Immunità o tassazione dei titoli di debito pubblico?
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/12/1913
Immunità o tassazione dei titoli di debito pubblico?
«Corriere della Sera», 4 dicembre 1913[1]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 610-613
La questione su cui è stato battuto il ministero Barthou è una di quelle che gli studiosi chiamerebbero eleganti, ma intorno a cui sostanzialmente non si può dubitare che la ragione non stesse dalla parte del gabinetto caduto. Sfrondato da tutti i suoi elementi accessori, il problema si riduce al quesito: conviene allo stato francese, nell’atto in cui si accinge ad emettere un prestito di 1 miliardo e 300 milioni di franchi in rendita 3%, dichiararlo esente da imposta, ove vero affermare che, se l’imposta verrà, essa dovrà tassare la nuova rendita, così come ogni altro cespite di reddito?
Badisi che qui non si discorre dei titoli di debito pubblico già emessi, i quali seguiranno la sorte che in passato volle stabilire il legislatore, ma dei titoli nuovi, ancora da emettere; e badisi ancora che non si tratta dell’imposta globale sul reddito, la quale, quando in Francia sarà istituita, dovrà colpire tutto il reddito del contribuente, e quindi anche il frutto dei suoi titoli di debito pubblico, i quali siano stati riscossi e siano entrati a far parte del suo reddito complessivo. No. L’imposta, da cui il governo voleva dichiarare esenti i nuovi titoli di rendita 3% da emettere, era l’imposta sui redditi, esatta alla fonte sulle diverse specie di redditi e quindi, per ritenuta, sui titoli di debito pubblico all’atto del pagamento della cedola semestrale degli interessi. Il Dumont, ministro delle finanze, ed il Barthou volevano esentare la rendita dalle imposte del genere della nostra imposta di ricchezza mobile (categoria A). Aveva ragione il Dumont di ricordare che l’Italia, dal 1906, la Germania, l’Austria, la Spagna (per l’exterieure) e moltissimi stati usano emettere i titoli di debito pubblico con la clausola dell’immunità da qualsiasi imposta presente e futura. Avrebbe potuto aggiungere che in Italia noi abbiamo, anche ora, accanto al 3,50% netto, il 3% lordo, colpito dall’imposta del 20%, che ne riduce il frutto netto al 2,40 %.
Le ragioni o meglio la ragione la quale consiglia di esentare gli interessi dei titoli di debito pubblico dall’imposta è questa: che l’imposta non frutta nulla all’erario e danneggia il credito dello stato. È un’imposta oziosa, scritta sulla carta ad ostentationem e completamente improduttiva.
Infatti, se il governo francese emettesse il nuovo 3% al netto, con immunità da imposte, i capitalisti saprebbero di acquistare una rendita annua di tre franchi e pagherebbero il titolo, tenuto conto dei corsi attuali della rendita analoga già emessa, supponiamo, 85 franchi. Se invece lo stato emette il nuovo 3% al lordo, soggetto alla imposta imminente di ricchezza mobile, e se i capitalisti calcolano che l’imposta porterà via il 10% del reddito, essi in realtà non acquistano un reddito annuo di tre franchi, bensì uno di franchi 2,70; e quindi non potranno pagare per esso il prezzo capitale di 85 franchi, bensì solo di 85 meno il 10%, ossia di franchi 76,50. Che cosa avrà ottenuto lo stato con l’imposta? Un beI nulla. Poiché è perfettamente indifferente vendere ad 85 franchi un 3% netto ovvero a 76,50 un 3% lordo uguale ad un 2,70% netto. L’imposta è una semplice partita di giro, la quale non lascia alcuna traccia nel bilancio dello stato. Col 3% netto lo stato per un capitale di 85 lire si obbliga a pagare 3 lire all’anno di interesse; né ha il diritto di incassare alcuna imposta. Col 3% lordo lo stato, se vuole ottenere le stesse 85 lire, deve emettere tanta rendita che frutti al lordo 3,33 franchi, da cui detraendo il 10% di imposta, ossia lire 0,33, risulti il frutto netto di 3 lire. Ossia i contabili dello stato si potranno prendere il gusto di scrivere in entrata lire 0,33 a titolo di imposta sulla rendita; ma a condizione di scrivere lire 3,33 all’uscita; e di far spendere allo stato, come nell’altro caso, 3 lire nette di interesse.
Se l’imposta sulla rendita fosse solo inutile, sarebbe almeno innocua. Purtroppo essa è dannosa allo stato e vantaggiosa ai capitalisti. Invero accade che questi, timorosi del peggio, vogliono garantirsi anche contro gli aumenti di tributo, che appaiano possibili in futuro; e quindi, se l’imposta è del 10% essi supporranno un 12%, e, mentre avrebbero pagato 85 lire un titolo 3% netto pagheranno il 3% lordo non 76,50 lire, che sarebbe il valore di parità, ma appena 76 o 75 lire, facendo scontare allo stato non solo tutta l’imposta certa presente, ma anche gli aumenti incerti e futuri di essa. A questo si riduce il valore dell’obiezione mossa dal Caillaux contro il Dumont ed il Barthou, secondo cui l’immunità dall’imposta significherebbe rinuncia dello stato alla propria sovranità tributaria. L’immunità vuol dire, sì, rinuncia a tassare; ma nell’interesse dello stato; rinuncia fatta allo scopo di ottenere il massimo prezzo possibile dalla emissione della rendita. Ed è rinuncia temporanea; poiché, se in avvenire lo stato si accorge che il saggio di interesse, al netto dell’imposta, è scemato sul mercato, ha sempre facoltà di offrire il rimborso del capitale ed ottenere per tal modo una riduzione dell’interesse.
Da qualunque punto di vista lo si guardi, il metodo oggi seguito in Italia dell’immunità tributaria concessa ai titoli di rendita 3,50% appare più conveniente, per lo stato, dell’opposto metodo della tassazione. L’esperienza dei corsi di borsa dei due titoli 3,50% netto e 3% lordo (ossia 2,40% netto) prova come il titolo che costa di meno allo stato è il primo. Il titolo 3,50% netto vale infatti 99 lire; e per conseguenza se fosse vera la teoria di Caillaux, che i capitalisti non tengono conto dell’imposta, il 3% lordo dovrebbe valere 85 lire. Invece vale soltanto, in forza del ragionamento fatto sopra, 64,80 lire, il che dimostra che i capitalisti in realtà lo considerano, come è, soltanto un 2,40 percento. Anzi lo apprezzano meno di quanto dovrebbe valere, poiché se il 3,50% vale 99 lire, il 2,40% dovrebbe, per dare lo stesso rendimento, valere almeno lire 67,70. Il fatto che il 3% lordo (2,40% netto) vale solo lire 64,80 è probabilmente dovuto a molte circostanze tecniche, difficili a valutarsi, ma non si può escludere che l’essere quel titolo al lordo, non munito cioè della clausola della immunità da ogni imposta presente e futura, non contribuisca a deprezzarlo oltre la parità. È inutile dunque sperare di far cadere sul serio l’imposta sulla rendita sui capitalisti. Essa si risolve, nell’ipotesi più benigna, in una partita di giro e spesso conduce ad un deprezzamento del titolo dannoso per lo stato che lo deve ancora emettere.
Queste sono verità intuitive; e non si capisce come la camera francese abbia immaginato di poterle negare, rovesciando un ministero.