Il razionamento del carbone
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/03/1917
Il razionamento del carbone
«Corriere della Sera», 29 marzo[1], 1 aprile[2] 1917
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 540-548
I
La questione del carbone è divenuta nel presente momento assai grave. Risulta dai dati resi di pubblica ragione che, mentre in gennaio e febbraio 1916 erano stati importati nel porto di Genova 242.100 e 226.900 tonnellate di carbone, nei corrispondenti mesi del 1917 furono importati soltanto 143.300 e 102.800 tonnellate. La situazione degli altri porti italiani è suppergiù la stessa.
È inutile ora recriminare sul passato, e cercare ancora una volta quali siano le responsabilità del fatto per cui, mentre nel febbraio 1916 il 70% dell’importazione del carbone si fece per iniziativa privata, nel febbraio 1917 appena il 7% fu importato dai privati e tutto il resto fu dovuto importare dallo stato. È, per ora, inutile cercare le ragioni per cui lo stato, dopo aver distrutta ogni convenienza di importare per i privati, dopo avere con lusinghe di bassi prezzi ridotto le importazioni in settembre ed ottobre 1916 ed avere così ridotto oggi le riserve ad un limite eccessivamente basso, non abbia nei mesi successivi importato carbone a sufficienza.
Tutto ciò è storia passata. È da augurare che il commissario ai carboni, sen. Bianchi, possa riparare al mal fatto ed all’insuccesso di prima; e vi sono anzi fondate probabilità che un miglioramento possa ottenersi in avvenire.
Ma – e qui sta il problema odierno – l’intensificazione negli arrivi del carbone non potrà avere effetto che in maggio od in giugno ed anche allora gradatamente. Tutte le operazioni economiche richiedono tempo; e più di tutto le operazioni di trasporti, per cui occorrono adatte organizzazioni di carichi all’origine, di flotte di piroscafi scortate contro le minacce dei sottomarini, di scarico nei porti di arrivo, di inoltro su carri ferroviari.
La conclusione è che, se anche noi possedessimo forti riserve, il che ignoro fino a qual punto o momento risponda a realtà, noi dobbiamo agire come se delle riserve si dovesse fare uso parsimoniosissimo. Qualunque altra condotta, fondata sull’ipotesi di una pronta fine della guerra, di una cessazione della campagna sottomarina o di una maggiore disponibilità di carri, sarebbe una condotta imprevidente e perciò suicida. Noi dobbiamo, per il carbone come per il grano, sempre supporre il peggio; lieti poi se si verificherà il meglio. Rispetto al carbone, stato e privati debbono agire come se in marzo, aprile ed ancora maggio, il carbone disponibile debba esistere in Italia in quantità notevolmente inferiore a quella già ridotta dei mesi scorsi.
Fatta questa ipotesi, che la prudenza più elementare ordina di porre a base dell’azione pubblica e privata, che cosa si deve fare?
Non basterebbe innalzare i prezzi; perché il rialzo dovrebbe essere troppo diverso a seconda delle industrie. Vi sono industrie, a cui il carbone non deve essere dato, anche se lo pagassero 1000 lire la tonnellata, perché esse sono meno necessarie in confronto ad altre, le quali pure non possono pagare prezzi cresciuti.
Non basta il razionamento proporzionale, e per la stessa ragione: dare la metà del fabbisogno ad una fabbrica di munizioni sarebbe un suicidio; mentre la metà sarebbe assai troppo per un’industria, la quale produce merci per ora superflue.
Altro deve essere il metodo che lo stato deve immediatamente adottare ed a cui l’industria deve rassegnarsi: il razionamento progressivo. Supponiamo che si possano classificare le industrie consumatrici di carbone in alcune categorie, a seconda delle loro necessità ai fini della guerra e della alimentazione della popolazione civile. All’incirca così:
Indice di importanza nel momento attuale |
Natura dell’industria | Proporzione di carbone assegnato in confronto al consumo precedente |
100 | Fabbriche di armi e munizioni | 100% |
80 | Ferrovie | 80% |
50 | Stabilimenti industriali necessari | 50% |
0 | Stabilimenti non necessari per la vita «spartana» della popolazione civile | 0% |
Allo schema non occorrono molte spiegazioni. È chiaro che prima di togliere una sola tonnellata di carbone alle fabbriche di armi e munizioni, fa d’uopo magari sospendere nove decimi dei treni – viaggiatori e rifiutare il carbone per qualsiasi altro uso. Non siamo, tutt’altro, a questi estremi; ma dobbiamo previggentemente incoraggiare il governo a ridurre il numero e le comodità dei treni – viaggiatori; né ci dovremmo impermalire se si sospendesse addirittura per lungo tempo l’accettazione sulle ferrovie di merci e derrate di consumo non necessario. Al disotto stanno gli stabilimenti produttori di merci necessarie. Ridurre del 50% la fornitura del carbone equivale a costringere la popolazione civile a ridurre alla metà il consumo di quelle merci. Meglio la metà assicurata, che la rinuncia assoluta fra qualche tempo. Finalmente, nell’ultima categoria entrano le industrie a cui converrebbe sopprimere assolutamente la provvista di combustibile.
È naturale che ai singoli interessati poco piaccia di entrare nel terzo gruppo ed ancor meno nel quarto. Ma poiché necessità non vuol legge, cercherò di spiegare il mio pensiero con alcuni esempi.
Fortunatamente, le fabbriche di liquori consumano poco carbone e scarso combustibile di altra specie. Per lo più trattasi di miscele fatte a freddo. Ma anche quel poco bisognerebbe toglierlo loro assolutamente. Anche la legna. Questa potrà servire nel venturo inverno a riscaldare gli uomini e potrà servire di surrogato al carbone per altre industrie più interessanti. La fabbricazione di liquori dovrebbe essere senz’altro proibita – a che si tarda ancora? – sovratutto perché è uno scandalo lasciar divorare dai liquori lo zucchero spettante ai bambini e alle donne. Anche se essa consumasse in tutta Italia poche tonnellate di combustibile, quelle poche sono rubate alle industrie necessarie.
Ho citato lo zucchero; e la citazione mi fa porre una domanda: è davvero necessario sprecare carbone per raffinare lo zucchero? Non ho nulla in contrario al consumo dello zucchero raffinato; ma in tempo di guerra anche lo zucchero cristallino non raffinato è ottimo, perfettamente solubile e digeribile. Possiamo e dobbiamo fare a meno delle raffinatezze e risparmiare quelle parecchie decine di migliaia, forse cinquantamila tonnellate, che ci costa la raffinazione. Dunque si chiudano le raffinerie.
La carta: ecco un’altra merce su cui si possono e si debbono fare economie. La carta è una terribile divoratrice di carbone. Perché non si riducono a dimensioni microscopiche gli affissi murali e non si vieta la diffusione di avvisi e circolari d’ogni fatta? Perché importiamo carboni, occupando stive preziose, per fabbricare carte fini e di lusso destinate all’esportazione? Non ho nessuna obiezione di principio a tutte queste cose che vorrei proibire o limitare, ed in tempo di pace credo che ognuno abbia diritto di spendere i propri denari come crede. Ma siamo in guerra; e la grafomania va repressa severamente, quando costa carbone.
La grafomania ed il lusso: quale necessità vi è che si continuino a fabbricare vetrerie e ceramiche, anch’esse consumatrici cospicue di carbone? Si può benissimo dar fondo alle quantità esistenti di piatti, bicchieri, ordinari e di lusso, e si può, finché si è in guerra, fare a meno di adornare le nostre case e le nostre tavole con ceramiche e vetrerie di pregio. Niente di male se si mangi in scodelle ed in piatti slabbrati. Piccolissimi sacrifici, in paragone agli altri che la guerra richiede.
Né sarà grande il sacrificio imposto ai ricchi se sarà vietato alle fabbriche d’automobili di vendere vetture a privati. Ignoro se le fabbriche d’automobili abbiano ancora mezzo di fabbricarne per usi non militari. Se sì, sprecano carbone che dovrebbe essere riservato a cose più necessarie. Le vetture già pronte o quasi finite siano riservate all’esportazione all’estero, nei paesi neutrali, per creare cambi.
C’è davvero bisogno fino a che dura la guerra di consumare stoffe di lana, di seta o di cotone, oltre un dato minimo? Salvo che producano per esportazione, ed anche in questo caso solo quando sia certa la convenienza relativa di continuare a produrre; e salvo che si tratti di forniture militari, il carbone dovrebbe essere rifiutato a tutti i cotonifici, lanifici, setifici, stamperie che producono manufatti non ordinari e semplicissimi. E se di questi constasse esservene provviste sufficienti, non vedo il vantaggio di seguitare a produrne. In Germania occorre una licenza per potersi far fare un abito nuovo. L’idea, in tempo di guerra, è ottima; e non so perché non si possa giungere allo stesso risultato, almeno attraverso il rifiuto del carbone.
Perché continuare a dar carbone alle fabbriche di calce, cementi e laterizi, salvo che sia dimostrato che servono per le trincee o per costruzioni urgenti di stabilimenti militari od ausiliari? Pare che sia intervenuto o debba intervenire un decreto per sospendere lo scandalo della continuata fabbricazione del palazzone di piazza Colonna a Roma: ma vi sono ancora a Roma ed altrove ministeri, municipi ed enti che fanno costruire; vi sono in Piemonte costruzioni di linee ferroviarie più o meno utili che seguitano ad assorbire ferro, ed indirettamente attraverso alla calce ed ai cementi e mattoni, carbone. Di che cosa si occupano i ministri del ramo, se non fanno sospendere questi incredibili sprechi di materiali e di lavoro? Di mattoni non v’è alcuna necessità di fabbricarne, salvo casi eccezionalissimi, dei nuovi, poiché le esistenze sono sufficienti a provvedere il consumo per ben oltre l’anno in corso.
Si comprende che non si possono chiudere i gazometri delle grandi città, dove la popolazione non saprebbe a che altro mezzo ricorrere per illuminarsi e far cucina. Ma i gazometri delle piccole città potrebbero essere chiusi. Servono assai mediocremente alla fabbricazione del toluolo e del gazolo; fanno perdere denari ai municipi ed alle società che li esercitano. Ed i consumatori possono ricorrere alla legna, che nei piccoli centri non è difficile procurarsi.
II
Se intorno alla necessità di limitare il consumo del carbone non vi possono essere dubbi, si possono fare obiezioni al concetto di negare addirittura il carbone ad alcune industrie. Due sono le obiezioni principali: il danno alle esportazioni ed il pericolo di creare disoccupati.
Risparmiare carbone è necessario, si dice; ma se voi chiudete le fabbriche, le quali esportavano all’estero, voi risparmiate bensì rimesse all’estero, in pagamento del carbone risparmiato, ma non riscuotete più le rimesse per le vendite di carta, di ceramiche, di seterie e di altre merci che non potrete più fare all’estero. Il risparmio nel carbone è di 10; ma la perdita per le minori vendite all’estero è maggiore, poiché presumibilmente i fabbricanti italiani non comprano ora il carbone per lavorare in perdita. Le industrie esportatrici guadagnavano per sé ed il paese fior di quattrini; ed a questi guadagni si deve rinunciare, con una perdita netta per il paese, quando si rifiutino le somministrazioni di carbone.
L’obiezione è seria; ma non esauriente, il problema è più complesso di quello che risulterebbe dal semplice confronto fra una spesa di 10 per l’acquisto del carbone ed il guadagno di 20 per la vendita all’estero dello stesso carbone trasformato in carta, vetrerie, ceramiche, ecc. ecc. Il calcolo, corretto per quella particolare industria, può non esserlo più se si bada al complesso delle industrie ed alla intiera collettività. Antagonismi di questa specie non sono ignoti neppure in tempo di pace; quantunque vi sia una grandissima probabilità, la quale di solito arriva alla certezza, che il meccanismo dei prezzi abbia ad aggiustare le correnti commerciali in guisa da ottenere il massimo utile collettivo. Ma in tempo di guerra le cose vanno diversamente. Vi è un dato fisso, che non si può mutare: le tonnellate di carbone importabili sono tante e non più. Ora può essere vero che l’industria della carta e della ceramica guadagna pagando il carbone caro perché lo rivende a prezzo doppio. Ma frattanto quel carbone, essendo sottratto da una quantità fissa non aumentabile, è portato via ad un’altra industria. E se questa non produce più abbastanza e se i suoi prodotti sono necessari alla condotta della guerra ed alla vita civile, quei prodotti dovranno essere importati dall’estero ad un costo di 25 o di 30. L’industria della carta ha lucrato, per l’esportazione, ed ha fatto lucrare al paese la differenza fra 20 e 10; ma il paese ha dovuto perdere la differenza fra 30, prezzo a cui ha dovuto comperare munizioni o tessuti all’estero e 15 o 18, prezzo a cui quelle munizioni o quei tessuti, se ci fosse stato il carbone, avrebbero potuto essere prodotti all’interno.
Insomma, lo stato deve vietare la produzione della carta, oltre un minimo, delle ceramiche o dei mattoni per il consumo interno. Tutto il risparmio fatto all’interno è tanto di guadagnato. Rifiutando il carbone, si impediscono le esportazioni all’estero da parte di industrie consumatrici di carbone; ma ciò è vantaggioso se il carbone sia necessario per industrie di guerra, per le ferrovie o per industrie produttrici di merci che dovremmo altrimenti acquistare all’estero con discapito ancora maggiore. Non basta constatare il lucro assoluto derivante dall’esportazione: fa d’uopo che vi sia altresì un lucro relativo. In tempo di pace, il calcolo del lucro relativo è fatto spontaneamente dagli interessati, in modo assai migliore di quanto potrebbe fare lo stato. Oggi, questo è il solo importatore di carbone; è il solo consumatore di gran parte dei prodotti dell’industria privata. Epperciò ad esso incombe l’obbligo di fare il conto del lucro relativo; e constatato che il maggior vantaggio si ottiene impiegando il carbone in certi dati modi, deve sopprimerne spietatamente la somministrazione per quegli usi in cui il vantaggio è minore.
La seconda obiezione è quella relativa alla disoccupazione. A Torino, a Milano, dovunque si parla della necessità di ridurre o sopprimere certi consumi e della conseguente necessità di ridurre o sopprimere talune produzioni per far posto ad altre più urgenti, si ode ribattere: ma voi volete creare disoccupati, voi volete togliere il pane di bocca a 5.000, a 1.000, a 500 operai, a centinaia di piccoli commercianti e bottegai. Ciò è inumano, impolitico e dannoso.
Inumane e dannose sono per fermo le sofferenze inflitte capricciosamente, le disoccupazioni evitabili. Ma qui il problema è diverso. È meglio che 1.000 operai appartenenti a due industrie diverse, l’una necessaria e l’altra temporaneamente superflua, siano tutti messi sul lastrico fra uno o due mesi quando il carbone venisse per amendue a mancare; ovvero che si riduca subito il lavoro e poi lo si faccia cessare nella seconda industria, risparmiando così il carbone bastevole a far andare innanzi la prima indefinitamente?
La scelta non può essere dubbia. Chiudendo gli occhi ed ascoltando le proteste dei sindaci e dei rappresentanti delle industrie minacciate, si prepara una più grave disoccupazione per l’indomani. Sopprimendo invece subito le somministrazioni alle industrie le quali vengono ultime nella scala della necessità, si ottengono i seguenti risultati:
- si assicura il carbone alle industrie più necessarie e si garantisce agli operai relativi una più lunga occupazione;
- si inducono gli operai delle industrie ridotte o soppresse a cercar lavoro altrove. Se si pensa alla «fame» di mano d’opera che ha la terra, la quale non ha, se non eccezionalmente, bisogno di carbone per produrre; se si pensa al grande interesse nazionale di intensificare la produzione delle derrate alimentari, si deve conchiudere che ogni paio di braccia tolte a certe industrie sarebbe la provvidenza per l `agricoltura. Sarebbe mano d’opera non specializzata, è vero; ma vi sono lavori agricoli, che è facile imparare. Trattasi dunque non di creare sul serio disoccupati; ma di spostare uomini da un impiego all’altro. Fa d’uopo di un po’ di tatto; e di una certa organizzazione per facilitare il passaggio. Se anche si dovessero dare sussidi di viaggio e consigli ed aiuti di varia specie ai disoccupati, il guadagno della collettività sarebbe sempre sicuro. In Germania ed in Inghilterra tutto ciò lo si è chiamato «servizio civile»; e si è ritenuto necessario favorirlo e persino imporlo. Perché solo in Italia vi dovrebbero essere pubbliche autorità pronte ad elevarsi, per malsano spirito di popolarità, contro provvedimenti così necessari e fecondi?
- creare una disoccupazione, che non è tale in sostanza, oggi può essere una valvola di sicurezza al ritorno della pace. Se non si saranno costrutti palazzi di piazza Colonna, palazzi di ministeri e di enti pubblici, se qualche ponte ferroviario in Piemonte sarà rimasto in asso, se ci saranno linee ferroviarie iniziate e poi sospese da ultimare, tanto meglio. Il ritorno alla pace sarà un momento di crisi e di nuovi adattamenti, in cui non si troverà subito lavoro per tutti coloro che avranno braccia disponibili. Quello, non l’attuale, sarà il momento dei lavori pubblici; quello sarà il momento di fabbricar mattoni, o vetrerie, o ceramiche; di tornare a far uscire i giornali di sei ed otto e dodici pagine; di consumare nuovamente zucchero raffinato; di vestire di nuovo panni fini, ed abiti eleganti. Non oggi.
Gli uomini di governo sentono certamente la solenne responsabilità del momento. Passiamo pure la spugna sugli errori passati; e mandiamoli agli archivi, in cui gli economisti dell’avvenire cercheranno la dimostrazione delle antiche verità sulla scarsa attitudine dello stato ad occuparsi di affari industriali. Ma oggi non si debbono più commettere errori di ritardo. Oggi non si deve più agire come se la guerra dovesse finire presto. Pensare ed agire così, sarebbe oggi imperdonabile. Le lezioni del passato non debbono essere state vane.
[1] Con il titolo Il razionamento progressivo del carbone. [ndr]
[2] Con il titolo Esportazioni e disoccupazione in rapporto alle provviste di carbone. [ndr]