Il reato di crumiraggio e lo sciopero obbligatorio
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/11/1904
Il reato di crumiraggio e lo sciopero obbligatorio
«Corriere della Sera», 9 novembre 1904[1]
Le lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino 1924, pp. 105-112
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 178-182[2]
L’on. Sacchi ha fatto strada; o meglio hanno fatto strada i fautori di novissimi principii giuridici in materia di conflitti del lavoro. Oggi è il sostituto procuratore generale della corte d’appello di Roma, Raffaele De Notaristefani il quale su una grave rivista giuridica, in «La giustizia penale», delinea la figura del reato di crumiraggio. Il sentimento da cui è mosso il De Notaristefani è chiaro:
Cresciuta ed ordinata l’organizzazione proletaria per opera di un partito politico, al quale l’inerzia degli altri lascia molti simpatici monopoli, non seppe tollerare in pace il crumiraggio, né la tutela, o, se mai, il concorso che a quella forma di concorrenza o, vogliasi pur dire, a quell’esercizio di libertà prestava l’autorità della forza pubblica. Da una parte il numero e la fame, dall’altra la legge e le armi: dovevano nascere e nacquero conflitti sanguinosi. Ma a questi è seguita una così solenne ed imponente manifestazione di forza e di solidarietà, peggio o meglio ancora, una così completa dedizione da parte del diritto e della legge, che l’uno e l’altra sentono il bisogno di intervenire e di trasformarsi per paura di essere distrutti dalla muffa.
Ora ecco in poche parole il ragionamento fatto dal magistrato per legittimare l’introduzione nel codice penale del reato di crumiraggio. Il principio della libera concorrenza illimitata nelle industrie, nei commerci, nei rapporti fra capitale e lavoro, va perdendo terreno. L’intervento sempre più frequente dello stato per mezzo della legislazione industriale e sociale, il costituirsi di associazioni, dimostrano che al principio della concorrenza va sostituendosi l’altro principio della solidarietà sociale. Una fra le più moderne manifestazioni di questo spirito di solidarietà sociale è certo il formarsi di unioni, di leghe fra operai per difendere i propri diritti ed interessi contro gli imprenditori.
Ora quando la collettività degli operai riunita in associazione, crede opportuno lo sciopero come arma per vincere nella lotta con gli imprenditori, l’intervento dei Krumiri, ossia di operai i quali offrendosi a sostituire gli scioperanti, fanno abortire lo sciopero, costituisce un atto che rompe la solidarietà operaia, un atto che si può qualificare di concorrenza illecita quando produca un danno ingiusto agli operai stessi. Questo atto deve essere permesso solo quando lo sciopero sia stato ingiustamente proclamato dai lavoratori, perché in tal caso la concorrenza dei disoccupati, impedendo la soddisfazione di inconsulte pretese, non deve essere bollata come crumiraggio, ed anzi deve incontrare le simpatie dell’opinione pubblica ed essere efficacemente tutelata dallo stato. Ma quando i lavoratori siano insorti contro la ingiustizia padronale, il fatto che alcuni crumiri vengano ad impedire od almeno a rendere più difficile il raggiungimento degli onesti voti della collettività operaia, è un atto di concorrenza sleale, e come tale è un reato che deve essere punito dal codice penale.
Siccome tutta la difficoltà sta evidentemente nel vedere se lo sciopero sia giusto od ingiusto, il De Notaristefani mette innanzi due fatti, verificandosi i quali lo sciopero si dovrebbe presumere giusto:
1) l’ordine di scioperare o l’approvazione data allo sciopero dalla rappresentanza della collettività operaia, legalmente riconosciuta e costituita, poiché è nell’ordine naturale delle cose che basti a contrattare le condizioni del lavoro la rappresentanza dei lavoratori;
2) il rifiuto opposto dagl’imprenditori di un’offerta di arbitrato fatta dai lavoratori.
Date queste o consimili presunzioni, non sarebbe impossibile trovare degli arbitri che valutassero tutte le circostanze relative alla giustizia di uno sciopero, nello stesso modo che si trovano giudici per tutti i litigi civili e per tutte le cause penali.
Questa in breve la nuova teoria del De Notaristefani, esposta nel modo che a noi fu possibile di comprenderla. Diciamo subito che essa è un’altra prova della poca adattabilità dei nostri magistrati a capire i fenomeni economici e, peggio ancora, della loro incurabile ignoranza della scienza economica. Se lo scrittore della «Giustizia penale» si fosse preso la briga di studiare in qualche moderno trattato di economia politica non sarebbe venuto fuori con una così strana definizione dei criteri che possono far presumere giusto uno sciopero. Chi può azzardarsi a dire quando uno sciopero è giusto, essendo la «giustizia» di uno sciopero una parola che non esiste nel vocabolario economico? Chi può dire se sia «giusto»pagare il pane otto ovvero dieci soldi al chilogramma? Si sa unicamente che un certo prezzo è quello che in un certo momento si deve pagare, date le condizioni del mercato ed i mille e mille fattori dell’equilibrio economico. Così è degli scioperi. Nessuno può affermare che uno sciopero è giusto; ma soltanto che uno sciopero è riuscito perché le domande degli operai erano opportunamente redatte in guisa che l’industria poteva soddisfarle, dati i prezzi, i profitti, gli interessi vigenti.
Sta tutta qui la difficoltà di istituire l’arbitrato obbligatorio nelle contese fra capitale e lavoro. Per le liti civili il giudice ha una base: la legge o il contratto. Se gli operai chiedono cinque lire al giorno e gli imprenditori vogliono darne solo quattro, come farà il giudice a riconoscere giusta la domanda degli operai? Bisognerebbe che il giudice sapesse fare lui il calcolo complicatissimo che attualmente fanno a loro rischio gli imprenditori della convenienza di pagare o no un certo salario, dati i prezzi correnti, il margine di profitto, i costi di produzione, l’organizzazione delle varie sorta di intraprese, ecc. ecc. Forse un giorno arriveremo a sapere tutte queste cose, a possedere tutti i dati utili in guisa che i giudici potranno dare le loro sentenze in modo non stravagante. Per ora siamo lontanissimi da tutto ciò; non dico in Italia, ma in Germania e in Inghilterra dove pure esistono organizzazioni fatte apposta per raccogliere dati di questo genere.
Se gli economisti non hanno sinora scoperto alcun criterio semplice per riconoscere la «giustizia» di uno sciopero, questa scoperta l’ha forse fatta il De Notaristefani? Tutt’altro. Egli – partendo da una informe teoria del solidarismo sociale, venuta di moda recentemente in Francia ed è in fondo una abbreviazione della favola di Menenio Agrippa – ha innanzi tutto detto che uno sciopero poteva presumersi giusto se votato dalla collettività operaia legalmente costituita e riconosciuta, e ciò per la non dimostrata, né dimostrabile ragione che a contrattare le condizioni del lavoro basti la rappresentanza dei lavoratori. Il che in fondo – per quanto si cianci di solidarietà sociale – significa dare l’individuo piedi e mani legati in mano alle leghe. Nessuno potrà lavorare se non coi patti stabiliti da esse. Chi non voglia o non possa, muoia di fame, sempre in nome e ad onore della solidarietà sociale.
E poi, come saranno inoltre costituite le rappresentanze giuridiche dei lavoratori che avranno la magica facoltà di dare l’impronta di giusto agli scioperi da esse proclamati? Dagli operai già impiegati nella fabbrica colpita dallo sciopero? o non anche insieme dagli operai disoccupati che avrebbero desiderato di impiegarvisi? Non fanno forse parte anche questi ultimi della «collettività operaia», i cui interessi tutti dovrebbero essere tutelati dalla «rappresentanza giuridica» degli operai?
Si aggiunga: quando mai fu ammesso che la concordia in una pretesa dei molti individui costituenti una parte in lite costituisse una presunzione di giustizia della pretesa stessa? Per la stessa ragione si dovrebbe senz’altro presumere siano dal lato della giustizia gli imprenditori quando la maggioranza di essi, debitamente radunata, votasse la chiusura delle fabbriche, allo scopo, mettiamo, di costringere gli operai a lavorare un’ora di più al giorno. Messisi su questa china non si sa dove si vada a finire.
Né meno curiosa è l’altra presunzione di «giustizia» in uno sciopero, ossia il rifiuto degli imprenditori di accettare l’arbitrato offerto dagli operai. Pur troppo è consuetudine gridare contro chi rifiuta un arbitrato, come se fosse un barbaro o peggio. Vi son tuttavia casi in cui una questione non può e non deve essere sottoposta ad arbitrato. Osiamo anzi affermare che l’arbitrato, come ha funzionato in Italia sin qui, rappresenta un vero decadimento nel modo di risolvere i conflitti operai.
Se scoppia uno sciopero, sindaci, prefetti, ispettori generali del ministero degli interni vanno a gara nell’offrire la loro opera pacificatrice; il che vuol dire l’opera di chi, essendo ignaro in materia, cercherà di aggiustare le cose con un colpo al cerchio ed uno alla botte. Sarebbe bene che gl’imprenditori osassero, con un rifiuto netto, manifestare più spesso di quanto non facciano, la loro sfiducia in un arbitrato che non può a meno di produrre confusione e rendere necessari in futuro altri conflitti per accomodare le cose male aggiustate in tutta furia dagli arbitri per amore del quieto vivere. In Inghilterra – che pure tutti citano a proposito ed a sproposito – quanti sono gli arbitri in cui padroni ed operai ripongono piena fiducia non solo per la loro imparzialità, ma anche per la loro conoscenza tecnica delle più grosse questioni in gioco? Due o tre, a dir molto, l’opera dei quali è disputatissima. E in Italia si dovrebbe punire con una presunzione d’ingiustizia l’imprenditore che non si inchina senz’altro dinanzi ad un terzo che vorrebbe esser arbitro in affari di cui spesso non ha la più lontana nozione! Son cose che parrebbero incredibili se non fossero propugnate da alti magistrati!
Lasciamo dunque in pace i crumiri. I quali, poveretti, hanno già da difendersi contro l’ostilità dei lavoratori organizzati, contro il pubblico disprezzo, contro gli insulti dei giornali popolari, e non meritano davvero l’onore del carcere per delitto di lesa solidarietà sociale. Forse essi sono esseri inferiori, come pretendono i capi del movimento operaio; ma se le leghe comprendono davvero l’aristocrazia operaia, dovrebbero dimostrare la loro forza superiore astenendosi dal perseguitare e dal mandare in carcere quei poveri untorelli di crumiri. Dopo tutto nessun imprenditore alla lunga vorrà ricorrere al crumiraggio di persone incapaci ed ignoranti per poco che gli operai scelti ed abili delle leghe non mettano innanzi pretese incompatibili colla vita dell’industria. Il codice penale riserviamolo contro gli atti che ledono il diritto di ognuno al lavoro od apportano grave e diretto nocumento alla società.
L’esempio è contagioso. Alcuni giorni fa dovevamo occuparci di un sostituto procuratore generale del re, il quale enunciava una serie di stravaganti proposizioni sul novissimo reato di crumiraggio. Oggi è un economista noto, direttore di una scuola superiore di scienze sociali, il prof. Arturo F. De Johannis, il quale, nel suo giornale, espone principi altrettanto strani sulla libertà di lavoro negli scioperi. Davvero bisogna concludere che in Italia l’ambiente deve essere curiosamente pervertito, se persone chiare per studi e per intelligenza, note per il loro attaccamento, ragionato e non feticistico, ai principi della scuola liberale, vengono fuori con storture simili a quelle che ammannisce ai suoi lettori l’egregio professore di Firenze.
Egli parte da una identificazione della maestranza operaia di una fabbrica ai soci di una società commerciale per azioni. L’art. 163 del codice di commercio obbliga – salvo certi casi eccezionali – la minoranza ad uniformarsi al voto della maggioranza; né il giudice può intervenire ad esonerare la minoranza da questo suo obbligo. «Suppongasi – egli aggiunge per analogia – per un momento che gli operai di uno stabilimento sieno costituiti in società e che il loro statuto, fra le altre disposizioni, contenga questa: che le deliberazioni che importano abbandono temporaneo del lavoro saranno prese alla maggioranza di quattro quinti e saranno obbligatorie anche per la minoranza». Fatta l’ipotesi, senza nemmeno fermarsi a discuterla, egli continua: «Non si può quindi logicamente non ammettere un diritto nelle maggioranze delle società operaie di coercire, anche in fatto di sciopero, le minoranze; si può desiderare che la materia sia più o meno rigorosamente disciplinata, che gli statuti delle società contengano garanzie che evitino sorprese od altro, ma il principio non si può disconoscerlo; e si può anche convenire che lo stato, per mezzo del governo, si limiti a mantenere l’ordine e a impedire le violenze; ma ove mai la sua azione dovesse esorbitare da tali limiti, debba intervenire piuttosto a favore delle maggioranze che delle minoranze». Che anzi, ove l’imprenditore ricorresse a crumiri, e da ciò nascessero conflitti, sarebbe persino a discutersi se il governo dovesse proteggere i nuovi occupanti, o non piuttosto mantenere liberi i posti – sino dopo la definizione del conflitto – per gli scioperanti; i quali non hanno abbandonato il lavoro in modo che il loro posto sia diventato res nullius, ma lo hanno sospeso, si sono momentaneamente allontanati, quasi lasciandovi il segno del loro possesso, tanto è vero che fanno adunanze, pubblicano manifesti, votano ordini del giorno coll’intendimento palese di ritornare al loro posto, appena sieno mutate le condizioni precedenti.
In verità, dinanzi a queste teorie viene voglia di chiedere se si sia letto bene o se i nostri occhi ci abbiano ingannati. Come può sul serio il prof. De Johannis partire dall’ipotesi che si possano assimilare gli operai di uno stabilimento ai soci di una società anonima? I soci trattano degli interessi loro propri; sono essi che per un certo scopo hanno messo capitali in una azienda; e siccome non si può immaginare che la gestione dell’azienda venga condotta con criteri contradditori, è giuocoforza vi sia una norma comune obbligatoria per la minoranza. Per gli operai di uno stabilimento il caso è ben diverso.
Si può sostenere, è vero, con ragione, che essi hanno un interesse comune ad essere pagati bene; si può comprendere che essi creino una società coll’obbligo di agire d’accordo per conseguire certi miglioramenti; e se questa società si è costituita liberamente fra tutti gli operai della fabbrica, si può ammettere che sia l’assemblea sociale quella che decida sugli scioperi.
Sin qui sta bene. Non più in là. Si può forse ammettere che, se vi sono operai dissenzienti, lo stato debba intervenire per costringerli a non lavorare? Evidentemente no. Il codice di commercio stabilisce che un socio di una società per azioni possa ritirarsi dalla società se dissente, ad esempio, dall’aumento o dalla reintegrazione del capitale sociale; e non dovrà concedersi un diritto di recesso agli operai dissenzienti da una maggioranza di scioperanti quando si tratta di qualche cosa di ben più grave e più sacro di uno sborso di capitali, quando cioè è in giuoco la possibilità di lavoro e di vita di un uomo e della sua famiglia? Ci fu tempo nel quale si considerava immorale e privo di effetti legali il patto di chi si obbligava a non lavorare, se non col consenso altrui; oggi non si deve almeno concedere la possibilità di ribellarsi ad una deliberazione che viola il proprio diritto al lavoro?
Ma non basta. Il De Johannis dovrebbe spiegare chiaramente come potrebbe vivere l’industria quando lo stato non solo obbligasse le minoranze a seguire i voti delle maggioranze degli operai occupati, ma ancora impedisse agli imprenditori di ricorrere ai crumiri, allo scopo di conservare il posto agli scioperanti, quando sarà terminato il conflitto. Certo in quel giorno tutti i conflitti saranno presto terminati colla vittoria sicura degli operai. Quale imprenditore potrà combattere per un sol giorno, sapendo di non potere assumere nuovo personale?
Per molte industrie sarebbe l’impossibilità di vivere. Si prende, ad esempio, questa nostra industria del giornalismo quotidiano, dove gli operai sono pagati cinque, sei, sette, otto lire al giorno. Per un giornale non uscire per un mese vuol dire la rovina; per gli operai, che hanno la possibilità di fare risparmi, lo sciopero rappresenterebbe il mezzo sicuro di farsi crescere la paga senza colpo ferire. Dove avrebbe termine la ascensione indefinita dei salari nelle tipografie giornalistiche, se si dovesse accogliere il principio della repressione del crumiraggio e dello sciopero obbligatorio?
Non parliamo delle ferrovie e di altri servizi pubblici. I ferrovieri scioperano avendo i mezzi per resistere qualche mese. E lo stato deve non solo lasciarli scioperare, ma obbligare la minoranza ad abbandonare il lavoro, e respingere ogni offerta di crumiri! Come si durerà per mesi senza ferrovie, o senza gas, o senz’acqua e via dicendo?
Noi comprendiamo si possa discutere seriamente l’arbitrato obbligatorio. È un sistema, che salvo alcuni casi di servizio pubblico, riteniamo inapplicabile nel nostro paese, dove gli arbitri non avrebbero i mezzi, gli strumenti per giudicare. La abolizione dei contratti di lavoro individuali e la loro sostituzione con l’arbitrato obbligatorio per tutti è un sistema logico perché deferisce ad una autorità, supposta imparziale, la fissazione dei salari e degli altri patti di lavoro. Ma il sistema dei De Notaristefani e dei De Johannis è l’organizzazione della rivolta continua a base di ricatti negli stabilimenti industriali, è il ritorno ai tempi più nefasti del corporativismo d’antico regime. Che cos’è questo posto che lo scioperante non ha abbandonato, e che egli ha il diritto di riprendere quando il conflitto sarà finito? Che cosa è, se lo si spogli dell’orpello di frasi fatte sedicenti democratiche da cui è circonfuso – se non la riproduzione moderna dei posti, delle cariche che i sovrani di antico regime e i maestri delle corporazioni vendevano per far quattrini?
Si era creduto che tutto questo retaggio di servitù medievali fosse scomparso. Eccolo invece rinverniciato e rimesso a nuovo per soddisfare le folle. In Francia è il buon giudice Magnaud che sale a poco a poco ai più alti fastigi della magistratura, dettando sentenze di cui le poche accettabili sono l’imitazione di ciò che si era sempre fatto da giudici, i quali non si erano mai sognato di farsi chiamare «buoni»; e le molte pessime sono una violazione così evidente della legge da fare tristemente pensare all’avvenire di un paese dove la giustizia viene in tal modo manomessa per piaggeria verso i partiti dominanti. In Italia non siamo ancora giunti a tanto. Ma già si vedono qua e là gli indizi di un tale turbamento negli spiriti che è opera doverosa e veramente liberale e democratica denunciarli con linguaggio che non vuole essere irrispettoso, ma semplicemente ammonitore.