La forza solo contro la forza
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/03/1945
La forza solo contro la forza
«Risorgimento liberale», 9 marzo 1945
Il problema del contrasto tra la libertà e la forza posto su queste colonne luminosamente da Benedetto Croce presenta così vari e numerosi aspetti che vano appare il tentativo di affrontarlo nella sua interezza in un breve articolo. Sicché mi limiterò a precisare un punto ed a porre un quesito. Parmi invero degno di essere precisato il punto della identificazione che il Croce attribuisce, sembra, ai liberisti fra il liberalismo etico-politico col liberismo puramente economico. Nei limiti in cui la identificazione persiste nella mente di qualcuno, essa è certamente un errore e le illazioni che se ne deducono sono parimenti erronee. Chi sono, tuttavia, si può domandare, i rei della confusione? Non certo gli economisti, i quali da parecchi decenni, se non da più tempo, si sforzano di chiarire, come da decenni tenta di fare lo scrivente, che nella scienza economica il liberismo non è da nessuno più tenuto in onore come «dottrina» o «teoria» suscettibile di applicazioni generali. In nessun trattato di «economica» si discorre di liberismo o di protezionismo o di vincolismo là dove si espongono i «principi della scienza» ed accade che si possono scorrere da cima a fondo le pagine di qualche moderno corso di economica senza che vi si veda pur traccia di quei concetti e delle relative definizioni. Il liberismo è per gli economisti nulla più di una norma pratica di condotta in «talune» faccende economiche, nelle quali l’ingerenza dello stato appare, fatta la somma algebrica degli effetti positivi suoi (a segno più) e di quelli negativi (a segno meno) produttrice di un risultato netto negativo.
Nel qual calcolo gli economisti così detti liberisti procedono caso per caso; e così, ad esempio, concludono a favore dell’intervento statale nel campo della assicurazione obbligatoria di vecchiaia e la vogliono estesa non ai soli salariati, ma a tutti quanti gli uomini, i quali, non essendo ospiti di carceri o di manicomi o simili ospizi, raggiungano l’età della vecchiaia; dubitano invece assai della convenienza della assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione reputandola causa di incremento della disoccupazione medesima e, pur affermando che il problema non si risolve da sé, preferiscono che lo stato lotti contro la disoccupazione con mezzi indiretti, più che con sussidi promessi ai disoccupati. Fautori qui del «prevenire» piuttosto che del «reprimere» gli economisti lo sono ancor più nel problema generale della lotta contro le crisi generatrici della disoccupazione. Secondo essi lo stato dovrebbe procurare di scoraggiare le allegrie eccessive foriere di depressione piuttostochè essere obbligato dal clamore popolare al correre al salvataggio dei naufraghi tra i marosi delle convulsioni economiche. Se poi ancora essi antepongono le maniere indirette di prevenire crisi e disoccupazioni ai piani direttamente a ciò rivolti, la preferenza è dovuta non ad argomentazioni dottrinarie ma ad empiriche constatazioni, assai terra terra, sul pericolo che nella elaborazione e nella attuazione dei piani prevalgono invasati, imbroglioni, fa-tutto, pasticcioni, tra i quali sono più pericolosi i bene intenzionati dei lestofanti. Se poi i liberisti, nel campo a cui restringono il meglio della loro combattività, che è quello del commercio internazionale, sono contrari ai dazi protettivi, alle preferenze, ai contingenti ai vincoli di cambio e simiglianti impedimenti, ciò fanno solo in minor parte in virtù di ragionamento economico puro. Essi sono persuasi che, tutto sommato, la somma del vantaggio netto economico pencoli a favore della libertà degli scambi; ma si persuaderebbero volentieri a consentire dazi e premi e proibizioni nei casi particolari nei quali è dimostrabile il vantaggio loro per la collettività, se non li distogliesse da ciò il convincimento della impossibilità di fatto di limitare a quei casi l’intervento dello stato.
L’osservazione della realtà dimostra essere consigliato dalla prudenza politica astenersi dal fare il bene in dieci casi per non essere costretti a fare il male e cioè a favorire corruttela morale e mercanteggiamenti politici negli altri novanta casi. Non sembra dunque si possa far risalire ad una norma di condotta, quella liberistica, la quale è deliberatamente tutta empirica, del caso per caso, la responsabilità di una concezione dell’idea liberale, che necessariamente deve avere carattere assoluto.
La discussione avvenuta su questo giornale, in Idea ed in Nuova Europa non è stata a questo proposito senza frutto. Un punto è stato fermato: che la libertà deve essere difesa con la forza quando essa è minacciata con la forza e con l’inganno. I testi legislativi svizzeri contro le mene dei partiti totalitari che io citai nel saggio di Idea, che diede l’avvio alla discussione presente, dimostrano come quei sapienti, perché modesti, legislatori sappiano gagliardamente difendersi contro ogni aperto e subdolo attentato contro i liberi ordinamenti della confederazione. Se non erro, il problema ultimo era però un altro, che forse non fu esplicitamente posto e discusso. Qui si pone il mio quesito.
Suppongasi che in Italia si instauri un ordinamento per cui alle regioni sia data piena sovranità in alcuni campi ben delimitati; e che fra i campi così assegnati alle regioni si noveri quello scolastico; sicché ai comuni spetti la gestione delle scuole elementari ed alla regione quella delle scuole medie ed universitarie ed allo stato non sia consentita alcuna intromissione nelle cose scolastiche locali, eccetto quella spontaneamente invocata dai comuni medesimi e dalla regione per conseguire concorsi finanziari offerti dallo stato a chi ottemperi a date condizioni scritte nelle leggi ed intese a dare incremento alla istruzione medesima. Un simigliante ordinamento vige nella Svizzera ed in altri paesi liberi, ad esempio quelli anglosassoni; e parecchi sono pronti a dichiararlo modello di liberalismo. Si può discutere se un ordinamento siffatto debba essere adottato; ma qui si suppone che, disgustata dai nefandi risultati sinora conseguiti durante il secolo e mezzo nel quale dominò in Italia l’ordinamento accentratore napoleonico, l’Italia abbia deciso di abolire l’istituto del prefetto, insieme con tutti i suoi amminicoli ed abbia nettamente distinti i compiti dei diversi ordini di enti pubblici, fatti, ciascuno nel proprio campo, legislatori perfetti. Così decretando, si operò bene o male? Questo è diverso problema; e qui si constata soltanto che il nuovo ordinamento è oramai legge dello stato.
Suppongasi che una regione italiana promuova, coi mezzi locali, siffattamente e spontaneamente le cose dell’istruzione nel suo territorio, da non aver bisogno e da non voler chiedere alcun concorso finanziario allo stato; ma si giovi della sua perfetta potestà legislativa per dare alla istruzione, in quel che essa ha di formativo al punto di vista politico spirituale morale religioso, una impronta nettamente di partito. Supponiamo che siffatta politica educativa sia approvata, in libere ripetute elezioni, dalla grande maggioranza del corpo elettorale della regione; e che della facoltà, che supponiamo garantita dalla costituzione, di fondare scuole inspirate a principi di tolleranza e di libera ospitalità verso altre tendenze politiche o religiose o filosofiche, nessuno si giovi. Supponiamo che non vi sia dubbio intorno alla libertà e genuinità della manifestazione della volontà della maggioranza. Questa ha voluto, ad esempio, instaurare nella scuola un confessionalismo cattolico o comunista; e ad ogni passo innanzi su questa via, maggioranze sempre più decise hanno approvato l’opera del legislatore. Invano i giornali dei partiti avversi hanno cercato, senza che all’opera loro si ponesse alcun impedimento, di illuminare l’opinione pubblica. Nonostante fosse consentita ai liberali, ai socialisti, ai conservatori amplissima libertà di critica ed agli oppositori fosse consentito condurre campagne vivacissime contro la politica della maggioranza, questa è rimasta salda. A mano a mano morivano od invecchiavano i vecchi maestri ed insegnanti, essi furono sostituiti da nuovi devoti al verbo della maggioranza. Non giovò neppure che il legislatore locale offrisse di sussidiare le cattedre «libere» ossia non informate alla dottrina ufficiale, non appena gli amatori dell’insegnamento libero si dichiarassero pronti a sopportare una parte, e persino la minor parte, della spesa. Nessuno si mosse, nessuno si dichiarò pronto a sopportare un sacrificio sia pur piccolo, in difesa della idea della libertà della scienza.
Quid agendum quando alla libertà di insegnamento ripugnino le maggioranze liberamente elette e le minoranze non sentano la necessità della difesa od almeno non la sentano in modo serio, riluttando esse a sopportare per quella difesa il necessario sacrificio personale? I liberali devono assistere inerti alla morte della libertà? Il quesito spinge, è vero, all’estremo limite la posizione del problema. Tuttavia, se forse a quel limite non si giunge mai, in date epoche e in dati luoghi i popoli non se ne allontanarono troppo. Quale risposta dovrebbero dare i liberali se il caso ipotetico di totalitarismo scolastico – naturalmente non scompagnato da altri aspetti della medesima malattia – si verificasse in una futura Italia ad ordinamento regionale autonomo? Dovrebbe lo stato centrale intervenire d’autorità contro la legge regionale, ad imporre un altro tipo di istruzione? Dovrebbe darsi inizio alla procedura di riforma della costituzione, allo scopo di avocare allo stato il governo delle cose scolastiche? Che cosa dovrebbe farsi, se anche nello stato, per consenso volontario degli elettori, non soggetto a dubbi di interpretazione, prevalessero tendenze uguali a quelle prima manifestatesi in una regione?
P.S. – In un libro infernale Capitalism, Socialism and Democracy, Joseph A. Schumpeter, economista a giusta ragione annoverato tra i maggiori contemporanei, dopo aver scritto una brillantissima apologia di quello che si usa chiamare l’ordinamento capitalistico attuale e particolarmente degli aspetti di esso dai più assoggettati a vive accuse per le dimensioni colossali delle imprese ed il loro carattere monopolistico e dopo aver celebrato i trionfi, mai veduti prima, conseguiti da quell’ordinamento per il promuovimento della ricchezza e la diffusione ugualitaria del benessere, constata tuttavia l’ineluttabilità dell’avvento dell’opposto tipo collettivistico di organizzazione sociale. Avvento che tramonterà nell’insuccesso più clamoroso se tentato colla forza; ma avrà invece certamente luogo se e perché confortato dal consenso universale, gradatamente, senza opposizione. Ben potrà darsi, sebbene l’evento dipenda dalla compiutezza più o meno grande del sistema, che i risultati siano di decadenza materiale e morale; ma quei risultati saranno voluti. L’ipotesi, fatta nel testo, di un totalitarismo sostanzialmente nemico della libertà ma voluto per concorde libera volontà dei popoli, non è dunque una ipotesi solitaria, Molti, a fini diversi, di qua e di là dagli oceani, cominciano a porla. Fatta quell’ipotesi, quale il compito dei liberali i quali abbiano lottato sino all’ultimo colla parola e cogli scritti contro l’avvento del tipo totalitario conformista della società? Conformista, continua l’ipotesi, non nei soli aspetti economici – piani ordinati dall’alto, senza possibilità di mutazioni o di emulazione da parte di gruppi od individui particolari – ma in tutti i modi di vita. Se gli uomini vorranno essere conformisti dovranno i liberali costringerli ad amare ed attuare quella libertà di cui essi dichiarano di non voler sapere? Si contenteranno di dire che anche la volontaria rinuncia alla libertà è un atto di libertà?
O non dovranno invece seguitare a scrivere, a parlare, ad operare in difesa del loro ideale sino al giorno nel quale gli uomini, disingannati, si rivolgano nuovamente ad essi?
Questa, e non la forza, che nella fatta ipotesi non si saprebbe nemmeno contro chi dovesse essere usata, parmi sia la conclusione alla quale debbono giungere i liberali.