Il sistema della catena
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 25/05/1921
Il sistema della catena
«Corriere della Sera», 25 maggio 1921
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 411-415
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 183-187
La gestione dell’Ilva e la perdita spettacolosa di parecchie centinaia di milioni di capitale e riserve meritano di essere esaminate ancora per chiarire sotto quali rispetti tocchino l’interesse generale della collettività.
Il sistema della catena. Credo, in mancanza di un miglior vocabolo, di avere io, dieci anni fa, intitolato così il sistema che allora, come oggi, era usato principalmente, per non dire esclusivamente, dalle società siderurgiche.
Vi sono due società A e B, i cui azionisti hanno versato 10 milioni, per ciascuna, dei loro sacrosanti risparmi? Come è naturale, gli azionisti, che sono i padroni dell’azienda, nominano gli amministratori ed i sindaci; e gli affari vanno avanti, bene o male, a seconda dei casi, ma ad ogni modo vanno, come meritano e vogliono azionisti ed amministratori. Ad un certo punto un gruppo di amministratori o finanzieri o banche ritiene di avere interesse a mettere le mani permanentemente sulle due aziende; ed inventano il gioco della catena. Basta un colpo una volta tanto; e l’affare è fatto per sempre. Di solito, occorre che il gruppo possegga un pacchetto di azioni di ambe le società; ma non è assolutamente necessaria la maggioranza. Basta al gruppo assalitore di avere un po’ comperato ed un po’ preso a prestito (a riporto) metà più una delle azioni per deliberare ed eleggere. È accaduto che i veri azionisti, ignari di quel che si combinava, dessero a prestito ad una banca per un mese le loro azioni, ricevendo in compenso qualche lira di premio. Per un tal piatto di lenticchie, essi rinunciarono per sempre al loro diritto di proprietà.
Ecco infatti che cosa può accadere. Nell’assemblea della società A, il gruppo magnifica la necessità di espandersi e di raddoppiare il proprio capitale per prendere una degna interessenza nella società B, che si dice destinata al più lieto avvenire. Persuasa, l’assemblea, di cui il gruppo possiede per quel giorno la metà più uno dei voti, approva l’aumento del capitale da 10 a 20 milioni di lire e l’impiego dei nuovi 10 milioni nell’acquisto di altrettante azioni della B.
Contemporaneamente, nella società B avviene il medesimo gioco. Anch’essa aumenta il capitale da 10 a 20 milioni di lire, ed investe 10 milioni di lire nell’acquisto di altrettante azioni della A. Che cosa è accaduto in realtà? Che il capitale vero delle due società è rimasto quello che era; che neppure un centesimo di capitale nuovo o fresco è entrato nelle casse sociali; che dopo una fuggevole comparsa di qualche milione di lire, prestato dalle banche, per l’obbligatorio deposito dei tre decimi, si vede unicamente uno scambio di azioni tra le due società. La società A ha un capitale di 20 milioni, di cui 10 investiti in edifici, impianti, merci ecc. e 10 in azioni della B; e la società B ha pure un capitale di 20 milioni, investito per 10 in impianti ecc. e 10 in azioni della A. Lo scambio sembra ed è vizioso dal punto di vista della società, della produzione e degli azionisti; ma è importantissimo dal punto di vista degli amministratori. Il gruppo assalitore, invero, ha nominato se stesso al consiglio d’amministrazione; ed una volta insediato, non c’è più forza umana che riesca a sloggiarlo. Basta che esso possegga una azione vera, di quelle vecchie, per essere inamovibile. Infatti, all’assemblea della A, il gruppo interviene in veste di delegato dell’azionista società B, portatrice di 10 milioni sui venti del capitale della A e di una azione vecchia. Ha la maggioranza e vota tutto quel che gli pare. Nell’assemblea della B il gruppo interviene in rappresentanza dell’azionista società A e di nuovo vota tutto quel che vuole. I veri, i becchi azionisti, che hanno versato il denaro sonante dei primi 10 milioni devono stare a vedere e non possono dir niente.
L’esempio che ho fatto è schematico; e può essere variato all’infinito. Invece di due società se ne possono mettere tre o quattro o più. Non occorre, di solito, andare fino all’estremo di raddoppiare il capitale. Basta anche meno acqua per ridurre all’impotenza i veri azionisti.
Pericoli e rimedi. – Il sistema della catena è pericoloso; poiché l’interesse degli amministratori non coincide più con quello della società. Quelli possono avere interesse a non dar dividendi, a mandare in malora o fingere di rovinare la società per spaventare i veri azionisti, indurli a vendere a vil prezzo ed impadronirsi così dell’impresa per un boccon di pane.
Quale il rimedio? Pur avendoci riflettuto molto, da anni, non mi pare possibile un rimedio a colpi di legge. Si potrebbe proibire il metodo della catena, annullare le azioni fittizie che si compensano. Ma probabilmente il male sarebbe maggiore del bene. Bisogna ricordare che il metodo della catena, nella forma descritta ora, è adoperato in Italia in taluni vistosissimi casi – di cui quello dell’Ilva, con l’Elba, la Savona ecc., è il più spettacoloso – che fanno gran colpo nel pubblico, che toccano aziende famigerate; ma, sebben vistosi, i casi sono pochi. Accanto a questi pochi casi, vi sono migliaia di altri casi in cui una società si interessa onestamente e ragionevolmente in altre società. Una società di navigazione può avere interesse a comprare azioni di un cantiere navale, per potere meglio far costruire o riparare le sue navi. Una società di confetti può trovare vantaggio nel possesso di azioni di una fabbrica di cioccolato. Un cotonificio può assai utilmente possedere azioni di una stamperia di tessuti. Se noi proibissimo ad una società di possedere azioni di un’altra, costringeremmo le società di navigazione a costruirsi esse i propri cantieri, quelle di confetti a produrre il cioccolato, il tessitore a fare anche il filatore. È naturale che ogni produttore voglia essere sicuro di buoni rapporti continui con il produttore che gli sta a fianco. L’interessamento con acquisto di azioni è il metodo più economico per ottenere l’effetto, che altrimenti si raggiungerebbe con la creazione di doppioni e calpestando tutte le regole della divisione del lavoro.
Dal bene nasce però il male del sistema della catena! È vero: ma la legge, ho paura, non può porvi rimedio. Salvo, forse, coll’obbligare ogni società a pubblicare i particolari delle azioni possedute di altre società: numero, prezzo d’acquisto, valore d’inventario alla data del bilancio. Oggi, le società peccatrici nascondono gli interessamenti a catena con grosse cifre in blocco: 10 milioni, 50 milioni di “interessenze diverse”, in cui nessuno capisce niente. Le autorizzazioni ad interessarsi in altre società sono date in massima; e gli amministratori non rendono conto particolareggiato dell’uso fatto dell’autorizzazione ricevuta. Se una estrema precisione fosse imposta, gli azionisti al meno sarebbero mezzo avvertiti. Nelle assemblee potrebbero opporsi in tempo.
Qui è il vero rimedio alla possibilità di imbrogli degli amministratori; l’educazione degli azionisti. Si curino meglio dei fatti loro. Non credano alle frottole raccontate da chi è interessato a far fuori l’azione. Vadano alle assemblee; cerchino di nominare solo amministratori probi ed onesti.
Il compito del governo e della magistratura. – Che si possa far molto non si può sperare; ma qualche esempio di repressione potrebbe essere salutare. Dirò subito che la sorte degli azionisti dell’Ilva mi commuove scarsamente. Che essi abbiano comprato le azioni a 200, e le abbiano viste cadere fino ad 80 qualche mese fa e verso il 40 oggi, è spiacevole. Che gli azionisti dell’Ansaldo abbiano sottoscritto a 290 azioni magnificate con annunci all’americana ed oggi se le vedano cadute a 140 – 150, è anche spiacevole. Ma non è commovente. Quegli azionisti sapevano o dovevano sapere di acquistare titoli rischiosi, di industrie note per i loro alti e bassi, bisognose altrettanto notoriamente di aiuti artificiali, di dazi doganali, di ossigenate ordinazioni governative per vivere. Quelle azioni non sono pane per i loro denti. Le lascino alla gente sperimentata, a quelli che possono attendere anni ed anni, che possono compensare le perdite degli investimenti cattivi con i guadagni dei buoni.
Ci sono però dei casi in cui nessuna previggenza sarebbe bastata. Ecco le azioni delle Meridionali ritornate non solo dai 700-800 di 15 anni fa alle 500 nominali, ma giù giù alle 400 l’anno scorso, alle 350 qualche mese fa ed alle 280 lire adesso, sebbene siano un titolo considerato di tutto riposo e comperato da padri di famiglia, da vedove, da tutori. I tribunali ne approvavano l’acquisto e la conservazione nel patrimonio di pupilli. Ed oggi in molte famiglie si piange per la rovina; e si è spaventati dalla necessità di pagare l’imposta patrimoniale su un valore di 568,67 mentre il prezzo di realizzo è di 280! Frattanto, si sente dire che il titolo è precipitato perché le Meridionali hanno investito una parte del realizzo dei loro crediti verso lo stato in acquisti di azioni Ilva. È vero o non è vero l’investimento? E come ci si arrivò? In qual modo gli amministratori ed i dirigenti dell’Ilva sarebbero riusciti a scaricare un pacchetto dei loro titoli addosso ad una società così antica ed esemplare come la Mediterranea? Questi sono i fatti che veramente interessano il pubblico dei risparmiatori, il quale non si preoccupa né punto né poco del salvataggio della siderurgia, ma vuole sapere quali siano state le cagioni della perdita del suo sudato risparmio. Se c’è qualcuno che ha rotto, paghi e vada a vedere il sole a scacchi. Sulle migliaia di società anonime esistenti in Italia, forse cento sono marce ed in non più di tante i filibustieri si sono annidati. È necessario che qualche buon esempio tolga loro la voglia di muovere all’assalto della grandissima maggioranza delle società buone.