La folla e il popolo
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/08/1943
La folla e il popolo
«Il Giornale d’Italia», 11 agosto 1943
È necessario che gli italiani cessino di essere folla e ridiventino popolo.
La colpa massima del regime ora crollato fu il suo tentativo di ridurre il popolo italiano allo stato di folla Questa è un aggregato di individui separati gli uni dagli altri, tutti -uguali, tutti vestiti e pensanti in un modo, in quel mode infantile che consiste nei ripetere parole semplici, prive di sostanziale contenuto, fornite di una apparente virtù verbale mistica.
La folla si muove a ondate irresistibili verso mete immediate: che oggi sono diverse da quelle di ieri ma sono sempre il rimedio sicuro contro il male da cui la folla, è in quel momento fatta persuasa di essere afflitta. La folla è il clima nel quale fioriscono i saltimbanchi politici è il terreno nel quale si coltivano i dittatori e gli aspiranti dittatori.
Non illudiamoci che la scomparsa subitanea di un dittatore ne abbia fatto venir meno la semenza. Forse non ci furono mai tanti aspiranti dittatori come nei momento presente. Ventun anni fa, quando non era ancora rotto l’incanto dei freni e degli ordini costituzionali, molti che sentivano dentro di sé fremere l’animo del salvatore della patria, costoro erano tenuti a segno dalla paura del ridicolo o dell’insuccesso.
Oggi, non più. La tragica fine di una dittatura non scoraggia gli aspiranti dittatori. Se si facesse un severo pubblico esame di coscienza, quanti non dovrebbero confessare che essi sentono di avere il rimedio atto a salvare il paese!
L’esperienza passata si è chiusa in tragedia, perché quell’uno si era sbagliato; ma noi non ci sbaglieremmo. Quante volte non si è sentito dire: se io potessi comandare per un anno, metterei tutte le cose a posto! Ognuno di questi aspiranti dittatori ha un rimedio: la terra ai contadini in tutta Italia, le fabbriche agli operai, le grandi industrie nazionalizzate, le banche avocate allo stato, la partecipazione agli operai, la costituente, l’imposta unica progressiva, una grande imposta sul patrimonio per pagare i debiti di guerra, ecc. ecc.
Ed ognuno vuole avere mano libera, senza imbroglio di discussioni, senza remore di deliberazioni di parecchi corpi legislativi, per attuare subito, alla giacobina, se occorre con tribunali statali contro i recalcitranti, il proprio infallibile rimedio. Ed ognuno, per riuscire alla propria meta, fa leva sul sempre pronto consenso e sull’aiuto della folla ammaestrata a ripetere la parola semplice, a ridire all’infinito il verbo destinato a salvare il paese.
Bisogna ad ogni costo togliere di sotto a questi aspiranti dittatori il piedestallo sul quale soltanto possono edificare la propria fortuna e la disgrazia dell’Italia. Bisogna che gli italiani cessino di essere folla e ridiventino popolo.
Il popolo non è un aggregato di atomi, di individui, di manichini ricoperti dell’abito del colore che piaccia a questo od a quell’aspirante dittatore. Il popolo è composto di famiglie, di padri, di figli, di ceti, di regioni, di associazioni, di chiese. Gli uomini sono popolo e sono cittadini perché hanno interessi comuni con altri e dissimili da quelli degli altri, perché hanno legami con altri uomini ed altri gruppi perché hanno ideali ed aspirazioni diverse da luogo a luogo, da villaggio a villaggio, da città a città, da regione a regione.
L’interesse comune, l’ideale nazionale nasce dal confluire e dal contemperarsi di tanti interessi e di tanti ideali diversi!
Il cittadino si sente veramente parte integrante del po polo quando sente che nell’azione e nell’ideale comune si è sentita e si è attuata anche una particella, quanto pur piccola si voglia, del suo interesse e del suo ideale.
Ma perché ciò accada importa resistere vigorosamente a qualunque tentativo dell’un interesse, dell’un ideale a dominare sugli altri. La resistenza, prima e piuttosto che nella legge, deve essere scritta negli animi e deve avere la virtù di far operare gli uomini.
Ognuno di noi deve credere innanzitutto in una verità fondamentale: che non sarebbe vantaggioso, anzi sarebbe fonte dì male e di tragedia, far trionfare quello che noi crediamo essere il bene, se prima noi non riusciamo a persuadere gli altri che quello è veramente il bene.
Anzi, è necessario persuadere a fatica, attraverso i tanti ostacoli che l’esperienza storica ha dimostrato essere indispensabili per scegliere il bene dal male, il vantaggioso dal dannoso, il duraturo dall’effimero. Se un potere solo, si chiami questo camera unica o costituente, ha il potere di fare il bene, siamo pur sicuri che quello è l’anticamera della tirannia.
Viviamo in un circolo vizioso: la parola magica, che in tempi recenti fu detta carismatica, passa dall’aspirante-dittatore alla folla, da questa all’assemblea unica onnipotente e dall’assemblea all’investito da Dio, al dittatore, al tiranno.
Popolo vero non diventeremo, se. colla nostra. volontà tesa, colla attenzione e colla tensione non mai allentata di tutti i giorni, non eviteremo di ricadere nello stato di folla.
Dobbiamo creare e far vivere (non basta scriverli nelle leggi) i molteplici vagli – di libera stampa, di doppie camere parlamentari, di magistrature indipendenti, di corpi consultivi professionali, di enti locali, di corpi scientifici religiosi, di associazioni, ecc ecc. – passando attraverso ai quali le singole volontà ed i parziali interessi ed ideali si trasformano nella volontà comune del popolo intiero.
Solo così noi toccheremo la meta politica più alta alla quale una società democratica di uguali possa aspirare: la adesione volonterosa della minoranza all’attuazione della legge voluta dalla maggioranza.
Una legge, la quale sia tale solo perché voluta da una maggioranza, è certo un atto di forza, ma non è affatto certo che sia l’espressione dellavolontà comune. Nove volte su dieci la maggioranza plebiscitaria è altrettanto tirannica quanto la volontà di uno solo.
La legge voluta dalla maggioranza legale acquista virtù morale e diventa veramente volontà comune quando essa è stata preceduta da tanta discussione, è passata attraverso al vaglio chiarificatore di così aperto dibattito nella libera stampa e nei consessi parlamentari, che ogni critica seria della minoranza ha dovuto essere fatta propria dalla maggioranza; sicché alla fine la minoranza la quale, dopo aver opposto resistenza tenace sino all’ultimo, negasse di prender parte in sede esecutiva, all’attuazione della legge, si metterebbe faziosamente fuori del consorzio dei concittadini.
Nel momento in che le minoranze aderiscono, ivi è veramente nato un popolo.