Opera Omnia Luigi Einaudi

Il problema degli impiegati

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/12/1917

Il problema degli impiegati

«Corriere della Sera», 4 e 29[1] dicembre 1917, 23 gennaio 1918[2], 31 gennaio 1918[3]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 586-604

 

 

I

Uno stelloncino pubblicato alcuni giorni fa sul «Corriere» intorno al rialzo del costo della vita per gli impiegati ed alla necessità di ridurre le spese per altri ha dato luogo, da parte di molti lettori, ad equivoci di interpretazione, che è bene chiarire.

 

 

Diceva lo stelloncino, dopo avere affermato che gli impiegati avevano in gran parte ragione nel chiedere un aumento di stipendio a cagione del rinvilio di valore della moneta, che vi era un rovescio della medaglia. «Una delle cause principali per cui i generi alimentari e tutti gli altri oggetti sono cari è che la gente nella sua grande maggioranza ha più moneta da spendere e la spende. È un fatto di esperienza comune che oggi circola molto più denaro che non prima della guerra. Purtroppo i più lo spendono. Se invece lo tesoreggiassero, lo portassero alle casse di risparmio, come potrebbero tutti i prezzi crescere tanto? Crescerebbero alcuni prezzi, quelli delle merci comperate dallo stato o dagli industriali fabbricanti di munizioni; ma se il denaro, appena emesso dallo stato, fosse riportato alle casse di risparmio od investito in buoni del tesoro, come potrebbero gli altri generi crescere tanto? La rinunzia alle cose inutili e la riduzione del consumo delle cose necessarie è dunque un dovere per non fare rialzare i prezzi e per non rendere la vita difficile a coloro il cui reddito non è aumentato».

 

 

Parecchi impiegati scrissero al giornale protestando contro il consiglio di risparmiare che sarebbe stato, con queste parole, dato agli impiegati. Atroce ironia, dicono essi, questo consiglio dato a capi di famiglia il cui reddito è rimasto invariato o di poco cresciuto con la indennità di caro – viveri, mentre il costo della vita è cresciuto a dismisura!

 

 

L’equivoco è evidente. Il «Corriere» non aveva rivolto il consiglio di risparmiare a coloro il cui reddito è rimasto invariato, come sono gli impiegati a stipendio fisso, ma a tutti coloro, e sono maggioranza nel paese, i quali hanno più moneta da spendere e la spendono. Ed è anche evidentissimo che gli impiegati non possono in alcun modo sperare di vedere resa meno disagevole la loro condizione se gli altri, coloro il cui reddito è cresciuto, non sono indotti, per amore o per forza, a ridurre la loro domanda di merci.

 

 

Se, per fare un esempio schematico, in un paese ed in un dato momento vi sono 100 chilogrammi di carne in vendita e se i possibili clienti hanno 300 lire di reddito da spendere in carne, noi possiamo supporre che ogni chilogrammo di carne varrà 3 lire. Ma se i 100 chilogrammi di carne si riducono a 71 circa e se il reddito dei consumatori in carta-moneta disponibile per il consumo della carne aumenta nel complesso a 500 lire, ecco che il prezzo di ogni chilogrammo sale a 7 lire circa. Mentre però prima le 300 lire si dividevano in 150 lire spettanti ad impiegati ed altri possessori di redditi fissi e 150 lire spettanti a commercianti, industriali, operai a reddito variabile, e quindi ognuna delle due classi poteva acquistare 50 chilogrammi di carne; dopo, gli impiegati ed i redditieri fissi sono rimasti con le stesse 150 lire disponibili, mentre gli industriali, i commercianti e gli operai sono saliti a 350 lire. Ecco che a 7 lire al chilogrammo, agli impiegati toccano solo 21 chilogrammi di carne invece di 50, mentre le altre classi, il cui reddito è aumentato, possono continuare a consumare i soliti 50 chilogrammi. L’esempio, come tutti gli esempi che si possono immaginare, rappresenta la realtà solo all’ingrosso; ma serve a dare un’idea abbastanza fedele di quanto è avvenuto. Gli impiegati hanno ragione di lamentarsi di essere rimasti con 150 lire e di dover ridurre il consumo della carne da 50 a 21 chilogrammi; ma è chiaro che l’aumento degli stipendi del loro gruppo non sarebbe un rimedio bastevole. Occorre anche, oltre all’aumento di stipendio, il quale per necessità fatale del bilancio dello stato dovrà essere inadeguato e provocherà un nuovo aumento di prezzi, che le altre classi sociali non consumino tutto il loro reddito cresciuto. Se gli industriali, gli agricoltori, i commercianti, gli operai i quali hanno disponibili, nel loro gruppo, 350 lire, seguitassero a dedicare al consumo della carne solo 150 lire e risparmiassero il resto, probabilmente il prezzo della carne non salirebbe da 3 a 7 lire. La quantità di moneta da dare in cambio della carne (o, s’intende, delle altre derrate e merci) essendo minore, forse i prezzi rimarrebbero sulle 4-5 lire al chilogrammo. Amendue i gruppi dovrebbero ridurre il consumo da 50 a 35 chilogrammi, essendo la carne disponibile scemata da 100 a 70, ma la riduzione sarebbe distribuita equamente sulle varie classi sociali.

 

 

Perciò le classi, il cui reddito è rimasto stazionario od è poco cresciuto, non debbono rimanere indifferenti di fronte al lusso ed allo spreco degli arricchiti e delle classi che guadagnano di più di prima. Ogni maggior consumo, ogni consumo inutile, ogni spreco da parte di costoro è una spinta al rialzo dei prezzi, è una privazione nuova inflitta a coloro il cui reddito non è variato. Il risparmio non è solo un dovere verso lo stato, verso la collettività; ma anche un obbligo verso coloro a cui la sorte è stata meno benigna. È un errore dire che i salari, i guadagni, gli stipendi crescono perché il costo della vita è cresciuto; od almeno è una mezza verità la quale si potrebbe anche rivoltare, dicendo: i prezzi crescono ed il costo della vita aumenta, perché il reddito, perché i salari, i guadagni e in minori proporzioni gli stipendi cresciuti permettono ai consumatori di spendere di più. È il vecchio litigio dell’uovo e della gallina: tempo perso andar ricercando chi sia venuto al mondo prima.

 

 

Le osservazioni ora fatte non tolgono tuttavia forza alla giustificata richiesta degli impiegati di ricevere un sollievo alle loro sofferenze mercé un aumento di stipendio sensibile ed immediato. Diceva lo stelloncino incriminato: poiché il costo della vita è aumentato del 50%, è giusto che si dia agli impiegati un indennizzo, almeno parziale, per il rinvilimento della moneta in cui essi sono pagati. Le proteste giunsero numerose, sovratutto contro la percentuale del 50% che sarebbe stata, secondo lo stelloncino, la misura dell’aumento. No, si dice: non si tratta del 50%, bensì del 100, del 150, persino, a detta di taluni, del 250%. E quindi un aumento degli stipendi del 50% sarebbe di gran lunga insufficiente.

 

 

Anche qui bisogna eliminare gli equivoci. Certamente, se noi supponiamo che l’impiegato continui oggi a vivere con lo stesso tenore di vita del 1914, consumi la stessa quantità di vivande, di vestiti, di luce, di legna, ecc. ecc., non basta un aumento di spesa del 50%. Il signor Guido Del Monaco ha pubblicato sul giornale di classe «Il miglioramento» un bilancio-tipo dell’impiegato, con moglie e due figli al disotto dei 10 anni. Nel 1914 occorrevano lire 3,70 per il vitto, calcolato ai prezzi medi, ed oggi 8 lire, calcolando i prezzi minimi. Per le spese diverse (affitto, vestiario, riscaldamento, ecc.) da 3,60 si sarebbe passati a 6,60: in tutto da 7,30 a 14,60, esattamente il doppio.

 

 

In massima le cifre del Del Monaco, per un bilancio di 3.000 lire lorde e di 2.700 circa nette da imposte e trattenute, possono essere ritenute accettabili. Tuttavia, se noi vogliamo passare dal bilancio-tipo al bilancio reale, delle spese che si dovrebbero fare a quelle realmente verificatesi in famiglie di impiegati, le quali hanno tenuto i loro conti in maniera esatta, fa anche d’uopo dire che un aumento di spesa del 100% è un’eccezione. Ho esaminato parecchi di questi bilanci, i quali vanno, od andavano, nel 1914, precisamente da una spesa di 3.000 lire-reddito modesto, corrispondente a quello di moltissimi impiegati con famiglie piccole e non molto innanzi nella carriera, compresi nello stipendio gli accessori, le gratificazioni ad una spesa di 12.000 lire, corrispondenti allo stipendio, accessori compresi, dei direttori generali, dei consiglieri di stato, degli alti magistrati, ecc. Orbene, l’aumento complessivo, di fatto verificatosi, oscilla dal 10-20 al 30-40%. È più alto nei bilanci più ristretti, più basso nei bilanci più elevati; il che è intuitivo, essendo più agevole ridurre le spese laddove c’era un margine oltre l’indispensabile, che non dove già prima ci si doveva limitare al necessario. Come si sia potuto limitare l’aumento di spesa ad una percentuale inferiore a quella del 100% (la quale risulterebbe dal bilancio-tipo), è noto a tutti coloro che hanno dovuto fare i conti di famiglia in questi anni di guerra. Il primo capitolo eliminato fu quello dei pochi divertimenti, che gli impiegati potevano permettersi. In molti casi, finora nella maggioranza dei casi, un grosso capitolo delle spese, quello del fitto di casa, in virtù di contratti in corso, di decreti luogotenenziali, di consuetudini, non aumentò. Gli abiti si fecero durare più a lungo; talvolta per un anno intiero si rinunciò a rinnovarli. Vecchi soprabiti e vecchie giacche furono rivoltati e tornarono a fare una decente figura. Coloro i quali sul loro stipendio mettevano da parte qualche risparmio, costretti dalla dura necessità vi rinunciarono. La qualità delle vivande divenne meno buona; al burro si surrogarono margarina ed altri grassi. Su molte tavole il vino cessò di fare la sua comparsa.

 

 

Non contro queste rinuncie elevano gli impiegati la loro protesta. Essi hanno dato prova di sapere pazientare e restringersi fin dove era possibile. Ma vi è un punto al di là del quale non si può andare; e non è interesse dello stato si vada. questo punto giunge quando bisogna ridurre il vitto al disotto di quel limite che è fisiologicamente necessario per la buona salute; quando le scarpe, non rinnovate a tempo, sono cagione di malanni; quando in casa non vi è legna abbastanza per riscaldarsi tollerabilmente; quando fa d’uopo rinunciare a cure mediche che sarebbero necessarie. Lo stato ha interesse a che i suoi impiegati possano prestare un lavoro efficace ed ha un interesse ancor più grande a che le nuove generazioni vengano su sane e robuste. Lo stato non può chiudere gli occhi dinanzi a questi che sono suoi doveri strettissimi. O non ha forse, d’altra parte, ufficialmente riconosciuto che la lira non è più quella di prima, decretando che invece di 100 lire si debbano pagare, per dazi doganali, 150 lire in carta-moneta? La regola la quale è buona per ricevere, perché, sia pure con diverse percentuali, non dovrebbe essere buona per pagare?

 

 

L’azione degli impiegati dello stato, degli altri enti pubblici, delle società ed imprese private dovrebbe svolgersi dunque secondo queste direttive:

 

 

  • Ottenere un aumento nell’indennità per caro-viveri, la quale oggi si aggira sulle trenta lire al mese e si ferma alle 4.500 lire lorde. O che forse gli impiegati con stipendio maggiore non hanno dovuto far fronte a spese cresciute? Non accade che essi abbiano spesso famiglie più numerose da mantenere, con figli in età in cui vitto, vestiti, libri scolastici costano maggiormente? La guerra ha reso la posizione dei capi delle amministrazioni pubbliche ancor più intollerabile di quanto prima non fosse. I direttori generali, ai quali sono affidati interessi gelosissimi, che talvolta amministrano centinaia di milioni di lire sono pagati con 10.000 lire lorde, uguali a circa 8.500 lire nette. Con tutti gli arrotondamenti di diarie, commissioni ecc. potranno giungere ad 11.000; e con queste l’alto funzionario deve tenere una posizione, un decoro, dar prova di intelligenza, di capacità organizzatrice, di rettitudine quali l’industria privata pagherebbe con stipendi almeno cinque volte superiori. Se non si pone rimedio a questa disparità di trattamento, ben presto le pubbliche amministrazioni saranno disertate da quei probi uomini di valore che ancora vi restano. Già ora, a cagion d’esempio, le dimissioni spesseggiano nel corpo degli agenti delle imposte, corpo a cui sono affidate funzioni gelosissime, e dalla cui intelligenza ed onestà dipende l’incasso per lo stato di centinaia di milioni di lire in più od in meno. Il rinvilio della moneta minaccia di ridurre le pubbliche amministrazioni ad un’accozzaglia di gente inetta o scoraggiata; improduttiva sempre e costosissima all’erario. Le indennità oggi imperiosamente richieste per tutti gli impiegati, dai più umili ai più elevati, sono per ora urgenti per salvare lo stato dalla bancarotta amministrativa. A pace fatta, bisognerà riformare a fondo. Adesso urge impedire semplicemente lo sfacelo.
  • Chiedere che le indennità siano meglio graduate in ragione del numero dei componenti la famiglia. Si tenga pur conto, per impedire abusi, della sola moglie e dei figli in minore età. Ma si pensi a porre la mente dell’impiegato in condizioni di tranquillità rispetto alla famiglia. Del resto, anche dopo la guerra, lo stato dovrà tener conto della figliuolanza nel determinare la remunerazione dei suoi funzionari e le imposte gravanti sui cittadini. Per molti anni lo stato non potrà dimenticare di avere un interesse diretto a favorire le famiglie numerose.
  • Segnalare tutte le occasioni ed i modi con cui gli impiegati potrebbero ottenere guadagni supplementari. In ciò l’industria privata riesce assai meglio dello stato, sicché gli obblighi d’aumento di stipendi possono per essa essere meno accentuati che per lo stato. Ma anche questo, oggi che le chiamate hanno diradate le file della burocrazia, dovrebbe interessare i pochi rimasti a fare il lavoro degli assenti.
  • Spingere lo stato ad attuare una forte politica di imposte, correttamente e severamente repartite. Gli impiegati non si debbono solo preoccupare di ottenere un aumento di stipendio. Poiché è impossibile che l’aumento basti a riportarli alle condizioni antiche, essi devono cercare di diminuire la capacità di acquisto degli arricchiti e di tutti coloro che guadagnano più di prima. Praticamente ciò vuol dire che gli impiegati hanno interesse a far propaganda e ad agitare l’opinione pubblica in favore di una severa applicazione delle leggi d’imposta esistenti e della istituzione dell’imposta complementare sul reddito. Tutti vi dovranno sottostare, anche gli impiegati, ma il lieve sacrificio sarà di gran lunga compensato dalla decurtazione dei redditi di coloro che oggi spingono all’aumento dei prezzi.
  • Far propaganda a favore del risparmio volontario. Presso le masse operaie la voce degli studiosi non è ascoltata. Le nostre parole sono accolte con diffidenza, come quelle che verrebbero da «economisti difensori prezzolati dalla borghesia». Ma quando le organizzazioni degli impiegati, studiando a fondo il problema, si persuadessero dell’interesse grande che hanno le classi a reddito fisso nel veder risparmiare le classi a reddito variabile, un gran passo sarebbe fatto. Bisogna battere e ribattere sul chiodo: non basta aumentare il reddito degli impiegati; fa d’uopo anche che gli altri, il cui reddito in causa della guerra aumentò, si astengano dal consumare tutto il sovrappiù.

 

 

II

Le molte lettere ricevute in seguito all’articolo pubblicato su queste colonne sul problema degli impiegati dimostrano che l’argomento è vivo e la necessità di provvedere è sentita in grado acutissimo. Naturalmente le osservazioni, le critiche e le proposte si incrociano e non di rado sono contradditorie le une alle altre, sebbene un certo consenso generale si manifesti sui punti essenziali. Si riconosce da tutti la necessità di spingere le altre classi, quelle le quali godono di redditi variabili ed aumentati in conseguenza della guerra, a risparmiare nella misura massima possibile. I più ritengono tuttavia che questo sia un rimedio «teorico». Mi sia permesso di osservare che sempre l’opinione pubblica ha considerato «teorici» i soli rimedi veramente efficaci ai malanni sociali. Crescono i prezzi delle sussistenze in modo disordinato? E la gente grida all’accaparramento, alla speculazione, alle ladrerie, all’ingordigia dei produttori e dei commercianti ed invoca fulmini e saette, requisizioni, calmieri, gestione governativa delle industrie, non pensando che l’accaparramento e la speculazione sono conseguenze del rialzo dei prezzi e che agli speculatori è indifferente speculare al rialzo od al ribasso – dal 1880 al 1900 quante lagnanze inutili non muovevano gli agricoltori e gli industriali contro gli speculatori al ribasso sulle derrate agricole e sulle merci! – quando rialzo o ribasso tendono già a verificarsi per altre cause. Non riflettono costoro sovratutto che una organizzazione qualsiasi, dello stato ovvero del privato commercio, è necessaria per produrre e per distribuire le derrate; che si può distruggere il commercio privato solo a condizione di aver qualche organismo migliore da sostituirvi. Ma se stato e comuni sono a gran fatica e molto imperfettamente capaci di assolvere una piccola parte dell’immane compito di far vivere un paese, se l’esperienza di secoli e quella della guerra presente dimostrano essere chimerico sperare che stato e comuni possano risolvere il problema della vita a buon mercato, giuocoforza è lasciar vivere agricoltori, industriali e commercianti affinché dal proprio interesse siano spinti a soddisfare ai bisogni della collettività.

 

 

Del resto, qui non è la causa del male; ed è infantile prendersela con le conseguenze e con i fenomeni accompagnatori del rialzo dei prezzi, quando abbiamo tutti dinanzi agli occhi la verità: ed è che i prezzi salgono perché fortissimi gruppi sociali, oserei dire la maggioranza della popolazione, ha maggior quantità di moneta da spendere e la spende facendo domanda di merci e derrate di consumo. Bisogna ridurre la quantità di moneta in possesso del pubblico:

 

 

  • colla forza, il che vuol dire con imposte straordinarie di guerra, giustamente ripartite;
  • colla persuasione, spingendo coloro il cui reddito è cresciuto ed in genere tutti quelli il cui reddito è superiore al minimo, indispensabile per vivere sanamente, a risparmiare, destinando i risparmi a depositi, in casse o banche, ad acquisti di titoli di stato e ad investimenti per impianti necessari nel presente momento.

 

 

Taluni impiegati affermano che essi pagano già troppe imposte e che la loro voce è inutile a persuadere i ricchi, gli arricchiti, gli operai, i contadini a risparmiare, e perciò se ne lavano le mani, e solo reclamano una indennità per caro-viveri. È un atteggiamento egoistico, chiuso, contrario agli interessi della classe degli impiegati. Chi può negare l’efficacia dell’opinione pubblica sul comportarsi degli uomini? Quante cose non si fanno per «rispetto umano» ? Quando le signore, le quali osano comprare in questi tempi gioielli, vestiti, cappellini, scarpette ed altri fronzoli di lusso si vedessero fatte oggetto del pubblico disprezzo, sia pure manifestato in forme urbane, non oserebbero più farsi vedere se non in abito modesto e mancherebbe la ragione dello spendere. Quando nei ristoranti le richieste di cibi fini e soverchi e di vini costosi sollevassero negli astanti osservazioni giustamente severe, vi sarebbe meno spreco. Chi può negare l’efficacia dell’opera di persuasione delle associazioni di impiegati sulle consorelle associazioni operaie e di queste sulle masse organizzate? Le imposte nuove e specialmente quelle sul reddito complessivo, sono necessarie per ridurre la capacità di spendere di coloro che spendono troppo; ma chi non vede come la miglior maniera di persuadere la pubblica opinione e gli uomini di governo della necessità di tassare sia non già di dichiarare a priori che l’imposta la devono pagare solo gli altri, bensì di profferirsi pronti a pagarla altresì noi medesimi. S’intende che, dovendo l’imposta globale tener conto dei carichi di famiglia (numero dei figli, genitori vecchi a carico, ritenute pensioni, assicurazioni per malattia, infortuni, vecchiaia, in caso di morte, ecc. ecc.) e degli altri redditi eventuali dell’impiegato, essa lascerà immune l’impiegato con scarso stipendio, con molta famiglia e tasserà lo scapolo ed il ben provveduto. Che cosa si può trovare, salvo che ragionando egoisticamente, contro tutto ciò?

 

 

Soltanto dimostrando di essere consapevoli della solidarietà la quale avvince la classe degli impiegati alle altre classi sociali, soltanto subordinando il loro interesse a quello della collettività e perciò dando opera a proporre riforme e riduzioni di organici, semplificazioni di servizi, economie nella gestione, possono gli impiegati sperare di rendere la loro causa simpatica ed ottenere il soddisfacimento immediato del loro desiderio più urgente, che è un aumento ad una migliore distribuzione dell’indennità per caro-viveri.

 

 

Che lo stato faccia qualcosa subito è davvero imperioso. Le lettere ricevute mi hanno fornito una messe di casi pietosi e talvolta atroci. Impiegati che soffrono la fame, che devono far lavorare moglie e figlie in umili mestieri per sfamarle; famiglie le quali resistono a privazioni inaudite solo perché hanno alto il sentimento dell’onore; altre, in cui i freni morali sono meno solidi ed il marito chiude un occhio sulle fonti non pure con cui la moglie riesce a tirar su la figliuolanza; uomini con 30 anni di servizio, da anni posti a capo di importanti e delicatissimi uffici, i quali godono dell’ annuo stipendio di 4000 lire, meno di 10 lire nette al giorno. Con che animo si può servire lo stato in simili condizioni? Leggasi ciò che mi scrive un sostituto procuratore del re, il quale firma, con nome, cognome e domicilio la sua lettera:

 

 

Non ho un millesimo all’infuori dello stipendio di lire 5.000 annue lorde, pari a 360 lire e dispari mensili. Ho tre figli nel ginnasio in fila indiana: prima, seconda e terza, fra i 10 ed i 14 anni. Pago cento lire mensili un modesto alloggio. Mi dica lei se, tolte le tasse scolastiche, quelle comunali e così via, resti tanto da poter nutrire, calzare e vestire i poveri figli. I volgari fagioli costano lire 2,60 al chilo, il carbone lire 5,20, un uovo mezza lira, un paio di scarpe è un disastro, un abito peggio. Io ho abolito la carne, ho abolito il vino: finora l’alimento era limitato ai farinacei. Dico «finora» perché viene a mancare anche quello. Vedere un bimbo che studia nella impossibilità (determinata dalla ripugnanza) di mandar giù della pastaccia acida e non potergli somministrare altro sapendolo ghiotto di carne e vederlo l’ indomani levarsi pallido e con gli occhi cerchiati di livido! E lo stato che fa? Vi dice: voi avete più di 4.500 lire lorde ed io non vi do un sol centesimo.

 

 

Chi scrive queste sconsolate parole è un magistrato. Appartiene cioè alla classe di pubblici funzionari che deve essere collocata più in alto di tutte, al disopra dei funzionari politici ed amministrativi, al disopra degli insegnanti, al disopra degli stessi rappresentanti elettivi, perché dalla sua coscienza, dalla sua indipendenza, dalla sua scienza dipendono la vita, l’onore, la libertà, gli averi di tutti i cittadini. Come può studiare libri di scienza ed incarti di processo, come può ascoltare serenamente imputati, testimoni, difensori, chi ha dinanzi alla mente continuo il pensiero della famiglia vivente negli stenti? Come non inorridire al pensiero che lo stato fa tali miserabili condizioni di vita ai membri di quella magistratura a cui pure affida il carico di dispensare la giustizia, che sempre fu detta fondamento dei regni?

 

 

Chiedasi dunque agli impiegati pubblici che essi facciano tutto il loro dovere, più del loro dovere; si dimostrino costoro degni dell’appoggio della pubblica opinione dimostrando di essere in grado di servire, in minor numero, meglio, più rapidamente, più cortesemente i cittadini, i quali ricorrono ai loro uffici; impongano essi, contro la ripugnanza di una frazione, misoneista od interessata dei loro capi, e coll’appoggio del pubblico da essi medesimi illuminato, ogni pratica semplificazione nei servizi. Ma lo stato cominci a rendere loro giustizia, quando essi la chieggono sul fondamento di ragioni irrefutabili. L’aumento generale delle indennità per caro-viveri, che oggi sono stabilite in misura insufficiente; la loro estensione a tutti gli stipendi, nessuno eccettuato, anche superiori alle 4.500 lire lorde; la loro commisurazione degressiva, in guisa che la percentuale d’aumento sia massima per gli stipendi minimi ed a mano a mano si riduca a misura che gli stipendi aumentano, senza mai divenire irrisoria; la loro commisurazione altresì ai carichi di famiglia, in guisa che poco o nulla riceva l’impiegato scapolo e più coloro che hanno figli in minore età od altrimenti incapaci a procacciarsi da vivere, più o meno a seconda del numero dei figli.

 

 

Taluno vorrebbe che si tenesse conto anche degli altri redditi che l’impiegato può possedere, falcidiando l’indennità a mano a mano che aumentano gli altri redditi, professionali o patrimoniali, che l’impiegato eventualmente possegga. Per ora la proposta è inattuabile, perché in Italia non esiste nessun mezzo serio di conoscere il reddito complessivo dei contribuenti. Ogni norma si volesse escogitare al riguardo darebbe luogo ad errori gravissimi. Ed è dubbio, del resto, se la proposta giovi all’interesse pubblico, perché gli impiegati sarebbero spinti a non risparmiare, per il timore di vedersi negata l’indennità di caro-viveri o l’aumento di stipendio qualora si accertasse l’esistenza di un reddito proveniente da risparmi precedenti. In questo momento, è difficile che gli impiegati possano risparmiare, salvo coloro i quali con redditi patrimoniali, con lavori straordinari o con l’esercizio, se consentito, di professioni integrino il nudo stipendio. Ma in tempi normali sono per fortuna abbastanza numerosi gli impiegati tenaci e parsimoniosi, i quali riescono a mettere da parte un peculio per far fronte ad eventi sfortunati o per aiuto alla famiglia. Costoro dovrebbero essere incoraggiati con premi o riduzioni d’imposta, non certo scoraggiati col togliere loro parte dell’indennità per caro-viveri. Hanno dimostrato di possedere qualità virili di rinuncia più dei loro colleghi; e dovrebbero, se possibile, godere di vantaggi nella carriera, poiché con tutta probabilità posseggono altresì qualità elevate di lavoro, di zelo, di capacità.

 

 

III

Attorno al problema degli impiegati sono sorti altri problemi minori, i quali interessano vivamente l’opinione pubblica, se debbo giudicare dalle numerose lettere che ricevo.

 

 

Gli impiegati privati desiderano che si pensi alla loro sorte, talvolta peggiore di quella degli impiegati pubblici, per la mancanza di sicurezza di pensione, di congedi ed aspettative pagate. Non sempre, in verità, la sorte degli impiegati privati è peggiore di quella degli impiegati pubblici. Una inchiesta eseguita alcuni anni fa dal prof. Pantaleoni dimostrò che in generale gli impiegati privati sono peggio pagati degli impiegati pubblici nei gradi inferiori degli impieghi d’ordine e stentano altresì di più ad ottenere aumenti dopo trascorsi gli anni della massima produttività. Invece gli impiegati di concetto ed i dirigenti sono subito meglio pagati dall’industria privata che dallo stato. Una minoranza di impiegati privati arriva alle 400-1000 lire al mese prima dei 30 anni; mentre gli impiegati pubblici debbono attendere, in identiche condizioni, assai più a lungo.

 

 

In queste constatazioni vi è sempre l’antico concetto: lo stato non sa servirsi dei giovani, degli avventizi, delle donne, dei cottimi e quindi è costretto ad affidare ogni lavoro, anche il più umile, che potrebbe essere sbrigato da ragazzi o giovani o donne in attesa di meglio, ad impiegati maturi, con famiglia. Perciò deve spendere molto, pur rendendo tutti malcontenti e pur pagando poco gli impiegati che rendono molto. Ciò dimostra anche che il problema degli impiegati privati presenta aspetti assai differenti da quello degli impiegati pubblici, sicché ad essi non si applicano le medesime provvidenze. Tuttavia, il problema fondamentale è per tutti lo stesso: la moneta rinvilita fa sì che le 100, le 200, le 500 lire d’un tempo equivalgono oggi a 60, a 120, a 300 lire. Occorre un riaggiustamento degli stipendi ai mutati prezzi. Ma si persuadano gli impiegati privati come i pubblici: se non vogliamo cadere in un circolo vizioso, se cioè non si vuole che l’aumento di stipendi non provochi un nuovo aumento di prezzi, per la maggiore richiesta di derrate e merci da parte degli impiegati, ed i prezzi cresciuti non facciano desiderare un nuovo aumento di stipendi e così via all’infinito, senza via d’uscita, fa d’uopo che:

 

 

  • tutti risparmino il più possibile;
  • ed investano direttamente od indirettamente i loro risparmi in prestiti di stato; affinché lo stato possa esimersi dall’emettere biglietti.

 

 

Se non si sospendono le nuove emissioni di biglietti, i prezzi continueranno ad andare sempre più su. È questa forse l’unica profezia sicura che gli economisti possano fare nel momento attuale. I prezzi d’oggi, già così alti, sembreranno fra qualche tempo mitissimi e sopportabilissimi, se coloro, il reddito della cui famiglia è aumentato dal 1914 in poi di più del 50 e 60%, non si decidono a risparmiare tutta l’eccedenza oltre la spesa del 1914, aumentata altresì del 50-60%. Chi aveva nel 1914 un reddito di 5.000 lire e risparmiava 1.000 ed oggi ha un reddito di 8.000 lire deve spendere solo 4.000 più il 60% ossia 6.400 lire e deve risparmiare 1.600 lire. La famiglia la quale aveva, coi salari di tutti i suoi componenti, un reddito di 2.000 lire nel 1914, e le spendeva tutte, se oggi ha un reddito di 4.000 lire, deve spendere solo 2.000 lire più il 60%, ossia 3.200 lire e risparmiare 800 lire. Questi sono esempi approssimativi, che ognuno può adottare ai casi suoi. Ma se non sì fa così, è facile prevedere che la vita diventerà ognora più dura per coloro il cui reddito è rimasto stazionario ed è cresciuto meno del 60%. Questi ultimi si facciano perciò propagandisti del prestito presso gli amici ed i conoscenti, che essi sanno avere qualche maggior larghezza di mezzi o salari o stipendi o guadagni familiari cresciuti oltre il 50-60% in confronto al 1914. Gioveranno allo stato; ma anche a se stessi.

 

 

Secondo le notizie che corrono sui giornali, il disegno di decreto che si sta elaborando a favore degli stipendi degli impiegati contempla anche gli ufficiali ed i maestri elementari. Non ci sarebbe invero alcuna ragione perché queste due categorie di persone fossero trascurate. I secondi hanno per lo più stipendi bassi, su cui duramente preme il rincaro della vita. I primi, anche quando godono di indennità di guerra, se le vedono assorbite ed al di là dalla doppia spesa del mantenimento proprio e della famiglia, che deve vivere separata. Che dire poi degli ufficiali, i quali hanno dovuto abbandonare la professione di avvocato, ragioniere, ingegnere, medico, o il commercio o l’ufficio di rappresentanze? Per costoro il richiamo è non di rado la rovina economica, la dispersione della clientela. Consumati i risparmi, non potendosi o non osandosi ricorrere ai sussidi governativi, la vita per la famiglia dell’ufficiale richiamato diventa dolorosa. Come può l’ufficiale incoraggiare i soldati, animarli alla resistenza se ha sempre dinanzi alla mente l’immagine della moglie, dei figli, della madre che egli non è in grado di mantenere decorosamente? Questo è un punto del problema dell’aumento dei prezzi che tocca davvicino la compagine dell’esercito e non può essere dimenticato.

 

 

Alcuni impiegati scapoli si sono allarmati per la differenza che vorrei fosse fatta tra essi e gli impiegati con prole e dicono:

 

 

  • la vita è rincarata per essi forse più che per gli impiegati ammogliati. Che cosa resta ad un impiegato a 100-150 lire al mese dopo pagata la stanza e due pasti al giorno, a 2 lire per pasto, in una modestissima trattoria? In famiglia, si possono fare economie che, per chi vive da solo e deve affidarsi a servizi mercenari, sono impossibili;
  • spesso si è scapoli perché si debbono mantenere madre e sorelle, vecchie o non capaci di lavoro produttivo. Perché punire costoro, che hanno sacrificato se stessi a beneficio altrui?

 

 

Poiché si tratta di ragioni giuste, fa d’uopo riconoscere che lo stato non può dimenticare gli impiegati scapoli nel concedere un aumento per il rincaro della vita. Tuttavia continuo a ritenere opportuno che ai padri di numerosa prole sia fatto, per ognuno dei figli minorenni superiori al numero di due o tre, un trattamento speciale. La sede più opportuna di questo trattamento sarebbe un condono od una minorazione d’imposta per tutti i padri di famiglia e non solo per gli impiegati pubblici. Nuovo argomento per istituire l’imposta di famiglia o sul reddito per conto dello stato.

 

 

Di tutte le situazioni economiche sovvertite dal rincaro dei prezzi la più dolorosa è sotto certi rispetti quella dei pensionati. Le pensioni, commisurate spesso a stipendi antichi, inferiori a quelli attuali, uguali al massimo agli otto decimi dello stipendio, decurtate dall’imposta di ricchezza mobile – e su di ciò non vi è nulla da osservare, finché per tutti non se ne muti l’assetto – e da una irragionevole e male costruita ritenuta del tesoro, sono in moltissimi casi insufficienti anche a condurre quella vita vegetativa che lo stato suppone debba essere la sorte dei suoi vecchi servitori e delle loro mogli. Per le vedove la pensione è uguale al terzo di quella del marito e talvolta si riduce a pochi soldi al giorno.

 

 

Dicono i pensionati: la pensione è una continuazione dello stipendio, è un compenso prorogato dei servizi che noi abbiamo prestato quando eravamo capaci di lavorare. Invece di uno stipendio di 120, senza diritto a pensione, lo stato ci pagò 100 col diritto a pensione. Se ora si aumentano gli stipendi, perché la moneta è rinvilita, bisogna aumentare anche le pensioni. O che la moneta non è rinvilita anche per noi?

 

 

Il problema delle pensioni è uno dei più grossi ed urgenti che nel dopo guerra dovranno essere affrontati. Impiegati mal pagati, carichi di debiti per la cessione del quinto, incapaci a risparmiare; e, divenuti vecchi, viventi esclusivamente della pensione: ecco il quadro miserevole della maggioranza degli impiegati pubblici. Vi sono le eccezioni, di coloro che hanno avuto maggior forza di volontà ed hanno una riserva di risparmio; ma sono eccezioni. È necessario che gli impiegati cessino di fare affidamento esclusivo su la pensione. Poiché esiste, l’istituto nazionale delle assicurazioni dovrebbe sovratutto proporsi, coll’aiuto del tesoro, di educare gli impiegati al risparmio. Essi dovrebbero potere, con le dovute garanzie, rinunciare in tutto od in parte alla pensione per formarsi un capitale. D’altro canto, mentre vi sono taluni impiegati troppo vecchi mantenuti in servizio, vi sono moltissimi impiegati ancor giovani od ancora robusti e vegeti che sono mandati a spasso a godersi la pensione, mentre potrebbero lavorare ancora. La mania dei limiti d’età sta danneggiando gravemente l’amministrazione italiana, per l’ammissione di troppi giovani nelle carriere burocratiche, i quali poi non troveranno sfogo in una carriera soddisfacente.

 

 

Frattanto però i pensionati ci sono e non è decoroso, non è umano che lo stato li costringa alla miseria. Il problema del rincaro della vita è stato creato dallo stato, con le sue emissioni di biglietti, ed è quindi suo dovere alleviare in parte gli squilibri più dolorosi che per quella causa si verificano tra coloro i quali prestano od hanno prestato servizi a suo favore.

 

 

IV

Le notizie pubblicate sui giornali dicono che i ministri stanno ancora studiando la questione dell’aumento dello stipendio agli impiegati. Ed è bene che il problema sia attentamente ponderato, per evitare errori, recriminazioni, malcontenti che toglierebbero efficacia morale al provvedimento e scemerebbero il valore del sacrificio ragguardevole sebbene non spaventevole, che i contribuenti sono chiamati ad addossarsi. Seguito a ricevere numerose lettere, le quali si intrattengono su casi particolari, che qui non possono essere esaminati per non dar luogo ad una casistica interminabile. Sembra a me che sovratutto importi adottare un criterio generale corretto, e quello applicare a tutti: impiegati e pensionati. Trascurare questi ultimi sarebbe ingiustizia, postoché la moneta per tutti è rinvilita. Potrà darsi che il criterio generale, buono in massima, dia luogo a qualche errore nei casi singoli, ad esempio, dando troppo agli scapoli senza parenti da mantenere od ai pensionati in buona età, provveduti di altro stipendio in impieghi privati. Trattasi però di mende inevitabili, a cui si potrà riparare in un secondo tempo.

 

 

Il punto essenziale è, ora, che non si commettano errori nella determinazione dell’aumento. Un errore facile, in cui comunemente si e incorso ed in cui non è escluso si possa incorrere anche stavolta, a quanto almeno si deduce dai comunicati dei giornali, sarebbe quello di calcolare l’aumento con percentuali decrescenti bensì, ma su tutto lo stipendio. Suppongasi, ad esempio, che si dica: L’aumento è del 30% per gli stipendi fino a 200 lire mensili, del 20% per gli stipendi da 201 a 500 lire e del 10% per quelli superiori a 500 lire. Una dicitura siffatta sarebbe uno sproposito tecnico e darebbe luogo a sperequazioni stridenti. Bisogna invece dire, conservando le medesime percentuali: L’aumento è, per tutti gli stipendi, del 30% per la parte dello stipendio che va sino a 200 lire mensili, del 20% per la parte che va da 201 a 500 lire e del 10% per la parte che supera le 500 lire.

 

 

Ecco come funzionerebbero i due sistemi, per alcuni stipendi tipici:

 

 

Aumento secondo il

Stipendio primo sistema erroneo secondo sistema corretto
100 30 30 – – = 30
200 60 60 – – = 60
220 44 60 + 4 – = 64
300 60 60 + 20 – = 80
400 80 60 + 40 – = 100
500 100 60 + 60 – = 120
550 55 60 + 60 + 5 = 125
600 60 60 + 60 + 10 = 130
700 70 60 + 60 + 20 = 140
800 80 60 + 60 + 30 = 150
900 90 60 + 60 + 40 = 160
1.000 100 60 + 60 + 50 = 170

 

 

Si vede subito perché il primo sistema sia sbagliato. Quando l’impiegato passa, per compiuto sessennio, da 200 a 220 lire al mese di stipendio, cade altresì da un aumento del 30%, ossia di 60 lire, ad un aumento del 20%, ossia di sole 44 lire. Prima aveva in tutto 260 lire, dopo ne ha 264, appena 4 di più, dopo sei anni di anzianità. Così pure, quando passa da 500 a 550 perde l’aumento del 20% per avere solo più quello del 10%, ossia il suo stipendio complessivo passa da 600 a 605 lire. Gli aumenti procedono a balzelloni, andando in su e poi calando e poi crescendo ancora per tornare a scendere e risalire, senza alcuna regola fissa. C’è qualche motivo ragionevole per dare 100 lire a colui che ha 500 lire di stipendio e sole 60 a chi ne ha 600 e di nuovo 100 a chi ne ha 1.000?

 

 

Tale errore, conosciutissimo in tema di imposta progressiva e da tempo confutato e messo nel dimenticatoio dai legislatori che appena appena ricordano i primi elementi della tecnica tributaria, viene corretto applicando il secondo sistema, che dicesi degli scaglioni. Con esso, tutti gli stipendi, grossi e piccoli, vengono divisi in porzioni. Alla prima, fino a 200 lire si dà il massimo aumento, del 30%. Alla seconda, fra 201 e 500, l’aumento medio del 20%, alla terza, sopra 500 lire, il minimo del 10%. Il sistema è un po’ complicato, ma solo in apparenza; poiché il tesoro può su un foglietto di carta far stampare un prontuario, con gli aumenti già bell’e calcolati per tutti gli stipendi immaginabili. Vedesi come l’aumento col secondo sistema procede regolare, senza contorsioni bizzarre ed inesplicabili. L’aumento, come è naturale, cresce ognor più lentamente quanto più ci avviciniamo ai gradi massimi. Dai a tutti, come è ragionevole, perché per tutti è cresciuto il costo della vita, sebbene in proporzione percentuale progressivamente e regolarmente decrescente col crescere dello stipendio. L’aumento è proporzionatamente massimo per gli stipendi fra 200 e 500 che sono il grosso degli stipendi pubblici. Anche le percentuali del 30, 20 e 10 mi paiono ragionevoli sia in rapporto ai bisogni degli impiegati, sia in relazione al carico dello stato, che fa d’uopo non crescere oltremisura.

 

 


[1] Con il titolo L’urgente problema degli impiegati. [ndr]

[2] Con il titolo Aumenti di stipendio, risparmio e prestito. (A proposito degli impiegati privati, ufficiali, maestri e pensionati). [ndr]

[3] Con il titolo Per evitare un possibile errore tecnico nell’aumento degli stipendi agli impiegati. [ndr]

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