Il protezionismo e i princìpi economici
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/03/1923
Il protezionismo e i princìpi economici
«Corriere della Sera», 29 marzo 1923
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 171-177
Signor direttore,
Faccio affidanza ancora una volta sulla cortesia del «Corriere» e Le indirizzo queste righe pregandola di consentirmi una replica all’onorevolissimo commento che il di Lei pregiato giornale ha fatto alla mia lettera apparsa nel numero di domenica 18 marzo.
Vi si dice che il protezionismo è manifestazione prettamente socialistica; non lo credo e neppure lo credono i socialisti stessi, almeno quelli che oggi vivono e militano nel campo socialista. Non mi addentrerò in una esposizione che dovrebbe riuscire anche più lunga di quella che il «Corriere» ha fatto per dimostrare il suo asserto; mi limiterò a citare quanto si riporta nello stesso numero del giornale. Nella rubrica «ultime di cronaca» parlando della riunione tenuta il sabato sera dai deputati socialisti unitari, si riferisce che essi unanimemente hanno deliberato di opporsi con ogni mezzo al protezionismo. Mi basta questo penso dunque di non essere un socialista, almeno nel modo che oggi lo si intende e lo si professa.
Il «Corriere» non vuole ammettere che il conte di Cavour potesse cambiare di opinione; dimostrargli il contrario non riescirebbe facile, però il «Corriere» dovrà riconoscere che il conte di Cavour, facendosi padre del partito liberale, aveva di mira i vantaggi e la grandezza del suo paese; ora, poiché io penso – e con me molti altri, voglia consentirlo il «Corriere» – che la grandezza del paese, nell’epoca e nelle condizioni nelle quali viviamo, non si possa conseguire attenendosi a teorie liberiste, io persisto a credere che il conte di Cavour – magari a malincuore e costrettovi dal contegno e dai criteri ai quali si attengono gli altri paesi – avrebbe accolti e praticati, sia pure nella minima misura possibile, i mezzi protezionistici.
In argomento, qualsiasi opinione è ammissibile e sarebbe presuntuoso l’asserto netto e preciso in un senso piuttosto che in un altro. Certo però, se si vuol giudicare spassionatamente, giova anche aver presente che il Piemonte era un piccolo, oserei dire piccolissimo stato, dove non esisteva una vera e propria industria e neppure vi era tendenza a farla nascere. In tali condizioni di cose, stolto poteva chiamarsi colui che avesse fatta professione di protezionismo.
Il «Corriere» non vuole si dica che l’Inghilterra è diventata protezionista e crede di avere ragione asserendo che soltanto sei industrie hanno fatto delle domande al riguardo; non voglio contraddire, però mi sia consentito notare che i provvedimenti protezionistici adottati dall’Inghilterra hanno una larghissima ripercussione negli scambi commerciali e difatti è certo che nessun produttore di merci estere che potrebbero vendersi in Inghilterra a prezzo minore di quello che costano le similari se fabbricate nell’isola, osa mandare colà i suoi prodotti, perché egli sa perfettamente che sulla semplice domanda di un suo concorrente inglese, egli sarebbe costretto a mettere in vendita i suoi prodotti al prezzo di quelli inglesi, il che equivale a dire che la merce resterebbe invenduta; quindi mezzi piccoli, ma risultati cospicui. Il «Corriere» non vuole si citi l’esempio dell’estero, ma santo Dio!, poiché noi viviamo in questo basso mondo, bisogna pure rassegnarsi a prendere in considerazione ciò che si fa all’estero; se là si fa male, dice il «Corriere», noi non dobbiamo imitare; ma sì, invece, perché se il fare il bene secondo il modo di vedere del «Corriere» non riuscisse di danno a noi, si potrebbe seguire l’avviso suo; ma se questo «far bene» ci danneggia, anzi ci rovina, e se questo «bene» è una astrazione, oserei dire sentimentale, proprio mi pare che non ci sia alcun che di male ad imitare quel male che fanno gli stranieri, sempre che però cotesto male ci faccia del bene. Del resto, se il «Corriere» desidera una prova degli effetti prodotti dai ribassi delle tariffe che noi andiamo facendo nelle trattative commerciali coll’estero, eccola: voglia, La prego, leggere la circolare che, a seguito delle larghe concessioni fatte alla Svizzera sui «raccordi per tubi», la ditta Fischer di Newhausen (Sciaffusa) ha indirizzato ai suoi corrispondenti italiani: «vi confermiamo il nostro telegramma odierno così concepito: entrando oggi in vigore nuovo trattato svizzero dazio raccordi svizzeri subisce diminuzione media lire oro 13,57 equivalente oggi lire carta 54,82 per quintale netto stop essendo però noi alleati associazione fabbriche tedesche e non godendo Germania nuovi dazi siamo costretti addebitarvi per nuove ordinazioni differenza dazio».
Ella vede dunque che il largo ribasso impostoci – perché fu una vera e propria imposizione della Svizzera, la quale minacciò di non concludere il trattato se non le si faceva questa concessione – costituirà un minor introito per le nostre finanze, ma non porterà beneficio neppure di un centesimo al consumatore italiano; evidentemente gli industriali stranieri hanno torto di comportarsi così, però è ad essi e non a noi che gioverà rivolgere critiche e rimproveri. Non Le pare?
Il «Corriere» ritorna sulla faccenda dei dazi americani per le automobili ed insiste – sempre per effetto della piena fiducia nella efficacia delle teorie – a ritenere che se si abolissero i dazi doganali italiani sulle automobili, queste ribasserebbero immediatamente di 13.000 lire; ora, tale asserto è enorme, per non dir peggio e fa stupire veramente chi lo ascolta, perché non solo i fabbricanti di automobili, ma tutti quanti sanno che in Italia la maggior parte delle fabbriche tira – come suol dirsi – la vita coi denti; si immagini, egregio direttore, se i nostri produttori, ed io che Le parlo ho l’onore di essere il presidente di una società che fabbrica appunto vetturette, non sarebbero ben lieti di ribassare immediatamente i loro prezzi se questo fosse possibile; no, i prezzi che si praticano oggi sono prezzi non tenuti elevati per effetto dei dazi doganali (sia sul prodotto finito che sulle materie prime), ma sono unicamente il portato dei conti di fabbrica, e stia pur certo il «Corriere» che se un margine vi fosse, quel margine subirebbe immediatamente delle grosse falcidie. Se quindi si vuol togliere il dazio sulle automobili, lo si faccia, ma contemporaneamente si sia ben persuasi che si dovranno chiudere tutte le fabbriche di automobili italiane.
Gioverebbe questo alla economia generale del paese? I medici condotti potranno sì provvedersi di una vetturetta, ma è probabile che molti degli ammalati non avrebbero più i quattrini per pagarli; noi avremo dato l’automobile a mille professionisti, ma avremo anche mandato a casa 100.000 operai; nessuno, credo, potrà asserire che questo sarebbe un risultato soddisfacente.
E veniamo al ferro. La commissione d’inchiesta sulle spese di guerra ha detto, e nel «Corriere» tale asserto venne citato a titolo d’onore, che è assai meglio importare una tonnellata di acciaio laminato piuttosto che tre tonnellate di materiali che occorrono per fabbricare quell’acciaio; or bene, vedasi qui quanto è accaduto da noi durante la guerra: «nell’agosto del 1918, quando la richiesta d’acciaio per usi bellici era intensissima, gli Alleati concessero all’Italia – in via straordinaria – 150.000 tonnellate di carbone e 70.000 tonnellate di ghisa alla condizione che essa si impegnasse ad aumentare la propria produzione mensile di acciaio da 60.000 a 100.000 tonnellate». Risulta dunque che in tempi calamitosi e difficili neppure l’estero è desideroso di darci materiali lavorati, in momenti cioè nei quali ha anch’esso scarsità di prodotti. Ciò dimostra che, se in tempo di pace la produzione nostra può non essergli gradita, durante la guerra essa gli fu graditissima, tanto da desiderare che venisse fortemente intensificata. Vogliamo noi distruggere le nostre ferriere? Ripeto ciò che ho già scritto: nessuno in Italia, che io mi sappia, fatta forse una sola eccezione, oserebbe dire di sì, ed anche quella eccezione – c’è da giurarlo – se fosse investita della responsabilità di governo – saprebbe, poiché si tratta di un eminente patriota, contenere la propria intima convinzione, subordinandola a quelli che sono gli altissimi e supremi interessi della patria.
Dice il «Corriere» che senza i dazi protezionisti, capitale e mano d’opera si sarebbero «arrangiati». Può essere, però come sarebbe avvenuto questo «arrangiamento»? Lo dice nella sua relazione letta mercoledì scorso al congresso della Camera di commercio internazionale a Roma il dott. Alberto Pirelli; là dove parla dell’emigrazione, egli constata che dagli 872.000 emigranti del 1913 siamo discesi a 92.000 nel 1922. È mai possibile credere che le altre 780.000 persone rimaste in paese potessero «arrangiarsi» se i dazi non avessero permessa all’industria di sviluppare largamente ogni sorta di lavorazione?
Mi consenta il «Corriere» di essere alquanto meravigliato della paternale che rivolge a me in particolare ed ai protezionisti in genere, asserendo che noi diamo consigli; davvero, mi pare proprio che si possa invertire l’asserto; i protezionisti, che io mi sappia, tacciono perché temono sempre che l’esposizione delle loro teorie li ponga in mala vista; ho detto l’altro giorno che le teorie protezioniste non sono simpatiche; sono i liberisti, e segnatamente il «Corriere» insieme ad altri giornali che tutti i giorni fanno ampia professione delle loro idee liberiste e danno consigli al capitale ed alla mano d’opera sul modo di regolarsi: consigli per vero dire incompleti, perché dire «arrangiatevi», è cosa facile, ma cosa vuol dire «arrangiarsi»? Qualche maggiore delucidazione non sarebbe superflua.
Confesso che sono rimasto un po’ stupito davanti alla teoria esposta dal «Corriere»: liberismo per il continente europeo e protezionismo per gli altri paesi; o il liberismo è buono, e dobbiamo allora volerlo sempre e per tutti; o è cattivo, ed allora deve in ogni caso arrecare danno: senonché questa concessione che il «Corriere» fa è preziosa, perché non è vero che un paese di 40 milioni di abitanti sia un piccolo stato; non si può paragonare una nazione di 40 milioni di abitanti ad una città di 4.000 od anche di 40.000, la quale metta dei forti dazi sulla produzione industriale del sobborgo; la concorrenza che si sviluppa in un paese di 40 milioni di abitanti è tale che se il margine di guadagno lo consente, essa annulla qualsiasi dazio; questo caso già si è manifestato in parecchie occasioni ed abbiamo avuto esempi cospicui, oserei dire meravigliosi, degli effetti della concorrenza.
Anche oggi in Italia vi sono prodotti che si vendono ad un prezzo che non tiene alcun conto dei dazi doganali; anzi, è inferiore all’ammontare del dazio stesso: perché ? perché i produttori in aperta lotta fra di loro ribassano i prezzi fin dove è possibile. È chiaro, è evidente che una forte protezione fa crescere le unità di produzione e susseguentemente la concorrenza che si stabilisce fra di loro elimina qualsiasi protezione doganale.
Ha ragione il «Corriere» quando dice che non vi sono industrie «naturali» o
industrie «innaturali»; senonché non sono certo i protezionisti gli inventori della teoria delle industrie «naturali», i protezionisti non si oppongono all’abbassamento dei dazi, anzi spontaneamente lo fanno quando la concorrenza li ha resi inutili: ad esempio nella nuova tariffa del ’21 il gravame per i manufatti di cotone ha subito un ribasso in confronto ai dazi della tariffa dell’87.
L’industriale chiede il dazio unicamente quando sa – anzi è certo – che senza la difesa del dazio di confine la sua industria non potrà vivere; la concorrenza estera che può produrre in condizioni più favorevoli per molteplici ragioni, crea la necessità della difesa che si è voluta chiamare «protezione»; e di protezione o di difesa l’industria italiana ha veramente bisogno perché , checché insegni la scuola, in linea agricola l’Italia è e rimarrà paese, se non povero, certamente non ricco e sovratutto non bisognevole di molte braccia; ora, poiché noi siamo un popolo fecondo, occorre – anzi è indispensabile che le braccia vengano usate per la produzione e la produzione, astrazione fatta dall’agricoltura, non è se non il risultato dell’industria. Abolire i dazi vuol dire, lo creda, egregio signor direttore, uccidere molte industrie italiane, e questo né Lei, né alcun altro degli eminenti uomini che la circondano vuole per certo in alcun modo.
Giovanni Silvestri
PS. Per quanto si riferisce ai numeri indici, dal prospetto compilato dal municipio di Milano rileverà che il punto massimo fu raggiunto nel maggio-giugno del ’21; di poi, se la diminuzione è piccola certo però, per lo meno a Milano, non si può dire vi sia aumento.
Per ribattere le idee contenute nella lettera del comm. Silvestri bisognerebbe poter disporre di tanto spazio quanto fa d’uopo per spiegare le verità elementari economiche da cui il Silvestri, al pari degli altri protezionisti italiani, persiste nel volere tenersi lontano. Se i protezionisti consentissero a riconoscere una verità umile, riconosciuta da tutti i tecnici i quali studiano fisica o chimica o matematica: che cioè per discutere di economia bisogna prima studiarla, come, per discutere di fisica, fa d’uopo conoscerne i principii; se si persuadessero del torto enorme che essi fanno a se stessi tacciando di dottrinarismo quei principii i quali altro non sono se non la pura e semplice codificazione del buon senso e della esperienza di secoli, essi si accorgerebbero di perdere il tempo nel polemizzare con una cosa di cui negano l’esistenza. Cominci il Silvestri a studiare gli argomenti, in parte soltanto riprodotti nella nostra risposta, in base a cui gli economisti hanno dimostrato, chiaro come il sole, che il dazio non crea alcuna nuova ricchezza, ma soltanto sposta l’impiego delle ricchezze già esistenti. Quando egli, cosa che sarebbe mirabilissima e costituirebbe tale una scoperta da rendere il suo nome immortale negli annali della scienza, riuscisse a dimostrare che quella tesi, fatte le riserve già ripetute dagli economisti, non è vera, nessuno più gli contenderebbe il diritto di affermare enormità come quella in cui tutta la presente lettera si sostanzia: «doversi concedere protezione o difesa o dazi a tutti quegli industriali la cui impresa non può altrimenti resistere alla concorrenza estera». Se questa, invece di una enormità, fosse un principio saldo, come pare ritenere il Silvestri, allora avrebbe ragione questi nell’affermare che i protezionisti non sono della stessa famiglia dei socialisti, che Cavour, se fosse vivo, invocherebbe i dazi, che nel Piemonte dal 1850-1860 non esistevano industrie e non c’era chi volesse farle nascere; che i dazi fanno del bene a coloro a cui rincarano i compensi; che anzi i dazi non rincarano nulla e invece sono la ricetta infallibile per far andar giù i prezzi; che il modo migliore di assicurare lavoro agli operai è di rincarare le automobili; che tre è meno di uno; che i protezionisti, quando invocano l’aiuto del governo per difendere questa o quella industria, non consigliano al risparmio di investirsi in quelle stesse industrie, ma i consigli son dati dai liberisti appunto perché se ne lavano le mani e si fidano più del fiuto degli industriali che dei proprii imparaticci in campo estraneo a quello di loro competenza. Tutte queste cose incredibili, stupefacenti si leggono nella lettera del Silvestri; e devono apparire verità assiomatiche alla mente di chi evidentemente è persuaso, che i dazi sono necessari alla prosperità del paese, e sono capaci di creare capitali e di dar lavoro. Non sappiamo se il comm. Silvestri aspiri, col dare la dimostrazione finora non mai data di queste asserzioni contestate dagli economisti, ad un posto nel Pantheon dei grandi maestri della scienza economica. Probabilmente no, ché egli è un valoroso industriale, il quale ha scarso tempo disponibile per gli studi astratti. In tal caso egli si rassegni però a cambiar premessa: ad ammettere cioè che, in linea generale, i dazi doganali distruggono ricchezza e sono quindi dannosi al paese che li istituisce. Gli sarà facile, allora, riconoscere che gli economisti hanno anche dimostrato che, in taluni casi, può essere conveniente sopportare il danno per
ottenere certi ben definiti risultati economici, politici e sociali. Fatta questa premessa, si potrà discorrere; e il comm. Silvestri si accorgerà che la scienza economica fa, per la collettività, quella stessa cosa che egli fa ogni giorno per la sua azienda: pesare danni e vantaggi e rigettare il danno quando non sia superato dal vantaggio. Il conto della serva insomma; ma nel farlo, ragion vuole che non si badi soltanto alle vivande messe in tavola, ma alle lire, soldi e danari che esse sono costate. Il Silvestri fa le gran meraviglie perché noi avevamo detto che, senza il dazio, le vetturette automobili si venderebbero a 13.000 lire di meno del prezzo attuale e si affanna a dire: «ma no, ché le vetturette ci costano proprio 28.000 lire e stentiamo la vita a darle a così poco!» Eh! sapevamocelo; ed è appunto questo il costo dei dazi! Se i dazi proteggessero solo le vetturette che i fabbricanti producono a 15 e vendono a 28.000 lire, il danno ci sarebbe, perché non c’è ragione di far passare le 13.000 lire di differenza dalle tasche del medico a quelle del fabbricante; ma almeno le 13.000 lire sarebbero un guadagno netto di costui. Brutto guadagno, ottenuto malamente con la forza della legge e non con la propria abilità; ma guadagno. Il guaio è per l’appunto, come dice il Silvestri, che il medico paga le 13.000 lire ed il fabbricante non le guadagna, perché se ne vanno in costi e spese. Quando i protezionisti vorranno degnarsi di cominciare a discutere partendo dalla premessa che i dazi sono un costo, ossia una perdita, ossia un danno?