La crisi vinicola
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/01/1908
La crisi vinicola
«Corriere della sera», 27 gennaio 1908
Sui giornali tecnici si agita vivacemente da qualche tempo una grave questione: quella della minacciante crisi vinicola. È noto che dopo le grandi contrattazioni in uve, durante la vendemmia, il mercato vinicolo attraversa sempre un periodo di raccoglimento nei mesi di dicembre e di gennaio. Il vino si chiarifica nelle botti, colla fine della fermentazione lenta; e si apparecchia al travaso che lo tradurrà in altri fusti limpido e spesso pronto per la vendita, desideratissima dalla maggior parte dei produttori. Mentre il vino si chiarifica, produttori e commercianti fanno i conti sul quantitativo del prodotto, sul consumo probabile e si approntano alla schermaglia dei prezzi. Quest’anno, come tutto faceva prevedere, i calcoli minacciano di riuscire poco graditi per i viticultori. Il «Giornale vinicolo» di Casale Monferrato ha calcolato pel 1907 una produzione totale di 56 milioni di ettolitri; e sulla Tribuna il signor Sabino Samele, direttore dell’Associazione vinicola di Cerignola, ha aggiunto che soltanto nel suo centro i proprietari avevano dichiarato di aver messo nelle cantine 960 mila ettolitri e poiché molti avevano fatto dichiarazioni inferiori alla verità non sarebbe per nulla strano che la produzione italiana complessiva si avvicinasse più ai 60 che ai 56 milioni di ettolitri. Sono cifre grosse, superiori di 20 milioni di ettolitri all’ingrosso a quella che è ritenuta la produzione media. Che cosa ne faremo di tanto vino? cominciano a chiedersi i viticultori con inquietudine; né è facile trovare la risposta.
Vendere tutto questo vino nell’annata ai bevitori è un’utopia. Poiché sui 34 milioni di italiani non più dei due terzi al massimo bevono vino, ogni consumatore dovrebbe bere da 240 a 250 litri all’anno; il che non è facile. Nell’Italia meridionale vi sono popoli parchi bevitori di vino; e dappertutto nei grandi centri all’espansione del consumo fa ostacolo l’altezza dei dazi, la quale sminuisce l’importanza dei ribassi dei prezzi all’origine. Presso le classi ricche una diminuzione di prezzo nelle vendite all’ingrosso non è sufficiente a provocare un aumento apprezzabile nel consumo. Aggiungasi la sempre crescente moda delle bevande non alcooliche, delle acque di ogni fatta, per cui fanno propaganda i medici, grandi nemici dei viticultori; e parrà giustificato lo scetticismo dei produttori di fronte ad un maggior consumo delle classi medie e ricche. Le classi popolari sarebbero bensì uno sbocco sicuro per una parte della produzione sovrabbondante, se noi ci trovassimo in un periodo economico di guadagni crescenti e di sicura occupazione. Purtroppo invece, se non si può parlare di disoccupazione, ove se ne tolgano forse poche zone e se non si riducono i salari, il momento attuale non è segnalato nemmeno da quella facilità di guadagni e, sovratutto, da quell’incremento nelle occasioni di guadagno che spingono le masse popolari a crescere i consumi assai e specialmente a bere di più.
Qualche cosa certo si otterrà, sovratutto perché, ai prezzi bassi del vino genuino, è meno conveniente la fabbricazione di vini artificiali, combattuti d’altronde un po’ meglio di prima da leggi restrittive. Ma sembra molto supporre un aumento nel consumo del 29 per cento, che porterebbe la quantità di vino bevuto in media da ogni italiano da 150 a 180 litri e la quantità totale da 30 a 36 milioni di ettolitri.
L’esportazione all’estero ci può dare poco conforto per ora: da anni ci aggiriamo intorno al milione di ettolitri; e non è in un anno, tumultuariamente, che noi possiamo creare gli organismi tecnici e commerciali capaci di convogliare all’estero una parte maggiore di quei 20 milioni di ettolitri che rimarranno disponibili dopo aver provveduto al consumo interno.
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Gira e rigira, poiché il consumo interno non può aumentare quanto sarebbe necessario per dare sfogo a tutta la produzione, poiché è inutile sperare in una pronta riduzione nei dazi sul vino, che provocherebbe certo un aumento nel consumo ma richiederebbe un rimaneggiamento complicato ed ineffettuabile a pronta scadenza del sistema tributario locale, poiché le vie dell’esportazione all’estero non sono facili; non rimane che l’altro corno del dilemma: ridurre la quantità di vino che nei mesi prossimi sarà portata sul mercato. Gli interessati hanno perciò visto un’ancora di salvezza nella distillazione del vino di seconda qualità ed hanno a grandi grida chiesto al Governo un aumento nell’abbuono della tassa per la distillazione di vino. È noto che la tassa nominale sulla fabbricazione degli spiriti è di L. 200 all’ettolitro; sulla quale tassa si concede un abbuono del 10% ai distillatori di cereali, dal 15 al 28% ai distillatori di vinaccie o sostanze vinose, del 35% ai privati e del 40% alle cooperative che distillano soltanto vino. Già dunque in via normale la distillazione del vino è meno tassata che quella delle altre sostanze; poiché paga di tassa reale solo 130 o 120 lire all’ettolitro secondo se si tratta di privati o di cooperative, mentre i distillatori di altre materie possono pagare sino a 180 lire. In seguito alle richieste dei viticultori, ad un motivato ordine del giorno della Società degli agricoltori italiani, a parecchie interrogazioni alla Camera, il ministro delle finanze si decise ad elevare, dal 15 dicembre 1907, a tutto il marzo del 1908, l’abbuono ai privati distillatori di vino provveduti di misuratore meccanico dal 35 al 40% ed alle cooperative dal 40 al 45%. Il Ministero in una nota ufficiosa, comunicata alla Rivista agricola di Roma, calcola che della facilitazione si gioverà un milione di ettolitri di vino, con una produzione di 100 mila ettolitri di alcool; e siccome il maggior abbuono del 5% produce una perdita per l’erario di 10 lire per ettolitro, è un milione tondo di lire che lo Stato viene a perdere in tal guisa; non essendo possibile che il consumo dell’alcool aumenti in complesso e prevedendosi quindi un minor prodotto di alcool di altre sostanze. Se poi l’alcool venisse esportato, per un altro complicato gioco fiscale, lo Stato verrebbe a perdere un altro milione di lire: totale due milioni di perdita erariale.
Se al fisco è parso di aver concesso molto, i viticultori non sono contenti, sembrando ad essi che la distillazione di un milione di ettolitri di vino troppo scarsamente rimedi ad una sovraproduzione calcolata in 20 milioni di ettolitri. Ed ancora si lamentano, che, per la limitazione sino al 31 marzo del maggior abbuono, per la scarsità di distillerie agricole, per il trust che lega tra loro le maggiori distillerie italiane esistenti, il vantaggio concesso dal fisco in troppo esigua misura vada a favore dei viticultori, essendo intercettato per via dai possenti ed organizzati distillatori. Vorrebbero taluni che il Governo consentisse ad un abbuono illimitato o quasi nel tempo, sino al 31 dicembre 1908 almeno, e che l’abbuono fosse cresciuto al 50% per tutti, privati e cooperative, nella speranza di poter togliere così dal mercato da 6 a 7 milioni di ettolitri di vini scadenti.
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Ma qui il problema si complica. Che cosa farne dei 600-700 mila ettolitri di alcool ottenuti in più dalla distillazione del vino? Siccome non si può sperare di soppiantare tutto l’alcool di altre provenienze, e l’esportazione all’estero è proficua solo per la quantità (50 mila ettolitri) per cui si restituisce la tassa pagata in misura superiore alla restituzione normale che è del 90%, si avrebbe, insieme alla crisi vinicola, la crisi della distillazione. Crisi vinicola perché la sovraproduzione sarebbe ridotta soltanto da 20 o 19 milioni a 12-13 milioni di ettolitri; crisi della distillazione per i 600-700 mila ettolitri di alcool posti sul mercato. Il signor Sabino Samele, che già citammo, vorrebbe che il Governo concedesse per un 300 mila ettolitri di alcool l’abbuono totale della tassa, a patto che questi 300 mila ettolitri si cercassero un impiego nuovo, non esistente finora, in modo da non nuocere per alcun modo al fisco. L’impiego nuovo sarebbe, secondo lui, l’alcoolizzazione sino a 3 litri di alcool per ettolitro di vino per un dieci milioni di vino del raccolto presente che i proprietari si obbligherebbero a non vendere prima dal novembre venturo, istituendo quasi un deposito doganale nella cantina di ogni produttore. Il concetto sostanzialmente sarebbe questo: esentare del tutto da tassa la distillazione di 3 milioni di ettolitri di vini deboli o guasti, ed autorizzare a comprare l’alcool prodotto in franchigia gli stessi od altri viticultori allo scopo di alcoolizzare 10 milioni di ettolitri di vino buono, che potrebbero così superare i calori della state ed essere messi in vendita l’anno venturo. Quest’anno il mercato del vino, liberato da 6 o 7 milioni di vini guasti distillati (di cui 4 per la vendita al consumo e 3 per l’alcoolizzazione di vini buoni) e da 10 milioni di ettolitri di vini buoni riportati all’anno venturo, respirerebbe ed i viticultori potrebbero ottenere prezzi remunerativi.
Quasi certamente – e le recenti decise denegazioni del ministro Lacava ad un intervistatore, ci dovrebbero far dire certamente – le proposte che ora accennammo non saranno accettate se non in parte, troppo gravi essendone le conseguenze fiscali in un momento in cui le spese pubbliche tendono a soverchiare nuovamente le entrate; e gravissimi dubbi facendo sorgere l’immane tentativo di trust dei produttori di vino sotto l’egida di depositi doganali di vino alcoolizzato in franchigia da tasse. Perché lo Stato dovrebbe intervenire a garantire quasi i prezzi del vino arrecando ferite profondissime al suo sistema fiscale? E se il raccolto del 1908 riuscisse abbondante, che cosa ne faremmo nell’anno nuovo dello stock di 10 milioni di vino alcoolizzato, il quale gettato sul mercato darebbe certamente il mezzo di spacciare con sapienti tagli parecchi milioni di vino di più?
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I viticultori avrebbero però torto di disperare in tutto e per sempre. Se dagli abbuoni alla distillazione non è possibile sperare molto, qualche risultato tuttavia si otterrà e sovratutto quello di assorbire una parte dei vini cattivi che maggiormente pesano sul mercato. Forse, con una agitazione viva, il ministro delle finanze di deciderà a prorogare – e senza aspettare troppo – i termini per gli abbuoni, cosa che sarebbe certo utilissima per i viticultori.
C’è poi da sperare nel tempo e nelle vicende atmosferiche. Col sopravvenire della stagione calda i vini scadenti, che costituiscono tanta parte dell’ultimo raccolto, diventeranno in parte torbidi, prenderanno lo spunto o la muffa. Sarà un danno individuale per coloro che non avranno saputo conservare bene i loro vini; ma sarà tanto di guadagnato per il mercato in generale. E il danno non sarà nemmeno tutto o forse nemmeno per la maggior parte dei viticultori; poiché l’autunno scorso osti e privati hanno profittato dei prezzi vilissimi delle uve per farne incetta su scala più vasta di quanto comportassero i loro mezzi. Se i vini di costoro andranno a male i viticultori non ne saranno malcontenti e ne profitteranno per vendere un po’ più cari i vini delle proprie cantine. Tutto sommato, è difficile che i vini buoni e serbevoli debbano discendere ai 70-80 centesimi al grado- ettolitro che si videro negli anni di crisi nel Mezzogiorno della Francia.
Per quanto possa sembrare un paradosso, i viticultori sperano anche nella contrarietà delle vicende atmosferiche, nello sviluppo della peronospora e nelle mille malattie che insidiano il prodotto delle vigne. Nel fondo del cuore ognuno augura questi malanni ai colleghi lontani; ma è indubbio che due raccolti grossi come quello del 1907 sarebbero un disastro. Adesso non è possibile fare previsioni, sebbene il legno nuovo abbia l’aspetto bello e promettente. Se il nuovo raccolto avesse a sembrare inferiore alla media, a giugno e luglio i prezzi del vino vecchio comincerebbero a diventare più sostenuti.
Per quanto si faccia, sarà ben difficile però di giungere all’anno nuovo senza forti rimanenze. Poiché saranno i più agguerriti che avranno potuto resistere, l’esperienza non dovrebbe rimanere inutile per essi. Ho accennato sopra alle difficoltà grandi di crescere d’un tratto il consumo all’interno e di spingere l’esportazione all’estero. Ciò che non si può fare in un anno può compiersi in parecchi anni di sforzi perseveranti. Negli ultimi tempi i viticultori, avendo ottenuto senza sforzi prezzi remunerativi, si sono un po’ addormentati. La crisi dei prezzi li sveglierà. Alla Francia ed alla Spagna potremmo, volendo, opporre validamente sui mercati dell’Europa centrale le nostre forze, sovratutto se nei primi anni ci sapremo contentare di prezzi modesti e di guadagni ancor più modesti. Sono sacrifizi che val la pena di sopportare, poiché negli anni di scarso raccolto dai paesi concorrenti potremmo trovarci a dominare il mercato ed a raccogliere profitti cospicui. Anche all’interno c’è molto da fare nel senso di portare il vino buono, genuino al consumatore a prezzi più miti di quelli odierni al dettaglio. Non che il produttore debba ingaggiare una lotta ad oltranza col commercio vinario, del quale non può fare a meno; ma un’azione parallela delle cooperative di vendita, delle cantine sociali sarebbe utilissima perché agirebbe di stimolo al commercio, lo costringerebbe a ribassare i prezzi al minuto, provocando l’aumento nel consumo, e libererebbe il produttore dalla necessità di vendere ad ogni costo uve e vino a qualunque patto ai commercianti del luogo.
Né è possibile finalmente dimenticare un ultimo rimedio, attuabile a poco a poco, della crisi dei prezzi del vino: produrre soltanto del vino buono.
Troppi viticultori coltivano la vigna in luoghi bassi, umidi, poco soleggiati; troppi contadini pretendono di far il vino senza avere cantine, congegni, fustame, cognizioni tecniche e capitali. Che meraviglia che il vino cosiffatto non riesca serbevole e debba vendersi a poco prezzo? L’interesse medesimo consiglierà ai produttori mal situati di cambiar cultura, scegliendone altre più adatte ai loro terreni; e l’esperienza, la propaganda delle buone pratiche enologiche e la diffusione delle cantine sociali riusciranno a persuadere i viticultori privi dei mezzi necessari a limitarsi a produrre le uve, lasciando la vinificazione ad enologi specializzati e capaci di trarre dalle uve un prodotto resistente alle insidie del tempo e non costretto alla vendita dai bisogni immediati di fondi che travagliano così spesso gli agricoltori.