Impianti da ricostruire ed impianti da smantellare
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/06/1944
Impianti da ricostruire ed impianti da smantellare
«L’Italia e il secondo Risorgimento», 3 giugno 1944
Perché si debba fare il salto dal vincolismo, dai privilegi, dai dazi, dalle proibizioni di nuovi impianti non autorizzati, da un sinedrio di dotti menati per il naso dagli interessati a non dare il permesso, al clima di libertà e di iniziativa, fu dimostrato altra volta. Ora o non più, perché se ancora una volta consentiamo che i vincoli permangano, col pretesto della transizione provvisoria, non ce li toglieremo mai più di dosso.
Giovanni Stuart Mill, il più celebre degli economisti espositori della teoria della protezione provvisoria alle industrie giovani bisognose di fare le ossa contro le industrie straniere vecchie, forti, ad impianti ammortizzati, serenamente confessò, in lettere altrettanto famose come il suo trattato, che egli aveva errato nell’accettare ed esporre quella teoria. Da che mondo è mondo, nessuna industria mai divenne, da bambina, adulta; nessuna rinunciò mai alla protezione provvisoria; tutte pretesero di bamboleggiare sempre più e di aver bisogno di una protezione ognor più grande.
Ed è evidente che così deve essere. L’industria non è un fatto; bensì un concetto astratto. Quel che esiste in realtà sono le singole imprese, le aziende tale e tale, del signor Tizio o del signor Sempronio, della società anonima alfa o della società anonima beta. Ben può darsi che l’impresa del signor Tizio si sia fatta adulta, che abbia fatto le ossa e sia perciò pienamente in grado di fare a pugni con il concorrente estero e di batterlo sui prezzi e sulla qualità.
Ma, accanto a lui e dopo, sono sorte le imprese del signor Sempronio e quelle delle società alfa e beta. Queste, specialmente le ultime, sono ancor giovani, anzi l’ultima è appena nata. Hanno i conti di costo in perfetto ordine e, rammostrandoli alle commissioni di periti, dimostrano all’evidenza come qualmente il vecchio dazio di dieci non basta, che non solo non bisogna abolirlo e nemmeno diminuirlo, ma importa crescerlo.
Esse, le poverette, sono venute dopo quando le buone località ed i buoni ingegneri ed i buoni operai e le forze d’acqua comode erano già stati accaparrati dai primi venuti, da Tizio e un po’ anche da Sempronio; e ad esse è convenuto rassegnarsi ad utilizzare i resti delle risorse esistenti in paese ed a lavorare a costi alti. Dopo ché esse, le alfa e le beta, si sono impiantate, fidandosi della protezione e dei vincoli stabiliti nelle leggi, il Parlamento non vorrà mica ammazzarle, abolendo dazi e vincoli! Tizio e Sempronio stanno alla larga e non fiatano; non rammostrano conti o, tutt’al più, litigano con il procuratore all’imposta di ricchezza mobile per dimostrare che i loro profitti non sono così colossali come egli pretende.
Essi, i primi e più forti, mandano in avanscoperta le alfa e le beta e qualche altro male arrivato collega, i quali patiscono protezione per compensare le perdite.
Che sono probabilmente vere; perché, bisogna insistere, l’industria è un concetto astratto e in realtà vi sono imprese che guadagnano ed altre che perdono. Ma quando si tratta di chiedere dazi, si fanno avanti solo coloro i quali perdono e chiedono aumenti di dazi a favore dell’industria in genere, ossia in favore di un concetto astratto, il quale copre la realtà concreta dei molti che guadagnano e dei molti o pochi che perdono.
Il Parlamento non può stabilire dazi alla frontiera solo contro le merci estere che farebbero concorrenza ai prodotti delle società anonime alfa e beta e non contro quelle, identiche, che farebbero concorrenza a Tizio o Sempronio; ché la cosa non avrebbe senso e sarebbe di impossibile applicazione.
No; il Parlamento, impietosito dai malanni delle bambinelle alfa e beta, aumenta i dazi in generale per tutte le merci che fanno concorrenza alle imprese che nel vocabolario della lingua italiana appartengono al genere astrattamente indicato col nome di quella tale industria; e così la protezione si perpetua e si inasprisce ognor più. Dal 1861 al 1919, a tacere dei nefasti autarchici del ventennio scorso, che altro mai si vide in Italia se non inasprimenti di dazi e moltiplicazioni di voci doganali?
Dunque, poiché il salto si deve fare, lo si faccia subito. Era questo l’insegnamento di Camillo di Cavour, il solo grande uomo di Stato del secolo scorso che conoscesse sul serio la economia politica, non solo per averla studiata sui maggiori testi del tempo, ma per averne praticata l’arte, come agricoltore progressista, come commerciante di concimi, che egli importava, col nome di guano, dal Perù, come progettista e promotore di ferrovie, come fondatore di banche, che trasformate e fuse con altre divennero poi la odierna Banca d’Italia.
A lui era vano andassero a raccontar frottole ed a piatire aiuti statali agricoltori ed industriali. A quell’agricoltore, il quale chiedeva protezione per il grano, rispondeva naturalmente con altre parole un po’ più cortesi: «chiel e l’è ‘n fabioc; mi ‘l gran peuss vendlo a 17 lire l’ sac senssa perde e guadagnando quaicoosa». Lei è un bel minchione. Io, il frumento lo posso vendere, senza perdere e guadagnando qualcosa, a 17 lire il sacco (che sarebbe all’incirca 19 lire il quintale).
Oggi, Cavour, a chi gli chiedesse dazi sul frumento, risponderebbe con ogni probabilità: «Caro signore, cento anni fa, io, a Leri in Piemonte, in una tenuta che in origine faceva perdere denari a mio padre ed ai miei, ero riuscito a produrre il grano con profitto a 19 lire al quintale. Se oggi, con tanto progresso tecnico, con macchine che non immaginavamo neppure, con trebbiatrici che fanno in un giorno il lavoro che a noi costava settimane di fatica improba e di rischi, con concimi, a petto di cui il mio guano del Perù, trasportato su navi noleggiate da me e dai miei amici sino a Genova, farebbe una assai povera figura, con rotazioni perfezionate, gli italiani non sono in grado di produrre il frumento a 12 lire il quintale, s’intenda 12 lire di quelle vecchie del buon tempo mio in cui si negoziava in moneta buona, dovrei dire che i miei italiani sono dei bei minchioni, almeno come agricoltori.
Ma ciò non è certamente vero. Gli italiani, che, ai tempi miei, erano alla testa del progresso agricolo nel mondo intiero con l’agricoltura irrigua della valle del Po, non sono certamente da meno oggi. Basta solo che la solita gente, che non sa distinguere nei campi il frumento dalle patate ed il granoturco dai fagiuoli, e che scribacchia sui giornali dell’impossibilità di lavorare la terra senza essere protetti contro chiunque altro la coltivi in altri paesi mai visti e perciò decantati come terre promesse, non ficchi loro in testa idee senza capo né coda sulla loro incapacità a fare qualunque cosa buona. No; gli agricoltori italiani, messi alla prova, se la caveranno da soli, senza bisogno di consigli di professori e di periti e di uomini politici».
Così, probabilmente, parlerebbe oggi quel Cavour, il quale era persuaso che le grandi audaci riforme economiche – e le riforme audaci erano per lui quelle con cui egli abolì pastoie e vincoli che impedivano agli uomini di assumere a loro totale rischio le iniziative che essi reputavano più convenienti – bisognava iniziarle e compierle nei tempi in cui le cose non correvano liscie, nei tempi di crisi nei prezzi. Quando le cose vanno bene perché mutare?
Fa d’uopo innovare e tentare quando le cose vanno male e quando si vede perché vanno male. Vanno male perché da vent’anni nessun produttore aveva in Italia tranquillità e sicurezza; nessuno poteva fare alcun calcolo sull’avvenire. Lavorare e produrre era divenuto un giocare un terno al lotto; e prosperarono solo coloro i quali avevano le carte segnate, ossia coloro i quali riuscivano, con le influenze di parte e con il denaro, a ottenere decreti e regolamenti e circolari ad essi favorevoli e li conoscevano prima degli altri. Ridoniamo tranquillità e sicurezza ai produttori.
Una legge: discussa prima pubblicamente, ma, dopo approvata, mantenuta ferma ed uguale per tutti. Tolti i vincoli, e i favori ed i privilegi per tutti. Aria libera e vada a fondo chi lavora a costi alti, ossia non è capace di lavorare o produrre roba che il pubblico non vuole. Ci saranno tempi duri da traversare. Qualche prezzo ribasserà. Ma non subito.
La fame di derrate alimentari, di macchine, di stoffe, di scarpe, di vetture automobili è tale e tanta nel mondo; le difficoltà nei trasporti rimarranno per qualche tempo così gravi; le monete saranno per noi un bel po’ ancora così svalutate e disordinate; i bisogni della ricostruzione delle tante cose ed impianti industriali e ferroviari così intensi, che non v’è davvero probabilità alcuna che l’immediato dopo guerra sia un tempo di tracollo, di crisi e di disoccupazione. Quindi, i produttori, industriali ed agricoltori hanno ogni probabilità di trovare nelle circostanze transitorie del dopo guerra quella protezione temporanea contro la concorrenza estera, alla quale essi aspirano. Non hanno bisogno di continuare a godere, in aggiunta, dell’altra protezione dei dazi, dei vincoli, dei privilegi, che, in ogni modo, l’opinione pubblica risvegliata non consentirà più a lasciar sussistere.
Ed eviteremo così anche un altro malanno: che quelle risorse, necessariamente limitate, di cui noi disporremo nel dopo guerra non saranno dedicate al rinnovamento ed alla ricostruzione degli impianti i quali non abbiano in se stessi le ragioni di vita ma le debbano chiedere ai favori governativi.
Non illudiamoci. Nella concorrenza che si avrà, nel dopo guerra, per attirare a sé quella qualunque somma di capitali freschi, stranieri e nazionali che sarà posta a nostra disposizione, chi avrà maggiore probabilità di vincere?
La impresa protetta della cosidetta industria pesante o di qualunque altra industria, ovvero la impresa la quale chiede solo alla propria attitudine a soddisfare la domanda dei consumatori le proprie ragioni di vita?
Dico che vincerà la prima; perché meglio capace dell’altra a trovare la via che conduce sino ai potenti, sino alle grandi banche ed istituzioni di credito; perché dimostrerà di avere un mercato sicuro garantito contro la concorrenza dell’estero; perché già conosciuta dalle consimili imprese straniere, abituate a venire a patti, trattando quasi da potenza a potenza, con chi dimostri di essere padrone di un bel feudo disposto ad essere messo al regime della taglia. Le altre imprese, quelle sane che non chiedono nulla a nessuno, rimarranno con le briciole della mensa.
Anche per questa ragione dobbiamo far presto e non lasciar di nuovo radicare in patria i soliti monopolisti. Altrimenti foggeremo a nostre spese (gli aumenti di prezzi conseguenti ai dazi, da cui derivano i profitti dei monopolisti, sono pagati dai consumatori) nuove catene per asservirci ai vecchi ed ai nuovi spogliatori. Ricostruire bisogna; ma bisogna anche non dar nemmeno un soldo del nostro risparmio e di quello preso a prestito all’estero per la ricostruzione degli impianti, degli stabilimenti i quali debbono unicamente la loro vita al regime di privilegio e di monopolio che aduggiava l’Italia. Smantelliamoli quegli impianti ed utilizziamo i loro resti. Se avranno affrettato questo necessario e salutare processo, potremo persino dire che i bombardamenti a qualcosa hanno servito. Orrendo a dirsi, ma purtroppo vero.