Il referendum svizzero sull’imposta patrimoniale
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/12/1922
Il referendum svizzero sull’imposta patrimoniale
«Corriere della Sera», 7 dicembre 1922[1]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 984-986
L’imposta sul patrimonio passa un brutto quarto d’ora in Europa. Il ministro De Stefani l’ha qualificata di «stupidissima» in pieno senato. Fatto di gran lunga più significante, in Svizzera il popolo, chiamato a referendum sulla proposta del partito socialista: «Accettate voi la domanda di iniziativa popolare relativa alla percezione di un’imposta sul patrimonio»?, rispose no, con 725.000 voti, contro 127.000 sì.
I giornali italiani non hanno dato, né prima né dopo, sufficiente rilievo al referendum svizzero; e l’esito della votazione popolare è passato per lo più inosservato in una notizia stampata in corpo minimo. Contribuì a ciò la forma sotto cui la notizia era stata comunicata in Italia. Le parole prélèvement sur la fortune erano state tradotte confisca del patrimonio, ed era sembrato naturale che il popolo svizzero, chiamato a rispondere su una proposta di marca socialista e di evidente spirito espropriatore della ricchezza privata e di avviamento verso il leninismo russo, rispondesse di no.
In realtà le cose stavano ben differentemente. La proposta di iniziativa popolare:
- si riferiva ad una imposta sul patrimonio vera e propria, in tutto simile a quella che apparve subitamente sull’orizzonte tributario italiano nell’estate del 1919; fu discussa, dal semplice punto di vista delle norme di applicazione, da una commissione di tecnici e fu approvata, senza alcuna preparazione e discussione pubblica, per decreto legge;
- l’imposta colpiva, come in Italia, il patrimonio di una minoranza, calcolata al 3 e 1/2% della popolazione;
- l’imposta esentava, come in Italia, i patrimoni piccoli e cresceva progressivamente fino al 60% per i patrimoni massimi;
- l’imposta era presentata con l’attraente scopo di impiegarne il provento per iniziative di carattere sociale e vantaggiose al benessere popolare.
Tutto era stato studiato dai proponenti per accaparrare il voto dei proletari e per non allarmare le classi medie e contadine. Ai piccoli proprietari si diceva che l’imposta non li riguardava; che essa riguardava solo le grosse fortune; che essa voleva diminuire solo la disuguaglianza nella ripartizione delle ricchezze; che essa voleva solo abbassare l’orgoglio dei grandi «capitalisti». Le corde potentissime dell’odio di classe e dell’invidia dei medi e piccoli possidenti contro le banche, i capitali mobiliari, i monopoli furono sollecitate in tutti i modi.
Invano. Il consiglio nazionale e il consiglio federale consigliarono il popolo a respingere l’iniziativa. Sulla stampa, nei comizi, nelle associazioni si iniziò una campagna di educazione finanziaria che forse non ha pari nella storia dei paesi civili. Giorno per giorno, sotto tutte le forme, uomini politici, pubblicisti, professori commentarono al popolo la verità dell’apologo di Menenio Agrippa sulla solidarietà delle varie membra del corpo sociale. I professori dell’università di Losanna lanciarono ai confederati un manifesto per scongiurarli a respingere un progetto che essi giudicarono ingannatore nelle apparenze e fatale al credito pubblico e privato della nazione. Banche ed industriali avvertirono i clienti e gli operai delle disastrose conseguenze che sarebbero derivate alle masse dal rialzo nel saggio dell’interesse e dalla restrizione nel risparmio, che sarebbero state le conseguenze dell’adozione dell’infausto disegno. Le grandi masse sentirono l’appello rivolto al loro civismo. La grandissima maggioranza dei 725.000 elettori, i quali risposero no, non sono contribuenti minacciati dall’imposta. Forse appena 50.000 votanti respinsero col no una minaccia diretta alla propria ricchezza. Gli altri dissero che essi non volevano saperne di un’imposta che li avrebbe bensì lasciati esenti, ma che colpiva alle sue sorgenti medesime la formazione del risparmio e l’avvenire economico del paese.
Dalla votazione svizzera l’«Avanti!» conclude che le rivoluzioni non si fanno per votazioni di maggioranza e che quando le maggioranze si convertono ai nuovi ideali [di confisca e di distruzione] l’ora della rivoluzione è passata. Ben altro è l’insegnamento che dal referendum svizzero bisogna trarre. Se le masse votano male, se mandano alle camere gente indegna, politicanti adulatori delle più basse passioni umane, gran parte della colpa spetta alle classi dirigenti e pensanti che non fanno il proprio dovere; che non discutono, che non fanno propaganda per i loro ideali; che non affrontano coraggiosamente l’impopolarità; che sono, esse stesse, animate da invidia; che preferiscono lasciar perire la società intiera purché il danno maggiore tocchi al vicino, al rivale, all’amico posto un po’ più in alto nella scala sociale. Il referendum svizzero è una vittoria del buon senso e del sistema di pubblica ed aperta discussione. Ma per vincere occorre sapere e volere discutere.
[1] Con il titolo Il trionfo della discussione. Il referendum svizzero sull’imposta patrimoniale. [ndr]