La crisi è finita?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1932
La crisi è finita?
«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1932, pp. 73-79
Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 403-410
John Maynard Keynes: Essays in persuasion. (Un volume di pag. VIII-376, Macmillan and Co., St. Martin’s street, London, 1931. Prezzo 10 scellini e 6 d.).
1. – «Qui sono raccolte lamentazioni profetiche, durate per dodici anni, di una Cassandra, la quale non riuscì mai ad esercitare in tempo veruna influenza sul corso degli avvenimenti. Il volume avrebbe potuto essere intitolato Sforzi di profezia e di persuasione, perché la “profezia”, sfortunamente, ha avuto maggior successo della “persuasione”. La più parte dei saggi furono tuttavia scritti con spirito di persuasione, nel tentativo di operare sull’opinione pubblica; ma ogni volta essi furono, per lo più, considerati sfoghi estremisti ed avventati».
Il lettore, il quale ricordi l’impressione che il pubblico ricevette dai saggi del Keynes, nel momento della loro pubblicazione, darà ragione all’autore nel giudizio intorno all’opinione media della gente ben pensante dei paesi dove i libri del Keynes furono letti. Eccetto forse in Italia, dove nessuno credette mai alle riparazioni e tutti vi si acquetarono come ai soliti riti a cui bisogna rendere tributo di inchino, purché l’inchino non costi niente, gli altri, e specie l’inglese e il francese medio, ribollirono d’ira verso questo economista dallo stile piacevole e chiaro il quale dimostrava che era impossibile far pagare i tedeschi, ed i trattati di pace dovevano essere profondamente modificati. Più tardi, quando in Inghilterra si preparò e si attuò il ritorno all’oro sulla base dell’antica parità, Keynes irritò e scandalizzò nuovamente l’opinione media britannica, a cui lo svilimento della sterlina sembrava una macchia all’onore, tollerata solo per la sua indole provvisoria, con la sua affermazione non doversi ritornare alla parità antica ed essere anzi la parità con loro un’anticaglia da buttar via. Intorno a questi due argomenti – il trattato di pace e la questione monetaria – si aggira la più parte dei saggi raccolti nel presente volume, con larghi tagli nelle parti caduche od inutili ma senza alcuna mutazione nelle pagine conservate. Stanno a sé alcuni saggi dedicati alla Russia, alla fine del laissez-faire ed alla eliminazione del problema economico dal novero dei grandi problemi interessanti l’umanità. Dei quali saggi non mi occuperò per non ripetere cose scritte altrove (in «La Cultura», primo fascicolo dell’anno corrente).
2. – Al Keynes pare oggi venuto il momento di raccogliere le sue passate querimonie, essendochè, – e nella motivazione si vede l’abito dell’andar contro corrente – nell’autunno del 1931 la crisi è stata superata “in Inghilterra”. Il buon senso ha vinto e gli inglesi hanno riconquistata libertà di scelta. I vecchi pregiudizi stanno, è vero, scomparendo con assai lentezza; ma la battaglia è stata vinta ugualmente dalla pressione irresistibile degli avvenimenti. Nessuno più crede nel trattato di Versailles, nella parità aurea prebellica o nella politica di deflazione. Ciò fa dire al Keynes che i suoi compatrioti stanno ora riposandosi in un laghetto quieto posto in mezzo a due cadute d’acqua.
3. – Su questo punto il Keynes ha indubbiamente ragione. La crisi non consiste in una sovrabbondanza o scarsezza di beni materiali, gli uomini non sono ricchi o poveri perché posseggono molto oro o ne hanno difetto. Oro, merci, case e simiglianti cose sono effetto di stati d’animo. Se gli uomini pensano falsamente ed operano in base a falsi idoli di potenza e di ricchezza, seguiranno miseria e crisi. La liberazione dalle false idee e dai falsi idoli è inizio ed arra di salvezza economica. Riscuotere riparazioni dai tedeschi e pagare debiti agli americani non sono idee in se medesime false. Pagare riparazioni per danni effettivamente arrecati, e pagarle in misura oramai ridotta a non superare l’importo dei danni recati sarebbe stata idea nobilissima e feconda per tedeschi persuasi che, qualunque sia il verdetto della Dea Giustizia sulle cause della guerra, essi dovevano espiare la colpa di non essersi dato un governo decente, anzi di non aver saputo nemmeno partecipare alle decisioni prese dal loro governo di entrare, provocatori o provocati, in guerra. Pagar debiti agli americani sarebbe stato parimenti proposito fecondo per gli europei vincitori, tanto più fecondo, quanto meno ragionevole era la pretesa degli americani di insistere, dopo avere passato la spugna sul grosso, nella riscossione della minor parte del debito nominale. Chi si sottopone a sacrifici per pagare i debiti di giuoco dà serio indizio di non voler giocare; i popoli i quali pagano, senza fiatare, i debiti di guerra, danno serio affidamento di disporsi a riflettere prima di ricominciar guerre. Il che vale assai più dei pochi o molti miliardi delle riparazioni e dei debiti interalleati. Ma i popoli non calcolano con sapienza né previggenza. Fanno guerre; e vinti si seccano di pagare lo scotto, vincitori si meravigliano di non trarre alcun beneficio materiale dalla vittoria.
4. – Due benefici sommi avrebbe potuto produrre la guerra. Gli americani, per un istante, avevano avuto dalla guerra sottomarina l’impressione che era venuto meno l’isolamento creato dalla pace di Parigi del 10 febbraio 1763, quando la Francia aveva rinunciato al Canadà ed era così venuto meno per i coloni inglesi la necessità di ricorrere all’aiuto della madre patria per difendersi contro le armi francesi. L’affondamento del Lusitania aveva fatto sorgere dinanzi ai loro occhi lo spettro di una nuova potenza imperiale capace di assalirli a tergo, presto o tardi, da sola o con impensate alleanze, ed erano corsi in Europa per difendere se stessi contro l’oscura minaccia. Poteva ricostituirsi, sotto nuove forme, nelle quali lo spirito antisistematico anglosassone eccelle, la comunità delle nazioni anglosassoni, fattore potentissimo di prosperità e di grandezza umana. Gli europei, dal canto loro, avevano ricevuto, dai manifesti germanici e dalle paci di Brest Litowsk e di Bucarest, l’impressione di quanto dura sarebbe stata la dominazione del signore tedesco della guerra; ed avrebbero potuto ottenere i vantaggi senza l’onta, della grande Europa, costituendo un’unione doganale europea, la quale avrebbe ad essi data prosperità e forza mai più vedute, superiori alla prosperità e alla forza nord americana di qualche anno fa, quando gli americani parevano i padroni del mondo.
5. – Naturalmente, i popoli fecero tutto l’opposto di quel che la logica e il buon senso consigliavano. Gli americani si isolarono; pretesero il saldo dei loro crediti e nel tempo stesso rifiutarono il pagamento in merci, che è il solo modo con cui alla lunga si può pagare. Gli europei si asserragliarono in minuscoli campi trincerati, distruggendo gli scambi internazionali, mortificando la capacità produttiva propria ed altrui, mandando a gambe all’aria monete e credito. Adesso siamo, anche naturalmente, tutti in miseria. Abbiamo perso la fede in tanti idoli: nel ritorno all’oro, nei dazi doganali, nell’occupazione della Ruhr, nei salari alti, negli accordi industriali per ridurre la produzione e sostenere i prezzi. Perciò Keynes dice che la crisi è finita, perché abbiamo sgomberato il cervello dalle idee false.
6. – Siamo, sì, a buon punto, non alla fine; perché un’idea falsissima rimane ancora ficcata in testa ad ogni popolo: che la colpa della crisi e della miseria propria sia di ogni altro popolo, fuor di se stesso. L’Inghilterra accusa la Francia; la Francia dà la colpa alla Germania; questa a tutto il mondo; e gli Stati Uniti all’Europa che non paga i debiti. Finché i popoli seguiteranno su questo metro, non siamo in vista del porto. Al quale arriveremo solo quando ognuno, sia pubblicamente, con grandi segni di croce, sia nell’intimo foro della coscienza, reciterà il mea culpa.
Nelle faccende private, v’ha chi delle proprie disavventure finanziarie dà colpa alla crisi, alla sfortuna, alla malvagità altrui e chi, invece, apertamente dice o lascia intendere: «Quanto sono stato bestia io a commettere tante sciocchezze!». Se v’è qualche speranza che questo ultimo si salvi o si risollevi, speranza non v’è di solito per il primo, il quale, essendo tuttora persuaso di aver operato bene, ricadrà certamente nei medesimi errori e perderà il resto degli averi e della reputazione. Se fa piacere ai tedeschi di seguitare a gridare di essere rovinati dalle riparazioni, buon pro lor faccia. L’essenziale è che si persuadano non dovere, essi, commettere nuove sciocchezze; smettendola dall’accattare miliardi a prestito per abbellimenti, meraviglie moderne, razionalizzazioni colossali. Se accomoda agli inglesi dar la colpa del crollo della sterlina ai tedeschi che non restituirono ed ai francesi che pretesero il rimborso dei capitali dati e ricevuti a prestito, niente di male, purché essi provvedano, come pare si siano ora decisi a fare seriamente, a ridurre le spese e crescere le entrate dello stato e studino a ragion veduta se e quando stabilizzare nuovamente la sterlina, tenendo conto di tutti i fattori del problema e non solo del prestigio apparente della City di Londra. Entro i limiti nei quali gli europei si sono sbarazzati davvero dei loro falsi idoli e si sono persuasi a darsi d’attorno per accomodare, ognuno, le proprie faccende senza dar noia altrui o sperare qualcosa dall’aiuto altrui, noi possiamo dire di essere davvero usciti fuori dalla crisi.
7. – Anche si è indotti a dubitare di essere sulla via della salvezza, dall’osservare quanto sia ancora in grande onore, oltre quello del dare altrui la colpa delle proprie sventure, l’idolo del miracolismo. Nelle pagine medesime del Keynes se ne trova più di una traccia. Premetto, per non essere colto in fallo grossolanamente, di non volere discutere la questione teorica dei rapporti fra risparmio ed investimento, intorno a cui si aggira tanta parte della contemporanea letteratura economica. La questione è troppo sottile per essere trattata di passata in una recensione. Ma negli Essays in persuasion il K. non si è indirizzato come in A treatise on money alla ristretta cerchia degli economisti. Egli parla invece al grande pubblico e deve forzatamente assumersi la responsabilità dell’interpretazione che il pubblico è tratto a dare ai suoi consigli e delle illazioni che perciò ne vorrà trarre. Ecco ora quale interpretazione il pubblico, a parer mio, darà al libro del Keynes. Parlo, s’intende, dell’interpretazione relativa a quello che si presenta come filo conduttore dal libro al lettore d’oggi, preoccupato dei problemi d’oggi, che hanno nome di crisi, miseria, disoccupazione, chiusura di stabilimenti, navi in disarmo, banche in fallimento. Il lettore ordinario, piena la testa di allegria di tal fatta, quale sostanziale insegnamento trae dalle pagine del Keynes? «Che esiste in qualche luogo e particolarmente nelle casse delle banche una massa di mezzi o di strumenti inutilizzati o sterilizzati, a cui si possono dare i nomi di risparmio, individuale o collettivo, volontario o forzato. Che il risparmio non si trasforma in investimenti; che le banche le quali ricevono depositi non offrono credito o lo offrono in misura inadeguata o ripugnante per la elevatezza del costo o inaccessibile per l’eccesso delle chieste guarentigie. Che gli industriali i quali potrebbero compiere investimenti o gli stati i quali potrebbero assumere l’iniziativa degli investimenti medesimi sono scoraggiati dal farlo a causa dell’alto prezzo chiesto dalle banche per la fornitura del credito. Che perciò, non operandosi nuovi investimenti, si licenziano operai e la disoccupazione infierisce. Che lo stato dalla disoccupazione è costretto a levare imposta a scopo di sussidio; ed il crescente peso tributario aumenta vieppiù il costo del produrre, scoraggia ulteriormente lo spirito di intrapresa, ed inaridisce le fonti del risparmio; sicché le banche, diventando ognora più diffidenti, cercano al massimo la liquidità dei loro impieghi e tengono il risparmio (depositi) lontano dagli investimenti lunghi. Il circolo vizioso, cominciato, si allunga a spirale all’infinito, con effetti cumulativi perniciosissimi. Importa spezzare il circolo e ristabilire l’equilibrio fra risparmio ed investimenti».
8. – Fin qui la rappresentazione che il medio lettore si fa dell’analisi del K., nello studio della quale, ripeto, specialmente nella forma elaborata assunta in A treatise on money io non voglio entrare. A parer mio perché l’analisi, senza dubbio teoricamente elegante, possa diventare feconda di applicazioni concrete, occorrono tanta perizia nel maneggio dei dati, e tanta delicatezza nella valutazione dei metodi di azione, da essere, per ora, quell’applicazione privilegio riservato a piccolissima aristocratica brigata di economisti e di finanzieri. Portata fuori del campo delle discussioni fra iniziati, nel mondo dei politici e dei comuni industriali, banchieri, speculatori, l’analisi ora fatta parmi feconda più di malanno che di vantaggio. In fondo, essa radica nella testa del pubblico l’idea storta che sovra ogni altra gli è cara: che la colpa dei guai i quali affliggono gli uomini sia di “qualcuno”. Il qualcuno sarebbero “i banchieri”, i quali terrebbero serrato negli scrigni il denaro “che c’è” vietandogli di mettersi “a girare”. So bene che il K. non riduce a così poco la sua tesi, naturalmente ricca di premesse ipotetiche, di riserve, subordinata all’avverarsi di condizioni ben definite; ma so anche che, quando si predica al pubblico, fa d’uopo rassegnarsi a vedere ridotto il proprio pensiero a formule estremamente semplici, schematiche, facili ad essere afferrate da tutti. In questo caso la formula è: «Dalli al banchiere, che ha i denari e non li vuole cacciar fuori».
9. – Discorrendo della formula popolare e non della tesi del K., basterà chiedere: I denari ci sono davvero? Dove sono tutti questi risparmi disponibili, i quali sono trattenuti dalle banche sotto forma liquida? A guardare solo le cose italiane, – ma ogni paese è un po’ lo specchio del mondo – non ci si accorge di nessuna esagerazione nell’ammontare del contante o del liquido assimilabile al contante nei bilanci delle banche; né di alcun eccesso negli impieghi liquidi in confronto agli impieghi a lunga scadenza. È pericoloso consigliare alle banche investimenti lunghi, in un momento nel quale faticosamente e saggiamente si vanno liquidando gli errori di investimenti lunghi, forse eccessivi, commessi in passato. Può darsi esista tesaurizzamento; e che dei 14 miliardi di lire di biglietti emessi dalla Banca d’Italia, una parte sia tesaurizzata; parendo inspiegabile altrimenti, e senza una scemata velocità di circolazione dei biglietti, il livello basso attuale dei prezzi. Se è così, qual colpa ne hanno le banche? C’è della verità nel dire che non si risparmia perché non si investe e non si investe quel che si risparmia; ma ce n’è altrettanta nell’aggiungere che non si investe perché non si risparmia e perché il reddito è assorbito dai carichi fissi (imposte ed interessi di debiti), e quel poco che si risparmia non è ragionevole sia investito. Difficilissima cosa è decidere a quale punto di vista si debba dare maggior peso; ed io direi che, trattandosi di agire e non di risolvere problemi astratti, convenga dar peso al punto di vista più fecondo. Nel momento presente, nell’uscire da lunghi anni di intossicazione di ricchezze facilmente acquistate, di grandigia nello spendere e nello sfoggiare, di investimenti azzardati, di gara nel moltiplicare in ogni paese doppioni produttivi, non par dubbio che il consiglio debba essere di risparmiare, di ridurre il piede di casa, di essere guardinghi e prudenti nell’investire. In passato ad agire così, secondo le norme tradizionali della prudenza, bene si operò e si riuscì a guarire l’ammalato. Perché oggi si dovrebbe cambiar metodo?
10. – Il consiglio di sparagno e di prudenza dato al pubblico non vieta che, tra auguri iniziati ai misteri della teoria economica si discutano e si tentino vie inesplorate per accelerare il processo di guarigione, per inspirar fiducia nel ceto degli imprenditori, per fugar paure dall’animo dei tesaurizzatori, per ristabilire il rotto equilibrio fra risparmi e investimenti. Le vie nuove saranno tanto più feconde quanto più inavvertito il procedimento tenuto nell’inspirar fiducia e fugar paure; niente avendo maggior virtù di sfiduciare ed impaurire quanto il gridare su per i tetti essere imperativo nutrir fiducia ed aver coraggio. Al sentir clamor di arditi, i risparmiatori viepiù si tappano, tremebondi, in cantina. A leggere in articoli di scrittori di vaglia, come il K., inviti ai banchieri ad investire nelle industrie, i risparmiatori corrono a ritirar depositi, per metterli in salvo prima che abbiano fatto mala fine. La psicologia, del pubblico economico è difficile ad interpretare. Il risparmio va, non a chi lo chiede con gran fracasso, ma a chi ha dato prova di saperlo amministrare con prudenza, con abilità e con onestà. Se il pubblico dei risparmiatori si fosse generalmente persuaso a pensare: «quanto fui bestia nel dare ascolto all’invito degli alti dividendi, degli interessi vistosi degli aumenti di quotazioni e nel non dar retta al consiglio dei vecchi di tenersi alle case, ai terreni, ai titoli che rendono poco, persino all’oro che non rende nulla!» noi potremmo dire di essere prossimi alla ripresa. Odo invece ancor discorrere di colpe della Francia, della Germania, di debiti interalleati e di riparazioni, di armamenti, di crollo della sterlina. Odo ancora gli uomini muoversi l’un l’altro iracondi rimproveri. E debbo concludere: importa che il tempo della mortificazione duri, perché il lavacro degli animi sia compiuto.