Intorno al metodo di scrivere storie dei fatti economici
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1942
Intorno al metodo di scrivere storie dei fatti economici
«Rivista di storia economica», VII, n. 1, marzo 1942, pp. 22-30
(Nota al libro di Umberto Ricci: La politica economica dell’Italia durante la grande guerra, Bari, Laterza, 1939. Un vol. in ottavo di pp. 363).
Questo libro, uscito in seconda edizione a 18 anni di distanza dalla prima, con titolo modificato (il titolo originale era: “Il fallimento della politica annonaria in Italia”), per non porre in risalto “un intento polemico che non era in me” come dice l’autore, si richiama alla vigilia di una seconda “grande guerra”, quella che oggi attraversiamo – all’utilità di “rievocare gli insegnamenti della storia” anche se “gli errori del passato, giova sperare, non si ripeteranno”. È caratteristico infatti di una scienza eminentemente pratica come la scienza economica, e pratica anche nella sua forma teorica che le è inscindibile, cercare nei passato non tanto la comprensione di questo passato, quanto l’insegnamento di errori da evitare, quasi la storia fosse veramente, in quel senso, “magistra vitae”.
In realtà la scienza economica, conforme al suo carattere teorico, anche sotto l’apparenza di problemi storici, ricerca quei “principi di applicazione universale” che sono lo scopo e l’essenza dell’indagine economica.
Il pubblico e gli studiosi devono perciò essere grati al Ricci di questa seconda edizione del suo libro che, immergendoci nei problemi annonari dell’altra guerra, nelle loro difficoltà e nelle loro soluzioni, buone o cattive che fossero, ci rende più chiari i problemi dell’oggi e, in quello che i vari problemi hanno di comune, può valere di guida.
Il titolo originale rivelava però più chiaramente dell’attuale l’origine e lo scopo del libro, poiché esso ha veramente un intento polemico e di critica acerba a tutta la politica annonaria seguita dal governo italiano durante la passata guerra ed esprime una difesa della libera iniziativa e degli scambi liberi contro l’intervento dello stato e della burocrazia per la “distribuzione dei viveri e la determinazione dei prezzi di acquisto” in tempo di guerra. Ma forse per questo stesso intento polemico pare manchi del necessario approfondimento teorico, onde i suoi ragionamenti, anche quando ne possiamo accettare la conclusione, non raggiungono una validità generale, poiché partono piuttosto da premesse politiche, che da premesse scientifiche.
Parrebbe quasi che l’autore per paura dell’accusa così spesso rivolta dai “pratici”, di essere un “teorico astratto” abbia dimenticato che in fin dei conti solo la teoria ci può dare una guida nel campo della pratica, e che i libri popolari della nostra scienza sono tali non perché da essi è assente la teoria, bensì perché in essi è contenuto un profondo germe teorico. I meriti di questo libro li troveremo piuttosto in qualche studio di problemi particolari, e nel renderci vividamente presenti i pericoli che sono sempre impliciti nell’intervento dello stato in materia economica.
L’ assunto del Ricci è semplice: dimostrare come la burocrazia sia incapace di intervenire nelle cose economiche senza provocare danni più gravi di quelli ai quali voleva porre rimedio. Per ovviare agli alti prezzi essa crea, coi calmieri e le requisizioni, due mercati: uno ai prezzi di calmiere e l’altro, nascosto, a prezzi più alti, sino a che col diminuire della produzione provocata dall’intervento burocratico, di fronte alla scarsità dei prodotti anche i prezzi di calmiere crescono più di quanto sarebbero cresciuti se la burocrazia non fosse all’inizio intervenuta, mentre la domanda per i beni surrogati (e quindi i loro prezzi) aumenta fuor di proporzione. Il tentativo di abolire gli intermediari (importatori, grossisti, ecc.), disconoscendo la loro funzione economica di veri e propri produttori e le loro capacità tecniche, porta alla creazione di un “catafalco burocratico” costosissimo ed incapace, fonte di sperperi e distruzioni che l’iniziativa privata sarebbe riuscita ad evitare. La lotta contro gli “speculatori”, ossia contro quei produttori che esercitano “il mestiere del rischio”, dimenticando che i loro guadagni sono una conseguenza e non la causa degli alti prezzi, induce la burocrazia, che il bilancio dello stato nella sua anonimità difende contro i rischi commerciali, ad acquistare spesso a prezzi più alti del necessario, sopratutto quando non si tratti di materie prime agricole, ed a vendere a prezzi alti anche quando in un mercato libero essi dovrebbero ribassare. Al costo finanziario ed al danno sociale di una simile situazione si aggiunge infine qualcosa di più grave e di più doloroso, poiché “i fenomeni dell’ingerenza economica e della corruzione sono interdipendenti” (p. 346).
“Mentre lo stato perseguitava i commercianti genuini con una feroce legislazione di guerra, promuoveva indirettamente la nascita di una orribile genia di imbroglioni e trafficanti. Costoro, insinuandosi nei ministeri, sfruttando amicizie, pagando e promettendo compensi di vario genere, procuravano commesse di stato ai fornitori, strappavano licenze di importazioni e di esportazioni, facevano vendere le merci governative a prezzi ribassati, o si arrabattavano ad allargare a prò di pochi le maglie di quel fitto tessuto di leggi decreti ordinanze circolari ecc.” (p. 337).
Né gli organi dello stato e dei comuni “sempre hanno dato prova di civismo, anzi hanno talora fatto rimpiangere i vampiri del commercio”, mentre, nei casi migliori, “si spiega che la corruzione trovi la strada facile tra impiegati miseri circuiti da persone facoltose, le quali chiedono cose apparentemente innocue, come una piccola formalità burocratica da saltar via. Tante volte il favore non sembra favore” (p. 338). Il risultato è che la gestione annonaria diventa il regno di quei “parassiti della produzione, pullulati durante la guerra: intermediari, sollecitatori, avvocati”, il cui interesse personale, contrastante con l’interesse generale, è “che la legislazione diventi sempre più arruffata” (p. 318).
Sono cose vere, documentate ed espresse con una critica serrata che non lascia dubbi e fa stringere il cuore al pensiero di tanto spreco mentre la fame era alle porte, di un costo così ingente che aggravava lo sforzo finanziario già immane, e della turpitudine morale che è il retaggio di una burocrazia corrotta.
Bisogna leggere il bel libro del Ricci per vedere sino a qual punto si sia spinta l’assurdità di una legislazione improvvisata, giunta coi divieti interni di esportazione a frantumare la conquista più salda dei tempi moderni, lo stato unitario, rinfocolando gelosie municipali e regionali. “I divieti di esportazione da provincia a provincia di colpo ci hanno trasportato nel medioevo. Succede di molte disposizioni escogitate dai governi durante la guerra, che sembrano al pubblico nuove e fiammanti e sono vecchie tarlate e abbattute: rimesse in piedi non si reggono se non a stento e cagionando guai” (p. 11). Né la burocrazia è stata capace di vedere l’assurdità di quei divieti interni per cui il principio stesso del razionamento “attuato allo scopo di parificare, in tema di commestibili, la nazione italiana ad una sola famiglia, ove sparisse la distinzione fra ricchi e poveri e tutti potessero trovare sul desco una porzione piccola, ma pressapoco uguale, delle più essenziali vivande” viene contrastata dai divieti di esportazione fra provincia e provincia “ispirati al criterio diametralmente opposto di innalzare barriere e contendere al vicino i prodotti della propria zona ” (p. 42).
Sin qui non si può non convenire col Ricci, poi che queste sono verità che la scienza economica ha dimostrato sin dai suoi inizi. Eppure si esce dalla lettura di questo libro con un senso di incertezza, appunto perché l’autore è stato trasportato dalla propria posizione polemica e dalla propria critica, pur così convincente, a voler dimostrare troppo. Verso la fine del libro pare che se ne accorga egli stesso, e pone sulle labbra di un ipotetico lettore la domanda: Che cosa avreste fatto? ” Sareste forse per la libertà assoluta anche in tempo di guerra?”. A cui risponde: “Chi ha letto con attenzione deve aver capito che gli economisti non reclamano la libertà assoluta” (p. 313).
In realtà l’autore non ha tenuto distinto due dimostrazioni che sono solo in apparenza simili: l’una che riguarda i pregi del libero scambio e della libera iniziativa nei confronti dell’ingerenza dello stato nelle cose economiche, l’altra relativa al modo con cui deve condursi la ingerenza dello stato, e quindi la critica ad un eventuale metodo errato, nelle occasioni e nelle sfere in cui tale ingerenza sia stata dimostrata necessaria. Sono due cose ben diverse e non vale rievocare le virtù della libera iniziativa a provvedere agli elementi essenziali per la vita e rinnovare le critiche alla burocrazia (come se molte imprese private non fossero terribilmente burocratiche anch’esse e corrotte), se non si dà la dimostrazione che in tempo di guerra la libera iniziativa avrebbe evitato prezzi altissimi per i prodotti più necessari, e la fame per gli strati più poveri della popolazione meglio di quanto non sia riuscita a farlo la burocrazia con le requisizioni, i calmieri ed i tesseramenti.
Se questa dimostrazione non è compiuta, è un errore logico opporre alle malefatte della burocrazia i vantaggi generici della libera iniziativa, mentre poi in realtà ci si limita a criticare una “data” forma di organizzazione burocratica per proporre un’”altra” forma di organizzazione, burocratica anch’essa ma più svelta e competente. Le peggiori forme burocratiche negli esempi che questo libro ci dà, gli errori e gli assurdi economici più gravi si ritrovano nell’amministrazione dell’esercito (sopratutto nei riguardi dei viveri), per le requisizioni arbitrarie e a casaccio e gli sprechi che ne derivarono. Ma con questo non si è dimostrata la necessità di abolire l’intendenza degli eserciti, sì d’organizzarla meglio: esistono eserciti rapidi e bene organizzati che vincono le guerre e, nonostante tutto, nel 1918 l’Italia vinse la guerra. Sarebbe stato prezzo dell’opera indagare se alla vittoria non abbia contribuito, dopo la crisi dell’autunno del 1917, una migliore organizzazione dei servizi di approvvigionamento dell’esercito. Sono cose che il Ricci naturalmente vede e anche dice qua e là, ma come a malincuore e di sfuggita. L’intiero capitolo quinto vorrebbe invece dimostrare come “il razionamento incita la nazione a un maggior consumo delle merci razionate e dei surrogati loro” e come “per talune merci il consumo “effettivamente” si accrebbe” (p.20). Sarà vero? Questa dimostrazione è tentata sopratutto per il frumento, ma l’autore stesso non ne pare troppo convinto se ammette che le cause di questo accrescimento del consumo “non sono certo tutte imputabili al sistema razionatorio”, mentre le statistiche che egli stesso porta ci danno un consumo medio di 58,3 milioni di quintali nel 1910-15, a cui stanno di fronte 61,6 nel 1915-16, 60,2 nel 1916-17 e 52,3 nel 1917-18.
Come si sarebbero distribuiti in mancanza del tesseramento quei 52 milioni di quintali del 1917-18, una volta detratta da essi la quantità notevolissima necessaria all’esercito, il Ricci stesso ce lo può dire: un enorme aumento del prezzo del pane e della pasta, l’uso abbondante di quei generi di prima necessità da parte dei ricchi, la fame per i poveri. Nelle statistiche portate dal Ricci, come si vede d’altronde anche dai dati sopra riportati, il consumo medio del quinquennio 1915-20 è superiore al consumo medio del 1910-15, ma in esso viene incluso da un lato anche il periodo immediato del dopo guerra, in cui è naturale che i consumi aumentassero rapidamente ora che gli oceani erano aperti ai traffici, e si faceva sentire la tendenza all’aumento nei consumi sempre presente in un popolo che progredisce materialmente; mentre per gli anni della guerra bisogna tenere presente l’enorme consumo dell’esercito. Erano gli anni gravi dal ’16 al ’18 che bisognava prendere in esame per studiare la politica annonaria, perché per essi, e non per i tempi normali, è stato appunto introdotto il tesseramento.
Che di per sé il razionamento sia causa di sprechi e anche, talvolta, di consumo eccessivo è certo; non è data però la dimostrazione che questo sia un fattore essenziale in confronto ad altre cause ben più rilevanti: il consumo dell’esercito e l’aumento di ricchezze che la guerra ha portato in alcuni strati della popolazione – nei riguardi di questi consumi elementari entrano nel calcolo gli alti salari degli operai specializzati ed il maggiore consumo dei contadini arricchiti per varie vie -; mentre l’aumenta di consumo in alcuni generi alimentari è spesso solo un compenso per altri che sono venuti a mancare. Anche se non si vuole negare la possibilità che il tesseramento, se applicato male o fuori proposito, induca ad aumenti di consumo (come pare sia avvenuto nella scorsa guerra per lo zucchero), per il timore che ognuno ha di “perdere” la propria razione, si può pure pensare che se non ci fosse stato il tesseramento la domanda per alcuni generi succedanei di consumo, e quindi i loro prezzi, sarebbero cresciuti molto di più di quanto non lo siano stati in realtà. Nello stesso modo non si può attribuire esclusivamente all’intervento governativo la diminuita esportazione, o l’aumentata importazione, dei latticini, quando il Ricci ci dimostra che il patrimonio zootecnico della nazione era diminuito ancora più di quanto le statistiche non lasciassero apparire.
In realtà a leggere questo libro si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un capitolo isolato e si vorrebbe concatenare questo, essenzialmente critico, con gli altri capitoli, che si vorrebbe leggere, del libro compiuto.
Se si ammette che il governa doveva “fare” qualche cosa (vedi p. 233), ma si critica il “modo” con cui fu fatto, perché non partire da questa premessa e dimostrare chiaramente dove e come il governo doveva intervenire? Hanno poco scopo, a questo riguardo, l’elogio della libera iniziativa, che può essere ottima in altri tempi, con cui il libro si apre, e l’elenco dei danni morali e materiali che il tesseramento comporta, arbitrario ed ingiusto come esso è necessariamente.
Durante una guerra i prezzi dei generi alimentari, poiché di questi sopratutto si tratta, salgono per una “cresciuta domanda”, – spesso inflazionistica, ed abbiamo qui un ulteriore elemento di cui il Ricci però non tratta che di sfuggita, – sopratutto da parte dello stato onde provvedere ai bisogni dell’esercito superiori sempre, almeno nei paesi a basso tenore di vita, ai consumi dei singoli soldati in tempo di pace, e per una “diminuzione della produzione” (o delle importazioni) dovuta al fatto stesso della guerra – si pensi solo al richiamo alle armi di milioni di lavoratori agricoli e non attribuibile sin dall’inizio ad errata politica governativa, che alla peggio solo aggrava la situazione. È assurdo indagare la politica economica di un paese in guerra se non si tiene conto fondamentale di questi due elementi, che sono poi quelli che inducono la burocrazia ad intervenire, con tutti i danni che questo intervento comporta.
Non bisogna attribuire alla burocrazia un anima peggiore di quello che esso ha, e credere che per il solo fatto della guerra, e senz’altro motivo, essa si decida “ipso facto” ad intervenire nelle cose economiche. In realtà una critica accurata della politica annonaria durante la grande guerra 1914-18 rivelerebbe proprio il contrario: che il difetto di questa politica è stato proprio di intervenire “troppo tardi” a guerra avanzata, quando già le scorte erano esaurite, invece di provvedere fin dall’inizio, e di intervenire “senza un piano organico a lunga scadenza”, preparato in precedenza. La burocrazia avrebbe così peccato essenzialmente di ottimismo ingiustificato e di impreparazione. Passano così in seconda linea i difetti, che il Ricci vede acutamente, ma che sono meno importanti di fronte a questi fondamentali di non essersi cioè affidati, per la parte esecutiva, che troppo raramente a persone competenti e capaci, invece che a giornalisti ed avvocati improvvisati, e di essere intervenuti troppo spesso anche in materie che si potevano lasciare alla libera iniziativa, per quanto è dubbio come questa avrebbe funzionato in pratica nella situazione psicologica creata dalla guerra, elemento di grande importanza mentre la presenza dell’esercito come acquirente in massa cambiava fondamentalmente i termini del libero scambio.
Vi è in realtà un ulteriore elemento fondamentale, ed il Ricci lo indaga e ne vede i pericoli, per quanto si desidererebbe lo avesse svolto in modo più ampio, che basterebbe da solo a far parlare di “fallimento” per una politica annonaria che lo trascuri: “l’interdipendenza di tutti i prezzi tra di loro”. Lo studio della reazione reciproca dei prezzi in un regime di produzione privata sta al centro della teoria economica, ma è troppo spesso ignorato o trattato del tutto ad arbitrio dalla burocrazia di una gestione annonaria. E tutta la politica economica degli anni 1914-18 ha mirato per ragioni politiche a tenere i prezzi dei prodotti agricoli estremamente bassi, per “punire” i contadini “esosi”, scoraggiando la produzione, mentre più sarebbe stato necessario incitarla.
Ché si possono, durante le guerre, arrestare i grossisti che pagano le uova a un prezzo maggiore di quello dei calmieri, per rivenderle naturalmente a prezzi più alti ancora, e vengono così chiamati “ingordi” speculatori, si potrà anche avere in questo modo per un momento “l’illusione dell’abbondanza” (p. 23), ma alla fine si vedrà che le massaie rurali finiranno per non portare più uova sul mercato. Infiniti sono gli esempi, tra il 1914 ed il ’18, che il Ricci ci porta dell’assurdo economico e morale di interventi arbitrari, con danno così dei produttori come dei consumatori, e di prezzi fissati a capriccio, arricchendo i meno meritevoli ed impoverendo risparmiatori e lavoratori.
Per intendere pienamente la situazione economica della passata “grande guerra” non dobbiamo però dimenticare che per far fronte alle necessità dell’esercito non si conosceva allora che il metodo primitivo delle requisizioni, retaggio di guerre brevi e di eserciti piccoli. Così anche per questo riguardo la mancanza di preparazione si rivela caratteristica di tutta la politica annonaria fra il 1914 ed il ’18. Che poi, anche in un piano organico e preparato in precedenza, molto si dovesse lasciare alla libera iniziativa dei cittadini invece di procedere ad una burocratizzazione quasi assoluta, è dimostrazione in cui il Ricci riesce perfettamente convincente, sopratutto per i consorzi, che ricordano le vecchie “compagnie” coloniali, i cui guadagni sono sicuri ed ingenti, poi che “i due prezzi”, di acquisto e di vendita, sono fissati dal consorzio stesso. Ma sa d’ironia il tema continuo di “lasciare agire il prezzo libero”, proprio quando si afferma nel tempo stesso che “il prezzo libero raggiunge tuttavia l’equilibrio scartando le schiere dei consumatori che non arrivano a pagare il prezzo di equilibrio” (p. 83). È appunto il sorgere delle “quasi rendite”, create dal formarsi di una nuova curva di domanda, di fronte ad una offerta diventata inelastica, che lo stato circa di impedire col suo intervento, permettendo così una diversa distribuzione dei beni, che includa anche “le schiere dei consumatori” che altrimenti verrebbero “scartate”.
Certo “le gerarchie tra ricchi e poveri in parte sono restate, a dispetto delle leggi che volevano abolirle, in parte sono state soppiantate da altre gerarchie” create in gran parte dal “favoritismo politico” e, cosa peggiore di tutte, tali da incitare alla corruzione, sopratutto quando chi ha il controllo dell’annona, e quindi la cura della cosa pubblica, vi ha pure un interesse personale diretto. Resta a vedere però, con tutti questi difetti evitabili o inevitabili (la corruzione è un fattore morale e può esservi anche dove la concorrenza è libera), come le cose sarebbero andate senza l’intervento dello stato. È compito della scienza economica, e non della sola teoria, procedere alla determinazione delle premesse necessarie per questa indagine e non limitarsi a dire, come fa il Ricci capovolgendo un ragionamento popolare, che “essendosi abolito il commerciante privato non si può dimostrare che egli, lasciato libero o più libero, si sarebbe mostrato impari al compito” (p. 148). In realtà, per giudicare questo libro, pur così meritevole sotto vari aspetti, bisogna richiamarsi a quella “demagogia alla rovescia”, così frequente nell’immediato dopo guerra, che tendeva ad accusare il governo di allora, non solo delle proprie colpe, ma anche di tante altre del tutto immaginarie, e di tutte le difficoltà inerenti alla situazione stessa della guerra e del dopo guerra.
Troppi economisti hanno dimenticato allora di essere “competenti in tema di politica dei prezzi”, come dice il Ricci, ossia competenti in tema della interrelazione dei prezzi tra di loro, per partire dalla premessa, del tutto arbitraria ed extra-scientifica, che l’interesse nazionale e l’interesse individuale coincidono, mentre, per citare il solo Wicksell, e non un qualche “eretico” dell’economia, è “ugualmente frequente, ed anche più frequente, che un interesse economico sia in conflitto con l’altro”.
Confondere l’ottimismo politico, per cui l’individuo “spinto dal suo egoismo, compie un’opera che benefica la società” (p. 17), come dice il Ricci, coi precetti della nostra scienza è totalmente errato ed ha per risultato di porre su basi meno sicure e meno precise anche quella che è forse la legge fondamentale della scienza economica: l’interrelazione dei prezzi, per cui se se ne modifica uno tutti gli altri ne subiscono il riverbero. L’intervento dello stato, anche in un ramo solo della produzione, provoca profonde ed prevedibili reazioni in tutti gli altri rami della produzione e del consumo: questo gli economisti non ripeteranno mai abbastanza ad una burocrazia che così facilmente dimentica, o forse ha sempre ignorate, le leggi più fondamentali ed elementari della produzione e degli scambi.
Mario Lamberti
Se la nota del Lamberti non pone un problema di storia, sì di metodo nella impostazione scientifica delle questioni di politica economica, il titolo di essa, che non fu apposto da lui, ma aggiunto da me, pone altri quesiti e questi d’indole storica. Entro che limiti si può muovere rimprovero alla burocrazia italiana per gli inconvenienti, lievi e gravi, derivati dalla politica economica seguita nel 1914-1918? Non converrebbe distinguere fra burocrazia vecchia, preesistente al 1914, e burocrazia nuova, scelta a bella posta per sopravegliare a quella politica? Ebbe maggior peso in proposito la vecchia o la nuova burocrazia? Da quali ceti sociali, con quale processo fu scelta la nuova burocrazia? I nuovi burocrati erano competenti, ossia periti in quegli speciali rami di banca o commercio o industria od agricoltura, al cui controllo o direzione furono preposti; ovvero incompetenti, ossia generici? Tra gli incompetenti, prevalevano i veri incompetenti, i quali cercavano solo modo di imboscarsi e non avevano attitudine né a quella né ad altra branca della burocrazia od i politici, intendendo per “politici” coloro, i quali in grado minore o maggiore hanno l’attitudine a vedere l’aspetto “pubblico” dei problemi economici, che essi sono chiamati a risolvere? Trascegliendo, tra i tecnici competenti ed i generici incompetenti quelli che erano dotati delle qualità del tecnico di vaglia e del politico di razza, quale delle due schiere fece migliore prova? ed in quale situazione fece quella miglior prova?
Poiché non può dubitarsi che il clamore di corruzione elevatosi negli anni tra il 1914 ed il 1918 contro la burocrazia aveva fondamento non piccolo di verità, chi esso toccava in modo particolare e pertinente? La burocrazia vecchia o la nuova? i tecnici od i generici, e, tra essi, la razzamaglia degli imboscati od i capi, i quali emersero dalla folla? Ho in mente tre di questi capi: un tecnico valoroso, il quale procacciò, senza riscuotere stipendio, vantaggio di decine di milioni al pubblico erario e rifiutò una percentuale di qualche milione che legalmente gli spettava; ma nessuno gliene seppe grado o se ne ricordò, quando venne l’ora della persecuzione; un politico, il più autoritario ed insofferente di vincoli e controlli fra quanti in quel tempo furono dittatori dell’economia italiana e poi tornò nell’oscurità e vive, in modestia, del suo stipendio di magistrato; ed un generale, il quale maneggiò miliardi e per altri vent’anni presiedette con fama illibata, tra il consenso dei vecchi e dei nuovi governanti, alla più importante tra le amministrazioni militari. Quanti appartennero alla schiera di codesti uomini valenti e probi e quanti a quella dei corrotti? E quale la influenza di esse? Oltrecché nelle pubbliche amministrazioni, si ebbe notizia di corruzione anche nelle private imprese? Esiste qualche differenza tra le due specie di corruzione? Chi pagò nei due casi? La corruzione di cui si ha notizia, per quel tempo, nelle private imprese fu estesa a tutti i campi, ovvero predilesse le imprese le quali avevano rapporti di forniture con lo stato o godevano di privilegi eccezionali, su cui poteva essere prelevata taglia? Nei casi, nei quali si verificava, almeno approssimativamente, la ipotesi di concorrenza piena, esisteva corruzione e quali erano i suoi limiti e chi ne pagava le spese?
Poiché la politica economica fu affidata in parte alle branche ordinarie della pubblica amministrazione ed in parte ad enti o consorzi creati appositamente, quale delle due maniere ebbe maggior successo o combinò un numero di guai maggiore? Di che genere furono i guai rispettivi? Ad esempio, le commesse all’industria date direttamente dall’amministrazione delle armi e munizioni o per mezzo di consorzi quale influenza esercitarono sul tipo dell’impresa? Corrisponde a realtà l’impressione che le commesse abbiano in generale favorito il sorgere di piccole o medie imprese e che l’azione dei consorzi abbia rafforzato invece industriali e commercianti già in pianta?
La burocrazia, definita in una qualche maniera, era la ideatrice o la esecutrice della politica economica? Se la ideazione spettava alla classe politica, come era questa composta? Era questa o credeva di essere il portavoce della pubblica opinione? Come si manifestava questa? Chi erano i giornalisti, come si reclutavano e di chi erano le idee che essi mettevano in carta? Quali le organizzazioni politiche, economiche e sociali alle quali sarebbe spettato collaborare al piano economico di guerra? Come si attuò la collaborazione? Quali furono i piani finanziari di condotta della guerra? La connessione fra il piano economico di restrizione delle industrie dei consumi ed il piano finanziario di corrispondente aumento del prelievo tributario era stata veduta nel 1914-1918? Era preparata l’opinione pubblica a quella riduzione dei redditi e dei consumi che si vide poi dover raggiungere almeno il 50 per cento, il che voleva dire almeno il 20 per i più poveri ed il 95 per cento per più ricchi? Od invece la richiesta di prezzi massimi per i prodotti agricoli e di calmieri in genere non aveva a fondamento la convinzione generalizzata che la vita dovesse seguitare ad essere in tempo di guerra quella che era in tempo di pace e che le imposte dovessero al più essere aumentate di quel che occorreva per fare il servizio dei prestiti di guerra? Se sì, come era immaginabile un piano organico di politica economica e come sarebbe stato possibile sottrarsi all’empirismo di disordinati calmieri ed alla inflazione monetaria? è possibile, date queste premesse, un confronto fra le sofferenze ed i disordini sociali che furono la conseguenza della inevitabile inflazione monetaria e le sofferenze ed i disordini che si sarebbero avuti se lo stato avesse ristretto la sua ingerenza al pane, alle paste alimentari ed alla polenta, lasciando pel resto i prezzi muoversi liberamente? Alla più parte di queste domande temo sia impresa difficile oramai dar risposta; come sperimentai io stesso quando scrissi su “La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana” (Bari, Laterza, 1933). Ma non sarebbe forse impossibile, prima che i ricordi del passato siano dispersi dal tempo, cumulare testimonianze le quali potranno giovare allo storico avvenire per dare un giudizio su quel tempo fortunoso e fecondo della nostra storia.