Imposta o tassa giudiziaria ?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1937
Imposta o tassa giudiziaria ?
«Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», 1937, 4, 1937, pp. 359-362
1. Ho rinunciato a sapere che cosa imponga la signora «giustizia» nelle faccende tributarie; o meglio, ogni volta mi pongo la domanda, insuperabili difficoltà mi vietano una risposta logica. Perciò ragionerò assumendo, in via di mera ipotesi, premessa diversa da quella della consecuzione della «giustizia».
2. Se l’istituto dell’imposta non dovesse essere applicato alle spese della giustizia, quell’istituto sarebbe morto. La giustizia è invero «il» tipico servizio pubblico per il quale è stato fabbricato il concetto dell’imposta. Esso è indivisibile e consolidato. Indivisibile perché lo stato, rendendo giustizia, non reca vantaggio ai singoli, individualmente considerati, ma ai singoli come parte del tutto. In uno stato perfetto, nessuno offende il diritto altrui – parlo solo della giustizia civile; ma le considerazioni fatte valgono a fortiori per la giustizia penale – perché tutti sanno che, rapida e sicura, la sentenza del giudice interviene a ristabilire il diritto offeso.
In cosifatto stato perfetto, nessuno interroga il giudice, perché è antiveduta con certezza la risposta. Il perfetto stato di giustizia richiede un «ottimo» di spesa pubblica, la quale non potrebbe essere distribuita su litiganti non esistenti. La spesa dunque della giustizia, nell’ipotesi di stato perfetto, è «tutta» distribuita coll’imposta a carico dei contribuenti. Come le spese della difesa nazionale e della sicurezza pubblica, la spesa della giustizia è tipica di quelle che debbono essere ripartite coll’imposta su tutti, perché non si conosce chi ne sia avvantaggiato in modo particolare e in quale misura. Il servizio della giustizia è consolidato.
Nello stato perfetto, dove è ignota l’offesa al diritto altrui, il cittadino non sente alcuno stimolo a chiedere il servizio della giustizia ed a pagarne il conto. Chi chiede e paga il bene che già gode, e gode così compiutamente da non avere alcuna sensazione di privazione rispetto ad esso? Se lo stato perfetto dovesse costruire l’apparato di giustizia sul fondamento della richiesta da parte dei cittadini, esso non riscuoterebbe nulla e, per mancanza di mezzi, da stato perfetto si risolverebbe in stato anarchico, sicché i buoni cadrebbero in balia dei cattivi.
La tassa giudiziaria, ossia il pagamento individuo richiesto al litigante, non ha dunque fondamento logico. Essa suppone l’offesa al diritto, e suppone perciò che lo stato non abbia adempiuto all’ufficio suo primissimo, che è di creare organi di giustizia così sicuri, dettare norme di leggi così perspicue da rendere vano persino il pensiero di offendere il diritto altrui.
3. Nello stato perfetto il concetto di tassa giudiziaria non è dunque pensabile. È pensabile solo il concetto dell’imposta; ed è pensabile sotto la specie di quello dell’imposta in generale. Non esiste un problema di tipo o struttura dell’imposta per i servizi giudiziari diversa da quella occorrente per la difesa nazionale o per qualunque altro servizio statale propriamente detto. Esiste solo il problema generale del più o meno di imposta per il più o meno di complessiva spesa pubblica, con evidenti ripercussioni anche sul tipo e sulla struttura del sistema tributario.
4. L’esistenza di litiganti non toglie valore al ragionamento impostato sull’ipotesi dello stato perfetto, anzi lo cresce. Il litigio è indice di una situazione la quale più o meno si allontana dallo stato perfetto ideale. Esistono litiganti perché la parola della legge non è mai stata e non sarà mai in tutto chiara, perché dottrina e giurisprudenza sono incerte, perché i giudici, essendo uomini, sono fallibili. Anche nell’ipotesi della manchevole approssimazione allo stato perfetto, i non litiganti traggono tuttavia il massimo vantaggio dall’esistenza di un apparato costoso di giustizia; perché il loro diritto non è stato offeso, ed essi sono dallo stato di giustizia messi in grado di godere pacificamente dei frutti del loro lavoro e del loro patrimonio.
Di qui l’esigenza logica che il costo della giustizia sia «interamente» sopportato dal fondo delle imposte, senza nessuna aggiunta di tasse giudiziarie a carico dei litiganti. Al litigante non è logico far pagare qualcosa (tassa, in qualunque modo congegnata, di bollo o registro od altra) in aggiunta alle imposte che egli già pagò, come cittadino, per mettere in grado lo stato di esercitare l’ufficio suo.
Non è logico far pagare alcunché a chi vinse la causa; anzi, in teoria pura, lo stato dovrebbe rimborsargli le spese di patronato e le perdite subite in conseguenza del tentativo altrui di ledere la giustizia a suo danno, tentativo che non sarebbe neppure iniziato se l’ideale dello stato perfetto fosse attuato; ipotesi per noi necessaria, non essendo possibile ragionare partendo dalla premessa contraria, che lo stato non adempia all’ufficio suo.
Non è logico d’altra parte far pagare qualcosa al perdente; perché l’inizio della causa dipese, per ipotesi, dalla imperfezione dell’ordinamento giuridico la quale lo indusse in errore nella interpretazione del contenuto di un dato rapporto giuridico. Non si può argomentare dal fatto del ristabilimento della giustizia a favore dell’offeso alla ragionevolezza di un pagamento di tassa a carico di chi ottenne il vantaggio particolare del ristabilimento del diritto offeso od a quella di una multa a chi volle recare l’offesa. Il vantaggio particolare per il primo si riduce invero ad un minor danno subito in confronto di quel maggiore che l’offensore avrebbe voluto recare; né la multa può imporsi a chi non volle in mala fede offendere.
5. L’analisi ora fatta scopre così il luogo razionale del solo pagamento particolare immaginabile in materia di giustizia. La tassa giudiziaria, la quale perciò dovrebbe chiamarsi ammenda o multa, è razionalmente spiegabile nei soli casi e in quella misura in cui essa possa essere considerata punizione per chi temerariamente adì il giudice e, consapevole del suo torto, lo costrinse a procedure defatiganti ed a spese vane. Il giudice, caso per caso, dovrebbe essere chiamato, oltrecché a ristabilire il diritto a favore dell’offeso, ed a definire le spese ed i danni che a lui debbono essere rimborsati, altresì a statuire sull’ammontare dovuto all’erario dello stato per indennizzarlo delle spese alle quali vanamente la maestà della giustizia fu soggetta per la mala fede, la temerarietà, e la litigiosità del litigante.
L’indagine pratica del cultore del diritto processuale più che di quello del diritto tributario dovrebbe essere indirizzata a cercare criteri utili a guidare il giudice nel compito invidioso di valutare codesti elementi imponderabili di mala fede temerarietà e litigiosità. Giovano, a costruire un sistema di multe giudiziarie, più i criteri del penalista che del finanziere; trattandosi, più che di procacciare entrata al fisco, di creare una controspinta al malfare litigioso.
L’entrata non dovendo mai superare il limite segnato dalle spese eccezionali imputabili al litigante malvagio temerario e litigioso, e la controspinta dovendo essere efficace a scemare quella litigiosità, la multa dovrebbe essere eccezionale per frequenza e vistosa per ammontare.
6. Ben diverso, sento esclamare, è l’ordinamento invalso delle tasse giudiziarie; e la dottrina deve, come egregiamente fanno Carnelutti e Griziotti, attendere a perfezionare questo e non a costruir nelle nuvole. Se il legislatore parte dalla premessa che i litiganti, e non i contribuenti, debbano sopportare tutto e solo il costo del servizio, fa d’uopo ragionare su questa premessa e non sull’altra, ben diversa, dedotta dall’archetipo dello stato perfetto, che il costo della giustizia debba essere tutto sopportato dai contribuenti.
Lo studioso dovrebbe cioè rispondere al quesito: poiché la meta posta dall’esperienza legislativa è scoprire la regola per distribuire correttamente tra i litiganti tutte e solo le spese del giudizio, quali i metodi meglio atti a far toccare la meta? La ricerca mi tenterà quando gli egregi amici, i quali pongono il quesito, ne avranno chiarito il fondamento logico. È bensì logico trarre le conseguenze logiche di una premessa non provata ed anche di una premessa giudicata erronea dal ragionatore; ma si ha, così ragionando, l’impressione di dar opera ad una mera esercitazione, utilissima a scopi scolastici, noiosissima a fini di studio.
Chi non crede in una premessa, è meglio non ne ragioni e l’abbandoni tutta alle ricerche, indubbiamente più feconde del credente. Spetta al credente nella verità della tesi che la spesa della giustizia debba gravare sui litiganti dimostrare che essa è non soltanto conforme all’esperienza storica, ma altresì razionale.