Opera Omnia Luigi Einaudi

J.M. Keynes caposcuola

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 23/04/1946

J.M. Keynes caposcuola

«Risorgimento liberale», 23 aprile 1946

 

 

 

Scrivo di lui, lontano dai miei libri, senza aver sott’occhio niente di quel che egli dettò, e senza aver neppure il ricordo della sua persona. Ché io non lo incontrai mai ed il contatto fisico più vicino avuto con lui fu quando, anni or sono, feci colazione nelle sue camere nel King’s College a Cambridge, presenti la vedova Marshall, il prof. Pigou, Robertson e Piero Sraffa. Nel suo studio pochissimi i libri: una ristampa contemporanea di Dublino della prima edizione di Adamo Smith e pochi altri volumi. La cosa mi parve caratteristica di lui, che non aveva la pazienza dell’insegnante professionale universitario e non amava lo dicessero tale. L’unico «professore» di economia di Cambridge, dopo Marshall, era Pigou. Gli altri erano tutti «lettori», sebbene parecchi fossero e siano uomini che altrove sarebbero considerati arciprofessori.

 

 

La scienza economica era di casa nella famiglia Keynes: il padre suo John Neville, aveva scritto un libro, divenuto classico, sul metodo in economia politica ed era stato nel 1890 tra i fondatori di quella Reale società economica della quale il figlio fu poi per lunghi anni segretario ed al cui cinquantenario padre e figlio poterono prender parte nel 1940.

 

 

A Cambridge John Maynard Keynes era popolare tra i fellows del suo collegio perché era riuscito ad aumentare, con buoni impieghi dei fondi liquidi, il reddito del patrimonio del collegio e quindi il dividendo repartito tra i soci della fondazione. Non so se la popolarità sia continuata negli anni duri venuti poi; ma certamente il consiglio di Keynes era ricercato nel mondo finanziario ed aveva finito per assicurargli un posto eminente tra i consulenti economici del suo paese. Conobbi più d’uno che, posto dinnanzi a problemi imbrogliati, si reputò fortunato di averne potuto discorrere col celebre economista.

 

 

Per i giovani era un capo scuola. Tutto un gruppo di valorosi studiosi che si dicono Cambridgiani faceva capo a lui, e non a Marshall e non a Pigou. Egli aveva dimostrato di possedere le qualità migliori dell’uno e dell’altro. In gioventù, essendo capitato a far parte, probabilmente come funzionario o perito della tesoreria britannica, di una commissione monetaria indiana, aveva scritto un libro sulla rupia, sul regolamento del cambio della rupia con l’argento, l’oro e la lira sterlina, che forse è il suo capolavoro per se stesso. Mi si perdonerà se, passati tant’anni dalla sua lettura, mi rimane in mente solo lo stupore allora provato per la perfezione tecnica, per il ricamo delicato con cui sono dipinti i legami cangianti e ramificantisi tra l’unità monetaria indiana e le unità monetarie principali permutabili, allora, in oro o collegate con l’oro. Keynes, allora, descriveva soltanto, ed il suo nome non era collegato con una particolare dottrina. Ma che cosa è la scienza pura economica se non la spiegazione dei rapporti, dei legami i quali intercedono tra un fenomeno e l’altro, tra una quantità e l’altra? E, quando la descrizione delle relazioni tra le variazioni della rupia e le variazioni della lira sterlina è perfetta, che cosa si può chiedere di più allo scienziato?

 

 

La fama non venne tuttavia a Keynes da quella perfezione tecnica che egli toccò nell’uso della logica economica. La fama venne quando egli, avendo assistito ai colloqui tra i quattro grandi autori della pace di Versaglia, Wilson, Lloyd George, Clemenceau ed Orlando, dimostrò in un libro famoso sulle conseguenze economiche della pace, che le condizioni imposte alla Germania erano economicamente assurde e politicamente pericolose. Più che un libro quello fu un discorso di polemica politica di grande insuperata eloquenza. I fatti diedero ragione a lui ed a Francesco Nitti che scriveva allora suppergiù la stessa cosa ed il suo nome divenne in breve ora di grande peso nelle discussioni internazionali intorno all’avvenire del mondo. Come al solito, l’Inghilterra tardò a riconoscere la verità di quel che Keynes aveva detto intorno alle assurdità economiche delle riparazioni e degli altri pesi imposti alla Germania: ma quando il riconoscimento venne, fu, come per Churchill, pienissimo. Keynes era divenuto dall’inizio della seconda guerra mondiale «il» consigliere della tesoreria britannica; il suo «missus dominicus» nei negoziati difficili con gli Stati Uniti. A lui si deve la conclusione dell’accordo recente per il prestito dei quattro miliardi e quattrocento milioni di dollari degli Stati Uniti all’Inghilterra.

 

 

La sua elevazione alla paria nel 1940 gli diede modo di difendere direttamente dinnanzi alla Camera dei Lordi, con il linguaggio mordente e netto che era suo, l’opera da lui compiuta a pro del paese. Se la vita gli fosse durata, forse si sarebbe verificato il prognostico fatto da Sir William Beveridge quando si seppe che il signor J. M. Keynes era divenuto Lord Keynes: la nomina avrebbe forse fatto mutar parere al pubblico intorno al luogo tenuto dalla Camera dei Lordi nella costituzione britannica, così come gli studiosi erano stati costretti da Keynes a rivedere le loro idee intorno alla teoria monetaria.

 

 

È vero che la revisione delle idee dei teorici intorno alla moneta sia opera di Keynes? Possiamo su ciò, noi continentali, rimanere incerti. Certa cosa è che nessun altro economista contribuì quanto Keynes negli ultimi venticinque anni ad agitare tante e tante idee nel mondo degli economisti. L’oro messo in un tabernacolo e venerato come una divinità, ma tenuto lontano dagli affari quotidiani; i rapporti tra risparmio ed investimento, dove in luogo dell’incenso bruciato dinnanzi alla virtù del risparmio si parla sovratutto dei pericoli dell’eccesso di risparmio e si discute sulla propensità a risparmiare come generatrice di disoccupazione; i calcoli sul moltiplicatore, dove taluni adepti hanno veduto nella iniziale spesa statale, ad es., per lavori pubblici ed in genere nel disavanzo nel bilancio dello Stato una forza miracolosa atta a moltiplicare produzione e ricchezza; la sostituzione del bilancio statale ciclico con disavanzi ed avanzi compensantisi, al culto, che or si dice gretto, del pareggio annuo del bilancio statale. Questi ed altri sono taluni dei germi gittati da Keynes nel campo assetato di novità dei giovani economisti e divenuti subito generatori di appassionate discussioni nella letteratura economica internazionale. Germi e sprazzi, invece del ricamo delicatissimo che avevamo ammirato nel saggio sulla moneta indiana. Egli stesso parve dar ragione a chi, inquieto, dopo la seconda e terza lettura riponeva, disperando di comprenderli appieno, i libri sulla teoria generale della moneta e sulla disoccupazione, dove alle pagine fresche rivelatrici si succedevano quelle appena abbozzate e non rifinite; ché alla prima stesura una seconda, con terminologia variata, aveva già fatto seguito e l’autore annunciava una terza revisione.

 

 

Agitatore di idee; amante di porre paradossi e di riattaccarsi agli eretici: questo fu l’ultimo Keynes dei più famosi libri monetari, il Keynes il quale affermava essere stata grande sciagura che la scienza economica fosse stata costruita nel secolo XIX sulla base di Ricardo invece che su quella di Malthus; non il Malthus del saggio sulla popolazione, che non conta nulla nella scienza, ma quello dei Principii di economia politica, che egli avrebbe voluto porre a luogo di Ricardo, per la predilezione nel guardare ai punti di frattura del meccanismo economico, alla felicità del consumare più che alla virtù del risparmiare, allo spettacolo delle crisi e della fame più che alle cause ultime di esse.

 

 

In queste inversioni nel modo di guardarsi indietro e di prendere la misura relativa dei grandi economisti del passato, quanta superba capacità tuttavia di ricostruire le figure del passato! Così come, se vogliamo rivedere vivi e parlanti dinnanzi ai nostri occhi i protagonisti anglosassoni della pace di Versaglia, i Wilson ed i Lloyd George, farà sempre d’uopo rileggere le pagine di Keynes, parimenti chi voglia rimirare in carne ed ossa Malthus deve ricorrere ad uno dei saggi biografici di Keynes. Biografo, egli scrive in un inglese stupendo ed il suo occhio penetra in profondità. Chi ricorda l’atroce brano malthusiano nella seconda edizione del saggio sulla popolazione intorno agli ultimi arrivati al festino della natura, i quali sono cacciati via dalla signora del mondo nelle tenebre della fame e della morte, è subito sorpreso ed affascinato nello scorrere le pagine di Keynes. Malthus non era crudele, non era gelido, non era un frigido calcolatore di bocche e di sussistenze. Il vero Malthus era un uomo mite, buon padre di famiglia, caritatevole, profondamente dedito ai proprii doveri di ministro della religione e di guardiano e difensore dei poveri. Quelle pagine di Keynes su Malthus sono uno dei capolavori della letteratura inglese; e quando forse il mutare della moda avrà persuaso gli economisti a non rimanere più ossessionati soltanto dai problemi della propensità a risparmiare, del moltiplicatore e della moneta regolata, ancor nelle antologie si vedranno riprodotti brani delle biografie Keynesiane di Wilson, di Lloyd George e di Malthus.

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