classi elementari; fanno andare i figli anche a scuole private». Un contadino di Montescaglioso, dopo aver detto, delle difficoltà trovate in America e dei suoi risparmi, aggiungeva: «Noi quando torniamo paghiamo la terra troppo cara. Non abbiamo chi ci consiglia. Io non so leggere e scrivere. Per fare qualche cosa buona ci devono istruire. Se no che facciamo?».
L’amplissima relazione di Nitti quantunque concluda ad una profonda azione dello stato in materia di rimboschimenti, di lotta antimalarica, di viabilità e di bonifiche è tutta una dimostrazione dell’inutilità irrimediabile delle leggi e della potenza mirabile delle forze spontanee. Abbiamo visto che il risorgimento del mezzogiorno si impernia tutto sull’emigrazione. Di fronte a ciò, che cosa valgono gli empiastri che i politici amano mettere innanzi? Voglio riferire un parallelo sapiente, destinato a divenire classico, che il Nitti fa tra il proprietario individualista ed il proprietario sociale. Non si potrebbe meglio dimostrare la inanità di tante miracolose provvidenze legislative:
Vi sono molti proprietari che lottano, tentano, osano; è la soluzione individualista. Vi è il proprietario, diciamo così, sociale: si occupa molto del credito, ha delle idee sull’azione dello stato, preferisce che esso monopolizzi i concimi chimici, vuole che il deputato sia agrario. I risultati dell’azione individuale si vedono; quelli della sociale si gridano. Abbiamo in tutti i nostri viaggi trovato il proprietario individualista e il proprietario, diciamo così, sociale. Il primo vive in generale sulla terra od almeno per la terra; si occupa poco dello stato e teme solo le imposte nuove. Tenta per conto suo, organizza come meglio può la produzione, non crede o non dà importanza al credito agrario e tratta, per convenienza economica, meglio che può i lavoratori. Il proprietario sociale vive poco in campagna, si occupa molto di politica, è apostolo dei benefici del credito, deplora sempre l’azione presente dello stato, attende uomini politici con nuovi orizzonti. Segni caratteristici: in generale ha debiti.
L’augurio più fecondo di bene che possa farsi al mezzogiorno è che si moltiplichi la razza dei proprietari individualisti, sia tra i reduci d’America, elevatisi col proprio sforzo perseverante, sia tra i vecchi galantuomini, sospinti dal timor della rovina ad una vita operosa. Le masse sane, lavoratrici, non mancano; difettano ancora i condottieri, ed il tempo, l’esempio altrui, la dura necessità soltanto li possono far nascere.
Allo stato sono da chiedere parecchie cose:
Di non ingombrare la strada ai volonterosi con costruzioni giuridiche inutili, di contratti agrari, di enfiteusi e somiglianti vanità. Come dice Nitti, Cristoforo Colombo credeva di trovare l’India e scoprì l’America; ed assai più umilmente la commissione d’inchiesta era andata a vedere se si dovesse con opera di legge mutare i rapporti fra proprietari e contadini ed ha trovato l’America, che tutti i rapporti sociali plasma a nuovo e tutti gli ostacoli infrange. Di fronte a questa forza nuova, che vale legiferare su rapporti che la gente sa mutare senza uopo di aiuto?
Di non distruggere le fonti della ricchezza con le troppe tasse e con i troppi regolamenti. Di fronte alle tasse elevate, molti americani, che erano ritornati, sono ripartiti, forse per sempre.
Di fare ciò che gli individui non furono, non sono e non saranno mai in grado di fare. Invece di fare piani di colonizzazione interna, invece di pensare a trapiantare, coll’elemosina pubblica e colle banche cosidette del lavoro e che meglio si chiamerebbero del parassitismo, le popolazioni del nord nelle terre del sud; donde la gente fugge e dove la vita è possibile solo alle razze acclimatate e dove ogni speranza riposa nella trasformazione autonoma, attraverso l’America, del contadino in proprietario coltivatore, invece di assorbire il risparmio degli emigranti con istituti burocratici macchinosi, i quali, anche se decorati col nome di fondi per gli emigranti, funzioneranno nel vuoto a favore di nuove clientele politiche, invece di impacciarsi a rompere artificialmente il latifondo che già si rompe di sé, dove il frazionarlo risponde a convenienza economica, invece di fare ciò che è inutile e dannoso, invece di ingerirsi in ciò che è meglio che la gente impari a fare da sé, lo stato faccia ciò che gli individui isolati non sono finora stati capaci di fare: costruisca strade, ricostituisca la terra, rimboschendo direttamente le terre più elevate e favorendo il rimboschimento delle pendici più basse, regoli con bacini e serbatoi di montagna, il deflusso delle acque e intraprenda poi (ricordiamoci che Nitti chiama «pestilenza» e «pazzia» anteporre le bonifiche al rimboschimento ed al regolamento montano dei corsi d’acqua), le bonifiche delle paludi malariche della pianura. Se lo stato si limiterà a collaborare in tal guisa alla ricostituzione della terra, avrà finalmente trovato la via per fare il bene, facendosi perdonare il molto male fin qui compiuto e lasciato compiere altrui.