Il silenzio degli industriali
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 06/08/1924
Il silenzio degli industriali
«Corriere della Sera», 6 agosto 1924
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 765-769
Le rappresentanze degli industriali, dei commercianti e degli uomini d’affari si sono finora mantenute in un silenzio così prolungato intorno agli avvenimenti politici più recenti da far dubitare forte se esso non sia il frutto di una meditata deliberazione. Contro lo stato di illegalismo, contro le minacce di seconda ondata, contro la soppressione della libertà di stampa hanno protestato i giornali, i collegi professionali degli avvocati, i partiti politici pure aderenti al governo attuale, come i liberali, ed alta si è sentita ieri la voce dei combattenti. Soltanto i capitani dell’Italia economica tacciono.
Se si discorre con taluno di essi, con coloro che si può supporre rappresentino gli interessi più larghi dell’economia nazionale, l’impressione che se ne ricava non è già quella di approvazione delle esorbitanze verbali degli estremisti del fascismo, e dei frenetici di dittature e di plotoni d’esecuzione. Gli industriali non approvano le minacce; ma, affettando di considerare gli agitati gridatori come degli innocui maniaci, insistono sulla necessità preminente di un governo forte; e ritengono che la tranquillità sociale, l’assenza degli scioperi, la ripresa intensa del lavoro, il pareggio del bilancio siano beni tangibili, effettivi, di gran lunga superiori al danno della mancanza di libertà politica, la quale, dopotutto, interessa una minoranza infima degli italiani, alle cui sorti essi scarsamente si interessano. Prima bisogna lavorare, produrre, creare le condizioni materiali di una vita larga; il pensare, il battagliare politicamente sono beni puramente ideali, dei quali si può anche fare a meno. I più cinici, i più aderenti ad una inconsapevole concezione materialistica della vita aggiungono che val la pena di pagare un tenue tributo di danaro e di libertà, pur di salvarsi dal pericolo del bolscevismo, dell’anarchia, della distruzione della ricchezza. O il regime attuale, con tutte le sue restrizioni alla libertà politica o il bolscevismo. Tra i due, la scelta non è dubbia. Inutili le promesse di una via di mezzo. Fatalmente, la restaurazione dei metodi ordinari di governo parlamentare, della libertà statutaria di stampa, vorrebbe dire ritorno ai metodi giolittiani e nittiani di adulazione e di debolezza verso i partiti rossi. A Kerenski seguirebbe fatalmente Lenin. Vogliamo cadere, chiedono gli uomini della finanza, negli orrori del bolscevismo?
Questa maniera di ragionare diffusissima nelle classi industriali italiane, prova soltanto come ai grandiosi progressi tecnici verificatisi recentemente in Italia non abbia corrisposto un uguale progresso nella educazione politica dei dirigenti l’industria. La nuova generazione sorta durante la guerra sente ancora troppo la modestia delle sue origini e non sa elevarsi al livello a cui le generazioni precedenti, dopo lungo tirocinio, erano riuscite a salire. Nessuno che volga lo sguardo all’avvenire, che non si contenti della tranquillità presente, ma desideri una duratura pace sociale, può ritenere che l’acquiescenza alla dittatura, la rassegnazione alle seconde ondate, la idolatria verso i puri beni materiali siano un terreno fecondo per una vera pace sociale. Non lo credono, qualunque siano le parole che pronunciano a fior di labbra, neppure gli espositori della teoria della rassegnazione. I fatti economici sono complessi; ed è probabile che una reazione di borsa si sarebbe manifestata, dopo le pazzie dei primi mesi del 1924, anche senza il delitto Matteotti; ma la pesantezza delle quotazioni, la diminuzione straordinaria degli affari, lo stento con cui si collocano le emissioni in corso sono senza dubbio l’indice di uno stato di apprensione. I risparmiatori, quando pensano all’investimento dei loro capitali, sono assai più accorti politici di quelli che si arrogano la rappresentanza dei grandi interessi economici. Hanno avuto paura del bolscevismo ed hanno in quel tempo lasciato cadere le quotazioni a limiti vilissimi. Oggi non temono più l’avvento del bolscevismo; sentono che il clima storico non è più in Italia, come in nessun altro paese del mondo, favorevole a pazzi sperimenti comunisti; sanno che anche i più deboli uomini di governo prenderebbero coraggio contro gli imitatori in ritardo di Mosca, sentendosi forti del consenso della grande maggioranza di coloro che hanno fatto la guerra, delle classi medie ed anche delle schiere migliori dei lavoratori. Temono invece le rivoluzioni a ripetizione, le minacce continue, i colpi di testa farinacciani. Temono la reazione dell’odio accumulato contro le lunghe prepotenze di chi si erige al disopra della legge. Al tempo della licenza, le classi medie risparmiatrici le quali sono le vere fornitrici di capitali ai grandi industriali, si dilettavano a parlar male del parlamento e dei giornali; ma ora sommessamente confessano che, dopotutto, la tribuna parlamentare e quella giornalistica sono preziose valvole di sicurezza contro il malcontento. Tolte queste valvole, che cosa rimane fuorché il contrapporsi di violenza a violenza? Tra i diversi modi di reagire alla febbre bolscevica, le borse, pur composte in maggioranza di adoratori del pugno forte, agiscono ed è questo soltanto che monta – come se fossero persuase invece che il metodo inglese o francese della discussione, della libera manifestazione del pensiero per mezzo della stampa sia alla lunga più rassicurante del metodo della forza.
Non a torto corre nel mondo dei finanzieri un vago senso di malessere che induce gli speculatori ad alleggerire le posizioni, a stare ad aspettare. Lo speculatore valuta zero il passato. Quel che conta è solo l’avvenire. Si vorrebbe vedere nell’avvenire sicurezza, tranquillità, non imposte con le minacce, ma conquistate con la persuasione. Non pochi temono che l’ondata, rovesciandosi, colpisca in pieno l’industria, considerata responsabile degli eccessi peggiori del regime di coercizione. L’opinione pubblica, è inutile tacerlo, considera in blocco con sospetto gli industriali. Quando si è veduto che i finanziatori del giornale di Filippelli erano grandi industriali, quando si parla correntemente di acquisti fatti a colpi di milioni di quotidiani atti a influenzare o fabbricare la pubblica opinione; quando si vede che i soli giornali i quali abbiano plaudito al decreto sulla stampa sono quelli di cui non sono chiare le origini finanziarie ed i quali hanno d’uopo per vivere, di generosi sacrifici pecuniari dell’alta finanza; quando si ricordano le circolari della confederazione dell’industria e del commercio incitanti a versare fondi di propaganda durante le elezioni a favore del partito dominante, è facile l’illazione: dunque l’industria non può vivere se non provvede a crearsi un ambiente favorevole; dunque il capitalismo trae le sue ragioni di esistenza dalla corruzione, dagli affari conchiusi con lo stato od attraverso i governi; dunque si sopprime la libertà di stampa allo scopo di consentire ai ricchi di sfruttare il popolo con contratti leonini e con protezioni jugulatorie.
L’accusa ed il sospetto non toccano la grandissima maggioranza degli industriali, degli agricoltori e dei banchieri italiani, i quali vivono di un lavoro sano e fecondo. Ma il terribile si è che questa grandissima maggioranza non veda il pericolo a cui va incontro col non separare nettamente le proprie sorti da quelle dei pochi profittatori ed interessati all’oscurità ed al silenzio. No. L’industria italiana non vive di lavori pubblici, non vive di favori governativi; di fatto non è per lo più neppure vantaggiata dalla protezione governativa. L’industria italiana non ha perciò paura del bolscevismo: chi ha le mani nette, chi vive del proprio lavoro, chi è necessario in una organizzazione economica sana, non può essere soppresso. Faccia a faccia con gli operai, in aperto dibattito, l’industriale creatore di vigorose imprese industriali non dovrebbe temere di vedere negata la sua ragion d’essere.
Ciononostante egli può commettere suicidio. Per debolezza, per lasciar correre, per non aver fastidi, gli industriali italiani hanno commesso la propria rappresentanza ad alcuni pochi, i quali reputano atto supremo di saggezza comprar la pace giorno per giorno, propiziarsi con tributo adeguato i potenti della terra, ottenere per largizione ciò che avrebbero diritto di pretendere per giustizia. Stiano attenti i mal consigliati! Se c’è qualcosa che oggi in Italia possa rendere l’animo delle moltitudini favorevole nuovamente a barbare teorie orientali, sconfessate oramai da tutti i capi responsabili del movimento operaio del mondo occidentale, questo qualcosa non è l’attrattiva del vangelo di Mosca; è la repulsione verso le prediche di violenza e di compressione. Gli industriali, i finanzieri, i quali si rallegrano della scomparsa assoluta degli scioperi dopo la marcia su Roma e solo per questo affermano la loro solidarietà ad ogni costo anche cogli estremisti del fascismo, paiono ciechi. Ben fragili sono le fondamenta di mercati finanziari che riposano su un terreno così sdrucciolevole. Non senza ragione i valori di borsa rifiutano di salire più in su. Risaliranno, nel giorno in cui, – essendo pienamente liberi gli operai di abbandonare il lavoro sotto la guida di quei qualunque condottieri, bianchi, rossi o tricolorati, che liberamente essi si saranno scelti – gli scioperi non avranno luogo od avranno luogo in scarso numero perché industriali lungimiranti avranno saputo evitare a tempo la sciagura, con trattative accorte, con sforzi vittoriosi per concedere il massimo possibile alle maestranze, pur facendo vigoreggiare l’intrapresa. Se si ficca lo sguardo in fondo, la preferenza di tanti industriali per la pace sociale imposta dal governo e consigliata dall’amore del quieto vivere. Vogliono lavorare, essi dicono, e non essere seccati da memoriali, da leghe, da discussioni, che fanno perder tempo. Eppure, bisogna rassegnarsi. Per governare un’industria oggi non basta essere valentissimi tecnici e commercianti accorti. Importa altrettanto e forse più, essere condottieri di uomini. Non si lavora per produrre tessuti o rotaie o frumento, sibbene per creare condizioni di vita sempre più alte per tutti coloro, dai capi ai gregari, che partecipano alla produzione. E tra queste condizioni di vita, insieme col pane, forse più del pane medesimo, va annoverata la dignità di uomo libero. Gli industriali italiani non sono oppressori. L’accusa, che fu ad essi rivolta, è ingiusta. Ma essi devono evitare pur l’apparenza di esserlo. La politica del silenzio, in momenti così drammatici, delle rappresentanze industriali, prende, agli occhi del pubblico, aspetto servile. Non è pericolosissimo far pensare agli operai che il proprio avvilimento sia il prezzo della compiacenza padronale?